La scelta dei poveri

Ricordi, Carolina, la parabola che lessi domenica? Sì, te la ricordi, era la parabola  del fattore disonesto che per rimediare i danni che aveva fatto, cominciò a distribuire i  beni del padrone. E il Signore lo lodò. La parabola terminava con queste parole: anche  voi fatevi degli amici con le ricchezze dell’iniquità affinché possiate essere accolti in  questo tempo, in questo mondo, nei tabernacoli, nelle case che sono abitate da coloro  che usano le ricchezze per creare amicizia, per creare comunione tra gli uomini, non per  separarsi dagli uomini.  

La parabola di oggi ha lo stesso tema. Gli uomini sono divisi in due categorie, i  ricchi e i poveri. Ci sono quelli che ammassano ricchezze e se ne servono per la loro  gioia, per la loro tranquillità, per i loro pranzi, per gozzovigliare, e non vedono che alla  porta della sala dove banchettano c’è il povero che domanda le briciole. Erano chiusi  nelle ricchezze che il Vangelo di domenica chiamava le «ricchezze dell’iniquità», perché  ogni ricchezza è sempre frutto di iniquità… Un grande Papa nel primo medioevo  diceva: cosa sono i grandi regni? Sono soltanto il risultato di grosse ruberie, e pensava  all’impero romano. Ed è vero, anche le nostre ricchezze sono sempre il risultato di  qualcosa che non mettiamo in circolazione e ce ne serviamo per noi, per costruire dei  palazzi, per costruire delle grandi casate, per i nostri banchetti, per le nostre soddisfazioni personali, e ammassandole per noi, le togliamo ad altri.  

La nostra società soffre di questo. Io non saprei trovare la formula della  distribuzione equa e giusta della ricchezza, perché tutti i tentativi sono sempre  imperfetti e insufficienti, ma forse la formula che ci indica Cristo riguarda noi  personalmente. Sono io che devo mettere in comunione con tutti gli altri quanto può  cadere sotto la mia proprietà. Cristianamente è così. Il bene che noi possiamo possedere  – una casa, un nome, un’abilità – non deve servire per noi, ma deve essere trasformato in  sacramento che crea comunione fra gli uomini. Se io ritengo avidamente il poco che ho  e lo nego ad altri, non lo metto in comunione, sono fuori del cristianesimo, fuori della  verità cristiana. Questo ci diceva la parabola di domenica scorsa, e questo ci viene  sottolineato oggi con un’immagine molto più incisiva: quella del ricco che si gode i suoi  beni sulla terra e non si accorge del povero che è alla porta e che è pieno di mali. È  talmente disgraziato questo povero Lazzaro, che trova pietà soltanto dai cani, che gli  vanno vicino e gli leccano le piaghe. Gli unici ad aver pietà. Noi si dice: queste son cose  di altri tempi, non è vero, son cose anche del nostro tempo.  

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Quello che, mi sembra, la parabola di stasera ci voglia sottolineare è il fatto che  noi uomini abbiamo la possibilità di vivere su due livelli differenti dell’essere, su due  piani: il piano nel quale vive il ricco, che pensa soltanto al suo ventre, alla sua gola, ai  suoi piaceri, alle sue sensazioni; e il piano dell’uomo diseredato, che pensa a cose che  vanno ben al di là dei beni che possono riempire il nostro ventre o che possono dare  soddisfazione alle nostre passioni esteriori, alle passioni che sono legate alla nostra realtà fisica.  

Se guardate la storia degli uomini, chi è che ha dato impulso al nostro  incivilimento umano? Chi è che ha portato nella nostra anima quei valori che ancora  sono in noi e sono stimolanti e ci rendono più uomini? Sono sempre stati gli emarginati,  che potevano essere grandi artisti, grandi filosofi, grandi pensatori, grandi santi, grandi  illuminati, che sono passati nella società. E la società potente, la società di quelli che  hanno successo nella vita, non li ha neppur notati. Magari li ha notati dopo e, come  succede ancora nei nostri tempi, se ne è servita per esaltarli in modo da immunizzarli.  Come succede a noi: a Firenze abbiamo avuto un grande prete, don Milani1, e ora tutti  ne fanno il panegirico. Un tempo era pericoloso scrivere una lettera o andare a trovare  don Milani, allora tutti se ne guardavano. Ora, siccome è morto, e viene assorbito da un  particolare sistema nostro di vita, anche di vita religiosa, viene esaltato come un eroe.  

L’unico modo per ammazzare un eroe è quello di considerarlo come eroe.  L’unico modo per rendere impotente nella nostra Chiesa la presenza di un santo è  quello di dichiararlo santo. Quando c’è una canonizzazione state sicuri che quel santo  viene ucciso. Lo preghiamo, andiamo davanti a san Francesco, siamo affascinati dalla  figura di san Francesco, ma messo sugli altari, avvolto dagli incensi della  canonizzazione, nessuno sente più che è stato un uomo che in mezzo alla sua società  stimolava gli altri a pensare alle cose che appartengono non al piano della vita fisica, ma al piano della vera vita dell’uomo, dei veri valori. Infatti i grandi artisti del tempo di san  Francesco, che hanno colto il suo messaggio, lo hanno espresso in una fioritura di arte  che forse mai nella storia dell’umanità è stata risvegliata da una grande figura di santo e  di illuminato come è stato san Francesco.  

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Se voi passate un momento, così, rapidamente il pensiero su tutti i grandi che  hanno dato alla nostra umanità qualcosa per essere più uomini, vedrete che sono tutti  stati ignorati, o emarginati, o sono morti nella povertà, alcuni addirittura morti nella  schiavitù, oppure morti tragicamente come è morto Cristo e come sono morti un’infinità  di altri uomini grandi, oppure morti nella miseria. Però loro hanno dato, perché  vivevano la vera vita dell’uomo, che non è la vita nel mondo sensibile, nel mondo dei  beni terreni, una vita di ricerca delle soddisfazioni che appartengono puramente alla  nostra esteriorità e al nostro fisico; erano uomini che cercavano di capire il mistero delle  cose, della vita, dell’uomo, il senso dell’esistenza, che si domandavano: perché io sono  nato e perché nella terra amo? perché nella terra trovo difficoltà e opposizioni? qual è il  senso della vita e qual è il senso della morte? E muovendosi in questo piano, che è un  piano che non dà ricchezze per fortuna, sono vissuti poveramente, magari del tutto  ignorati, ma hanno dato i veri valori all’uomo. Quei valori che ancora sono dentro di  noi e che ci spronano a superare tutte le pesantezze che ordinariamente costituiscono la  nostra vita quotidiana.  

La parabola di staserà ci pone appunto davanti a queste due possibilità di  impostazione della nostra vita. Una vita puramente alla ricerca dei beni, e ci sentiamo  tristi se non abbiamo l’automobile più potente di quella del vicino, ci sentiamo infelici  se non abbiamo un certo numero di case, il conto in banca, successo nella vita. Questa è  la vita del ricco Epulone. Perché, quando siamo presi da questi interessi, dimentichiamo  l’altra realtà umile e grande dell’umanità che è costituita dai poveri e dagli uomini che  cercano veramente il significato dell’esistenza umana, e da coloro che generosamente si  consumano per poter raggiungere nella loro vicenda personale la grandezza alla quale  ogni uomo è chiamato.  

Non vi sembra che sia così? In noi ci sono delle aspirazioni che ci portano a  incollarci alle cose terrene, ai cosiddetti beni, alle cosiddette ricchezze, al successo,  all’affermazione di noi stessi nei confronti degli altri. Ma in noi ci sono anche altre  pulsioni che sono superiori, e sono quel tormento interiore che ci spinge a domandarci:  ma perché esisto? perché esistono gli altri? perché la vita è composta così? perché c’è la  morte? perché c’è il dolore? perché c’è la sofferenza? perché c’è la nobiltà e l’ignobiltà  nell’esistenza? perché c’è la grandezza morale dell’uomo e c’è anche lo squallore morale  dell’uomo? Ci sono con l’uomo, che, preso da questi grossi problemi, vive in una  dimensione del tutto differente. È la dimensione del povero Lazzaro. E tra la  dimensione di Lazzaro e la dimensione del ricco Epulone c’è un abisso insondabile che  può essere superato soltanto dall’uomo che ascende e che da il giusto valore alle cose  della sua esistenza, alle cose palpabili e concrete della sua esistenza, valore che anche  questa parabola ribadisce, che è un valore di comunione.  

Il ricco Epulone pensava soltanto a se stesso e dimenticava Lazzaro e i tanti «lazzari» che erano al di fuori della casa. Ma se avesse avuto l’attenzione e la sapienza  di seguire certe ispirazioni del suo essere, che lo portavano a pensare differentemente e  ben al di la delle sue ricchezze, allora si sarebbe accorto dei tanti «lazzari» che erano  fuori della sua porta. E allora avrebbe preso i suoi panni e tutta l’imbandigione della  sua mensa e l’avrebbe distribuita affinché diventasse un bene di comunione e lui  sarebbe vissuto non nel primo stadio dell’esistenza umana, che è uno stadio puramente  biologico, fisico, ma avrebbe cominciato a vivere in un piano differente di esistenza.  

Solo l’uomo che ha queste preoccupazioni centrali dell’essere, che cerca una vita  più degna dell’uomo e della verità dell’uomo, e affronta tutti i problemi cercando di  viverli e di risolverli vivendoli, solo quest’uomo entra in quella dimensione che nella  parabola del Vangelo – Cristo parlava il linguaggio del suo tempo e del suo popolo – viene descritta come il «seno di Abramo», cioè il regno di Dio e dell’amore, o il regno  dell’uomo: quello spazio dove l’uomo è veramente uomo. E avrebbe dovuto fare come il  fattore infedele: prendere quello che aveva e trasformarlo in sacramento di comunione  con tutti gli altri uomini.  

Questo, come vedete, è possibile soltanto attraverso un cambiamento di mente  personale, perché tutte le trasformazioni che possono avvenire nella società e che sono  stimolate dall’aspirazione dell’uomo verso una dimensione differente, più nobile, più  grande, tutte le altre soluzioni non possono avere un qualunque risultato, una  qualunque efficienza se i singoli che si incamminano verso queste soluzioni non  aspirano a quel regno superiore, a quella dimensione superiore, verso la quale l’uomo è  chiamato. 

E allora cosa dobbiamo fare noi cristiani? Dobbiamo cominciare a guardare con  umiltà le cose che appartengono alla nostra vita ordinaria, e domandarci se riusciamo a  transustanziare, a cambiare la sostanza delle cose che tocchiamo in modo da renderle  non oggetto della nostra avidità, della nostra proprietà, ma sacramento di comunione.  Le cose mie non sono mie, sono di tutti. Questo è il cristianesimo che dobbiamo  raggiungere nella nostra esperienza personale di vita. E quindi dovremo nascere di  nuovo, cioè superare una chiusura che è connaturata a noi uomini, per entrare in una  dimensione differente, cioè passare dall’egoismo alla generosità, dall’istinto del  possesso al gesto del dono, dalla chiusura in noi stessi alla realtà della comunione con  tutti gli esseri. Allora cominceremo a essere cristiani.  

Volevo farvi notare anche un’altra cosa: ogni volta che Cristo ci addita un  maestro, non ci addita mai un uomo. Egli dice ai suoi discepoli: non mi chiamate  maestro, perché uno solo è il maestro. E questo maestro è invisibile. Però ogni tanto ci  mette davanti a degli insegnamenti che ci sono portati sempre da creature che noi  ordinariamente, nel nostro orgoglio umano, sottovalutiamo: «guardate gli uccelli  dell’aria, guardate i gigli del campo». E nella parabola di stasera ci dice: guardate i cani,  che sono gli unici ad aver pietà di quel disgraziato che è alla porta della casa del ricco.  Allora stasera, vedi Carolina, abbiamo come grandi maestri i cani. I cani che hanno  pietà di questo disgraziato, perché nel cuore del cane c’è la fedeltà, c’è la misericordia,  che spesso manca nel cuore degli uomini.  

Pensiamo a questa parabola, senza tirar fuori tutte quelle problematiche che sono  secondarie, l’eternità dell’inferno, eccetera. Non c’entrano niente con questa parabola.  Perché chi è nell’inferno? È l’uomo egoista, l’uomo avido di beni terreni, l’uomo avaro,  l’uomo insensibile verso gli altri: vive continuamente nel terrore, nelle fiamme, nella  paura di perdere quello che ha. Mentre l’uomo generoso, l’uomo che crea i beni col suo  modo di essere, non ha paura di niente. E vive nella dimensione del Paradiso, nella  dimensione del regno di Dio.

Lorenzo Milani (Firenze 1923 – ivi 1967). Sacerdote cattolico. Di colta famiglia israelitica, battezzato durante le persecuzioni razziali, nel 1943 entrò in seminario a Firenze. Ordinato prete nel 1947, fu, fino al 1954, cappellano coadiutore a San Donato di  Calenzano, dove aprì una scuola popolare. Trasferito poi a Barbiana, centro del Mugello in via di spopolamento, vi fu priore e si  dedicò fino alla morte a fare scuola per i ragazzi del paese. Scritti: Esperienze pastorali (1958), ritirato perché ritenuto «non opportuno» dal Sant’Uffizio; L’obbedienza non è più una virtù (1967), raccoglie una lettera aperta in difesa dell’obiezione di co scienza al servizio militare e una lettera ai giudici del processo cui, in conseguenza della prima lettera, il Milani fu sottoposto;  Lettera a una professoressa (1967), redatto in collaborazione con gli allievi della scuola di Barbiana; Lettere (1970). Nella pratica sacerdotale, negli scritti, nell’insegnamento, di larga risonanza anche fuori dal mondo cattolico, il Milani ha proposto  l’acquisizione della cultura da parte dei diseredati come mezzo di riscatto delle classi contadine e del sottoproletariato nelle attua li società industrializzate.