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don Marco Pozza – Commento al Vangelo di domenica 19 Luglio 2020

Permesso di soggiorno temporaneo al male

Il male è una di quelle storiacce che fa male: un certo male, poi, fa tanto di quel male da farti stare davvero male. Un vero e proprio ladrocinio di Lucifero. I discepoli, sfrontati, sono subito pronti a gettare addosso a Cristo la colpa: «Non hai seminato del buon seme nel tuo campo». Che è come dire: “Se Dio esiste, il male da dov’è che viene?” Lui, praticante agricolo con passato di carpenteria, di faccia ce ne ha una sola: «Un nemico ha fatto questo».

Attenzione, amici miei: i nomi e i cognomi esistono perchè ognuno è responsabile di ciò che compie. Le persone peggiori sono quelle che sanno quali tasti toccare per farti male e poi ci schiacciano sopra tutto il peso della loro barbarie. Benvenuta, zizzania: geloso da morire, il maiale di Lucifero si diverte ad infestare il campo di grano perchè non è capace di sostenere il peso della sfida. «Il mondo è un posto pericoloso – scrive Einstein – non a causa di quelli che fanno male, ma per causa di coloro che stanno a guardare senza fare niente». La replica di Gesù all’ingegnosità di quegli amici – «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» – , però, è scioccante: «No!» Un no secco, deciso, senza diritto di replica, una sentenza di cassazione. E’ il no del grande sospetto: “Dio, dunque, permette il male dentro la storia?” Una di quelle leccornie gradite a Satana: “Dio è geloso della vostra felicità, svegliatevi gente! Non vedete quanto male c’è nel mondo per continuare ancora a credere alle sue favole?” Dio colluso con il male se non fosse che, abile comunicatore, motiva il suo no, non lasciandolo in balìa delle interpretazioni: «No – dice – che non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano assieme fino alla mietitura. Poi dirò…!»

Nel campo, dunque, c’è anche del grano, non solo zizzania. A dare retta ai discepoli, pareva che la zizzania la facesse da padrona, fino a farli sproloquiare: “Se Dio esiste, da dove viene tutto questo male?”. Cristo-agricolo, nello stesso campo, vede del grano: “Se Dio non esiste – m’immagino risponda loro al ritmo di sguardi e batticuori – da dove viene tutto questo bene?” Lo stesso campo, la stessa fusione di grano e zizzania, una diversa visione d’insieme: i primi vanno dal loro Dio a rinfacciarli di avere grossi problemi con la zizzania, Gesù va dalla zizzania a dirle di avere un grande Dio con sè. “Pazzesco: Dio lascia crescere il male, tutto questo è una bestemmia!” va urlando il mondo. Tace, però, il motivo vero di questo permesso di soggiorno: «Che raccogliendo la zizzania con essa sradichiate anche il grano». È per salvaguardare la più piccola spiga di grano che Dio contadino sopporta di veder maturare anche la zizzania: che per troppa veemenza, volendo strappare il male, non si rovini un piccolo chicco di bene. Secoli dopo, il grande mistico Francesco di Sales riassunse quest’arte agricola applicata alle anime: «Nella cura delle anime – scrisse – occorrono una tazza di scienza, un barile di prudenza, un oceano di pazienza». Lo dimostra la storia: le cose peggiori sono state fatte con le migliori intenzioni. E quando ci si trova a scegliere tra due mali, varrà bene ricordare che si tratta comunque di un male.

Quel campo – inseminato di grano, infestato di zizzania – è l’uomo, sono io quel campo, quest’incomprensibile miscuglio di bene e di male, di vizi e virtù, di grano e zizzania. Ci sono giorni nei quali sono tutto-zizzania, altri in cui appaio una sorta di brochure di grano DOC. “Io-sono” in base a chi mi affido, di chi mi fido: «Il nemico è il diavolo, la zizzania sono i Figli del Maligno». Nomi e cognomi, è tutto così chiaro! Com’è chiaro e drammatico l’azzardo del Dio-agricolo: nel suo cuore la salvaguardia della più piccola percentuale di bene vale molto più della estirpazione totale del male. Sembra essere una forma pericolosa di demenza, è l’amore: nessuna forzatura alla libertà, la sola pazienza d’attendere fino allo scadere del tempo. Allora, alla zizzania, non verranno concesse proroghe: «Il male ha la sua ora, ma Dio ha il suo giorno» (F. Sheen). Il Demonio è avvisato.

Commento a cura di don Marco Pozza

(Qui tutti i precedenti commenti al Vangelo di don Marco)

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Bibbia, Arte e Società – Commento al Vangelo di domenica 19 Luglio 2020

Un commento al Vangelo partendo da varie prospettive:

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don Paolo Squizzato – Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020

O diventiamo ‘integrali’, o saremo sempre ‘integralisti’. Tertium non datur.
Scoprirsi integrali significa abbracciare il mondo che ci abita, nella sua interezza: il bene e il male, la luce e la tenebra, il bianco e il nero. Non c’è alcun bisogno di mutilarci e di ferirci per superare la nostra ombra. Sarebbe solo follia. Siamo unitotalità. La zizzania, l’erba cattiva e infestante è parte integrante di noi.

La domanda sottesa a questo brano è: “ma se tu – Signore – sei il Bene, perché il male, e soprattutto il mio male?’.
Gesù nel Vangelo non spende una parola sull’origine del male, ma soprattutto non ha mai fatto apologetica per giustificare la divinità. Piuttosto lascia preziose indicazioni su come trattare il male. E spiazzandoci non poco, ci suggerisce di non estirparlo. Noi pensiamo che essere discepoli significhi intraprendere un lento cammino di pulizia nel proprio campo interiore e soprattutto nell’ambiente in cui viviamo, in modo tale che alla fine rimanga un bel prato inglese, privo della più piccola erba infestante. Strappare la zizzania, distruggere il male dentro e fuori di noi, significa decuplicarlo, significa perpetrare altra violenza, altro odio. Si vince il male solo investendo sul bene facendolo.
«Non rendete male per male né ingiuria per ingiuria, ma rispondete augurando il bene» (1Pt 3, 9).

Dal vangelo si evince che Dio ha in qualche modo necessità del mio mondo malato, del mio peccato perché si manifesti il suo essere vita e salvezza: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». (Gv 11, 4). Le nostre, e altrui, malattie esistenziali, non devono diventare occasioni di morte ma luogo dove l’amore e quindi la vita vi si possano manifestare. Paolo ha cercato per una vita di distruggere la spina nella sua carne (cfr. 2Cor 12, 7ss), ma Dio gli ha rivelato: «lasciala stare in te, lasciala crescere in te, non toglierla perché quella è lì per farti memoria di chi sono io: potenza nella debolezza, bene nel male, salvezza dove tutto parla di distruzione». E l’apostolo ha percepito finalmente la vita salvata: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 12, 9b).

Il male non può far fallire il progetto di bene di Dio su di me e sul mondo, ma piuttosto accelerarlo e compierlo.
Allora da qui una domanda: ci interessa di più scoprirci splendidi campi disinfestati, puliti, ‘santi’, o piuttosto storie che per quanto sporche e insulse hanno la possibilità di fare esperienza di un Amore che viene a farci visita rivelando la sua e la nostra verità? Il cristianesimo non è l’esperienza di coloro che ce la fanno, ma di un amore che viene a cercarci. Entrassimo in questa logica evangelica guariremmo da inutili e sensi di colpa. Cesseremo di piangere sul latte versato per cominciare a farlo per aver sperimentato l’amore di una madre che ci abbraccio dopo averlo fatto.

Alla fine la mietitura comunque avverrà e il giudizio di Dio si compirà. E cosa accadrà in quel momento? La zizzania sarà distrutta, consumata, bruciata. Ma attenzione, solo il male che è presente nell’uomo e non l’uomo che ha fatto il male. Nel nostro brano non viene rimproverato l’uomo che si è trovato della zizzania nel suo campo. Lui non ne può nulla. E la zizzania viene bruciata. Il male che abbiamo compiuto, la nostra mancanza di misericordia, il nostro non essere riusciti a configurarci con l’amore del Padre, verrà distrutto dall’amore di Dio, che tutto salva (cfr. 1Cor 3, 11ss.).

«Bisogna accettare tutto, ogni cosa, senza eccezione alcuna, in sé e fuori di sé, in tutto l’universo, con lo stesso grado di amore; ma il male in quanto male, il bene in quanto bene». (S. Weil, Cahiers, II)


AUTORE: don Paolo Squizzato
FONTE
SITO WEB: https://www.paoloscquizzato.it
CANALE YOUTUBE:
https://www.youtube.com/channel/UC8q5C_j3ysCSrm1kJZ4ZFwA

Commento al Vangelo di domenica 19 Luglio 2020 a cura di Fabrizio Giannini

Seguo la Tua Parola!

Commento alla Liturgia domenicale di Fabrizio Giannini

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Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020 – don Giovanni Berti (don Gioba)

Questa è la mia parabola di Gesù preferita. Non che le altre raccolte nel Vangelo siano meno belle e ispiranti, ma in questa ho sempre trovato una specie di antidoto spirituale per tutte le mie difficoltà di vita e di fede.
Gesù usa questa immagine del campo di grano misto a zizzania (pianta molto simile all’inizio della crescita ma profondamente diversa come esito) prima di tutto per parlare di sé stesso e della sua azione nel mondo.

Gesù per i suoi contemporanei non è come ci si aspettava. Delude molto le aspettative del messia potente e decisivo che appena appare nel mondo subito divide bene e male, buoni e cattivi, salvati e perduti. Gesù entra nel mondo e si manifesta pian piano, partendo da una giovane ragazza di una regione remota, la Galilea, nascendo in modo tutto sommato piccolo e nascosto, opera in città e villaggi di pescatori e dopo un iniziale successo sembra pian piano perdere terreno dal punto di vista della fama e del seguito. E poi la cosa più scandalosa e disorientante è che quando incontra quelli che sono considerati pubblicamente dei peccatori e impuri, non opera mai giudizi ma pratica accoglienza, ascolto e guarigione. E invece se la prende spesso con chi ha le idee chiare dove sta il giusto e lo sbagliato, come i farisei.

C’è un modo di dire che si usa spesso, che è quello di “contare fino a mille…” prima di reagire difronte ad una situazione negativa e nell’esprimere giudizi sulle persone. Ammetto che a volte fatico a contare fino a due e reagisco “di pancia” nelle situazioni di contrasto. E quante volte sono stato smentito e mi sono dovuto ricredere verso situazioni e persone. “Contare fino a mille” mi costringe a fermare la reazione e provare a vedere l’altro con pazienza e nella sua complessità. E il “tempo della misericordia” che rallenta il giudizio e lascia spazio alla comprensione.

Questo è il tempo di Gesù, che durante la sua missione come uomo tra gli uomini, li guardava nella loro vita complessa con la certezza di base che in ognuno Dio ha seminato del bene. Gesù vedeva il seme di Dio in tutti anche se non sempre era evidente in mezzo ai tanti sbagli ed errori! Gesù aveva quella lentezza che lo portava a credere che nel campo di vita di chi aveva davanti, anche fosse il peggior peccatore e la persona più lontana da lui, c’era del bene che non andava mai strappato. La fretta del giudizio che spesso abbiamo come uomini sia a livello umano e molto di più a livello religioso, rischia davvero di renderci più veloci di Dio stesso nel giudicare e quindi alla fine fare il contrario di quello che è il suo stile, lo stile di Gesù.

Gesù insegna con questa parabola così semplice ma efficace che il suo tempo e così anche il nostro non è quello del giudizio ma quello della misericordia, del perdono, della pazienza, dell’ascolto vero dell’altro, della seconda e terza e quarta opportunità, della ricerca del più piccolo segno e occasione di bene…
Ecco perché è la mia parabola preferita, perché mi ricorda che anche in me stesso c’è il grano buono in mezzo alla zizzania, che c’è sempre del bene in mezzo al male che spesso sperimento e che rischia di deprimermi.

Questa parabola mi invita a fare altrettanto con quel che mi succede attorno e con le persone che incontro, soprattutto con quelle con le quali mi scontro. Misericordia, pazienza, ottimismo… e niente fretta! Contare fino a mille… lentamente per non strappare quel bene che Dio ha messo sempre nel campo della vita. E così alla fine sperimento anche io la cosa più bella che rende Dio quel che è nel profondo: amore e misericordia!

Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)


Commento al Vangelo di domenica 19 Luglio 2020 – p. Alessandro Cortesi op

“Il regno dei cieli è simile ad un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo”. Dopo la parabola del seminatore altre parabole sulla semina: quella del seme e della zizzania che crescono insieme nel campo altre, quella del seme di senapa e infine una breve parabola del lievito.

Le parabole costituiscono un linguaggio proprio di Gesù. Parlano di vicende quotidiane che potevano essere vissute da chiunque lo ascoltava. Ed in esse c’è sempre rinvio ad una realtà nuova, la vicinanza di Dio che cambia la storia prendendo le parti dei poveri e chiamando ad una trasformazione dei rapporti. Dio apre ad un futuro di liberazione e salvezza.

Gesù annuncia che è iniziato un tempo nuovo, in cui Dio interviene per adempiere la promesse dei profeti: ‘Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie’ (Is 53,4; cfr.Mt 8,17). E’ dono di speranza e di incontro per tutti, che non pone confini di appartenenza culturale e religiosa che richiede solamente fiducia in lui (cfr Mt 8,5-17).

Le parabole rivelano una prima attitudine di Gesù nei confronti delle persone: il suo parlare toccava la vita, richiamava all’esperienza umana, invitava ad uno sguardo profondo sulle cose di tutti i giorni, sulle realtà semplici e ordinarie lontane dalla sfera della religione. Con ciò indicava che nell’esperienza di tutti i giorni è racchiuso un tesoro, vi è qualcosa da cercare: è la presenza del Dio vicino, liberatore.

Le parabole sono anche una chiamata: parlano sempre del ‘regno di Dio’: nella quotidianità è già presente il dono di una vita nuova. Le parabole nel loro essere racconti e paragoni richiamano a questa ‘novità’ e ad un impegno da accogliere.

Le tre parabole di questa pagina richiamano alcuni tratti del ‘regno dei cieli’. In primo luogo il regno non si afferma senza fatica e senza lotta; esige pazienza e attesa. Non risponde alle esigenze del magico e dell’immediato; richiede invece uno sguardo che si lasci formare allo stile di Dio. Grano e zizzania crescono insieme: il regno cresce ma ci sono elementi che possono soffocare il grano buono.

C’è chi vorrebbe subito fare chiarezza, mietere con violenza, separare i buoni dai cattivi. La parabola presenta la novità del regno: lo stile di Dio è la fiducia nella crescita, la pazienza dell’attesa, lo sguardo dei tempi lunghi. Il sogno di Dio è che alla fine anche la zizzania possa diventare grano perché il Padre non vuole che nessuno vada perduto.

E’ una parola su Dio. Ed è anche una chiamata ad essere responsabili del proprio ambiente: il regno cresce in mezzo a fatiche e lotte, nella difficoltà, ma la fiducia va riposta nella fecondità del seme buono gettato. Gesù presenta lo stile di Dio, non del freddo giudizio ma della cura appassionata.

Una seconda caratteristica del regno è la sproporzione: la parabola del seme di senapa presenta la differenza tra la piccolezza del seme di senape e la grandezza spropositata dell’albero. Il regno non si impone con mezzi grandiosi, ma è presente in realtà minuscole e che non attirano attenzione: Dio sceglie ciò che è debole, piccolo e disprezzato. A partire da quel seme quasi invisibile cresce un albero molto grande.

Una terza caratteristica del regno è la sua forza che fa crescere dall’interno: l’azione del lievito nella pasta, la fa levare con la sua energia nascosta. Gesù indica l’azione quotidiana dell’impastare. Seguire lui è intendere la propria vita come il lievito, in un movimento al servizio di una realtà più grande: nella pasta della storia e dell’umanità c’è un servizio da compiere per la crescita di una realtà più grande. Nascosto nella pasta il lievito si perde ma fa crescere la vita e offre la sua forza per una crescita di qualcosa di più grande.

Gesù indica anche uno stile: non la separazione, la contrapposizione nella condanna dell’altro, ma la silenziosa azione, la condivisione che fa crescere piano piano, non cercando il proprio interesse ma perdendosi all’interno della realtà. Questo è il modo di agire di Dio, che lascia spazio, condivide e scende. Questo dovrebbe essere lo stile dei discepoli, lievito nella pasta della vita e della storia.

Fonte


p. Alessandro Cortesi op

Sono un frate domenicano. Docente di teologia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose ‘santa Caterina da Siena’ a Firenze. Direttore del Centro Espaces ‘Giorgio La Pira’ a Pistoia.
Socio fondatore Fondazione La Pira – Firenze.

don Roberto Seregni – Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020

Sono passati molti secoli da quando Gesù narrò la parabola del grano e della zizzania, ma le sue parole sono estremamente attuali. Il maestro vuole mettere in luce un atteggiamento che spesso, purtroppo, caratterizza le nostre comunità a qualsiasi latitudine e longitudine: il giudizio.
Forse può sorprendere che il padrone di casa non voglia sradicare la zizzania che cresce insieme al grano.
Gesù non nega la necessità della separazione, la sua non è indifferenza al bene o al male. Il maestro, semplicemente, annuncia che il tempo del giudizio non è ancora arrivato e, comunque, per fortuna, non spetta agli uomini.

È interessante sottolineare che anche Giovanni Battista si aspettava una bella pulizia generale. Annunciando il Messia, infatti, disse: “Nella sua mano tiene il ventilabro e pulirà la sua aia, raccogliendo il grano nel granaio e gettando la paglia nel fuoco” (Matteo 3,12).
Ma Gesù fa tutto il contrario: non allontana i peccatori, non punta il dito contro chi era etichettato come la zizzania della società.
Il maestro non si circonda di perfettini e primi della classe, tra i dodici – lo sappiamo – c’è gente con un passato discutibile e tra di loro c’è pure il traditore.
I mietitori impazienti che vogliono sradicare la zizzania, assomigliano a chi vuole comunità di perfetti e gruppi esclusivi di primi della classe e dimenticano che la chiesa è una comunità di peccatori che ha fatto esperienza del perdono e della paziente misericordia del Padre.
Quante persone si sono allontanate dalle nostre comunità e parrocchie perché non hanno incontrato nemmeno l’ombra dell’accoglienza e della tenerezza di Gesù?
Quanti fratelli e sorelle si sono sentiti giudicati e condannati dai nostri sguardi?
Quanti confessionali si sono trasformati in sale di tortura e non in oasi di misericordia?

Coraggio, amici! Superiamo la tentazione del giudizio, smettiamo di comportarci come i mietitori della parabola, allarghiamo il nostro sguardo ed estendiamo le frontiere del cuore.

Un abbraccio
Don Roberto

Se vuoi continuare a meditare sulle parabole di Gesú, mi permetto di consigliarti il mio testo “Risillabare la Parabole”, edito con Ancora. È un libro scritto per essere letto personalmente, ma anche in gruppo (di giovani, di famiglie, di volontari…). Ogni capitolo, infatti, termina con domande per riflettere e condividere la Parola.


Don Roberto (prete missionario della Diocesi di Como) – Sito Web

Fonte: il canale Telegram “Sulla Tua Parola“.

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Fabio Quadrini – Commento al Vangelo di domenica 19 Luglio 2020

Ma cosa significa «zizzania»?

Gli studiosi e i linguisti propongono varie tesi etimologiche, ma la radice certa da cui far derivare «zizzania» rimane molto dubbia.
C’è chi afferma che codesto sostantivo possa ricavarsi dal verbo greco sinóo/sínomai, che significa «nuocere/danneggiare».
C’è chi indica, invece, quale tema portante un altro verbo greco, ovvero izáno/ízo, che vuol dire «posare/collocare», ma che, in senso figurato, può arrivare a valere «cadere/perire».
Ebbene, dato che siamo nel campo delle ipotesi, anche noi azzardiamo la nostra interpretazione, e ce la facciamo suggerire direttamente dal testo evangelico odierno.

Nel versetto di Mt 13, 25 troviamo un verbo, ovvero «dormivano», il quale nel greco del Vangelo è reso con katheúdein.
Tecnicamente kath-eúdo (da cui la coniugazione katheúdein) significa «sotto/giù-riposare/quietare».
Tuttavia, come sempre, è interessante andare ad approfondire la radice.
Orbene, il verbo eúdo è strettamente connesso al tema di euné/énnumi, termini che significano «letto/vestire», ma che intendono, come senso profondo, l’idea dell’«entrare dentro/penetrare/riempire» (come non sentire, da euné/énnumi, il nostro «nanna»).
Dato atto di quanto, nel greco zizánion («zizzania») è possibile ritrovare tanto il suono quant’anche il tema euné/énnumi.
Difatti, non è forse vero che nel campo la zizzania «dormiva» (eúdo) assieme al grano? Non è forse vero che la zizzania «aveva penetrato/riempito» il campo, «entrando dentro» (euné/énnumi) assieme al grano?
E da ciò è molto interessante notare come la preposizione eu, che qui assume valore di «pienezza/pienamente», valga come prima accezione «bene/buono/dolce» (Cf. eu-tanasia [«dolce-morte»]).
Molto spesso, invero, la «zizzania» penetra «dolcemente», e sembra esattamente il grano, «vestita» come il grano, ovvero «buona/bene» come il grano («[…] non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano» – Mt 13, 29).

Ma non ci basta.
Nel nome «zizzania» vogliamo ascoltarci non solo la radice di euné/énnumi, ma riteniamo opportuno intravvedere in questa «zizz-ania» un composto.
Ebbene, uno dei vari temi del verbo greco gígnomai («essere/nascere/divenire») è esattamente gig/gigen (rammentiamo che «g» in greco si pronuncia e suona sempre «gh»).
A seguito di ciò, è da rilevare come in glottologia e in fonetica «g» e «z» spesso arrivino ad essere lo stesso, tanto è vero che due settimane or sono parlavamo di «g-iogo», che in greco è z-ugós (Cf. GIOGO). A corollario di ciò si pensi all’inflessione dialettale emiliano-romagnola, che spesso fa scivolare la «g» proprio in una pronuncia che tende a «z» (ad esempio «z-enitori» per «g-enitori»); oppure al fatto di come i genovesi chiamino «Z-ena» la loro «G-enova».
Di ciò dato atto, quindi, nel greco zizánion («zizzania») è possibile ritrovare il composto gigen- énnumi, che se volessimo renderlo letteralmente andrebbe ad intendere un «generare che penetra dentro», ovvero un «essere intrufolato».
Difatti, rileggendo il versetto di Mt 13, 25, non è forse vero che ritroviamo tutto il nostro percorso («Ma, mentre tutti dormivano [katheúdein], venne il suo nemico, seminò della zizzania [zizánia] in mezzo al grano e se ne andò»)?

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Ebbene, bastandoci per oggi queste poche righe, forse troppo tecniche (o forse troppo azzardate? Noi crediamo proprio di no), semplifichiamo, in chiusura, un messaggio che è possibile trarre dal Vangelo di questa domenica, il quale sembra esattamente scritto proprio per questi giorni (nei quali stanno spuntando testi di legge sull’omotransfobia).

Sveglia cattolici!

Il nostro sonno è terreno fertile per la zizzania, la quale chetamente si insinua utilizzando ogni possibile via; la quale va astutamente a confondersi col grano, grazie al fatto che le viene concesso di indossare il «vestito» del «rispetto della dignità umana» e dell’«uguaglianza».
Non sia la nostra fede a crogiolarsi nel sonno, ovvero nel tepore (o meglio nel timore) del politicamente corretto, perché il nostro dormire è l’eutanasia più nociva, è l’eutanasia dei valori, dei veri valori, veri non perché appartenenti ad un gruppo di persone religiose, ma veri perché da Dio (la famiglia per essere tale esige un papà e una mamma: e questo è nostro dovere proclamarlo con forza, senza timore né vergogna: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» – Mc 8, 38).

Tuttavia, il Vangelo odierno, ci invita a non temere, ma a continuare e a confidare in Gesù Cristo, anche quando la nostra opera sembra vana; anche quando attorno al seme da noi gettato e distribuito spuntano continuamente le infestanti: la zizzania, invero, sarà certamente prima legata in fasci e poi bruciata; il grano, invece, riempirà il granaio del Signore.

Ma «vano» sia, quantomeno, attributo del nostro umano operare; giammai effetto del nostro dormire: c’è forse vergogna nel proclamarsi cattolici e agire da cattolici? È vergogna dirsi appartenenti al Signore Gesù Cristo?

Fonte

Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.wordpress.com/category/sindone/


Giovani di Parola – Commento al Vangelo del 18 Luglio 2020

Quando qualcuno vuole attaccarci la prima reazione che tendiamo ad avere è quella di porci sulla difensiva, cercare uno scontro per far capire all’avversario chi siamo e spingerlo a desistere nel suo intento.

Ma se guardiamo al Vangelo di oggi, Gesù fa proprio il contrario: non cerca uno scontro con chi vuole farlo morire, ma se ne allontana. Nella vita di tutti i giorni interpreteremmo questo gesto come un gesto codardo di chi vuole evitare qualsiasi tipo di scontro perché si sente inadeguato.

Oggi Gesù ci insegna a non rispondere all’attacco con la violenza e lo scontro, ma a mostrarci ancora più forti allontanandoci da tutte quelle situazioni che inaridiscono il nostro cuore e compromettono le nostre relazioni. Egli non è venuto a scontrarsi con gli uomini, ma per salvarli e offrire un esempio di forza che non presuppone la violenza e la supremazia.


Logo Giovani di ParolaFonte:

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don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 18 Luglio 2020

La volontà di Dio è volontà di vita. Egli non castiga se la nostra fiamma è debole, ma la fa diventare luminosa. Non rompe ciò che è sul punto di spezzarsi, ma si fa medico e guarigione. Non grida, perché se la voce di Dio suona aspra non è la sua voce. Alla verità basta un sussurro. Non spezza la fiamma debole: in ogni uomo, anche nel più smarrito, c’è sempre un soffio di fumo, segno di fuoco morente, certo, ma soprattutto di fuoco possibile ancora. A Dio basta un po’ di fumo: lo lavora, lo circonda di cure e speranza, soffia fino a che ne sgorga nuovamente la fiamma.
Il Dio che riconosciamo incarnato in Gesù è il Dio servitore della vita incerta. Davanti a lui, allora, sono libero, come davanti a nessuno, libero persino di non essere forte, di non essere grande, libero di essere debole.

Ci sono tre no nel programma del servo di Yahvè:

“non griderà, né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce”: caratteristica del Messia non è l’arroganza, non l’insulto, neppure il coprire la voce degli altri. Il suo stile non sarà caratterizzato da spettacolarità. Dal giorno del battesimo riconosci che Gesù  ha un umile sentire di sé.

“non spezzerà la canna incrinata…”: sua caratteristica sarà ancora l’essere sostegno ai vacillanti. Non lo caratterizzerà la distanza dalla gente che fatica, ma la condivisione di quella stessa esperienza. Anch’egli segnato da fragilità e debolezza.

“non verrà meno, non si spezzerà finché non avrà stabilito il diritto sulla terra”: sua caratteristica la fedeltà al progetto del Padre fino in fondo.

Questo lo stile del Figlio di Dio: questo lo stile dei figli di Dio. Come lui anche noi immersi in questo programma di vita: non gridare, non spezzare, non venir meno.

E il segno della nostra appartenenza alla comunità cristiana non è soltanto una celebrazione rituale, ma questo stile di vita.


AUTORE: don Antonio Savone
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