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don Marco Pozza – Commento al Vangelo di domenica 26 Luglio 2020

La scaltrezza della perla

La perla aveva risposte bellissime, forse nessuno però le aveva mai fatto domande all’altezza: “Ci sono anni che fanno domande – si sarà detta per farsi coraggio – e ci sono anni che danno risposte”. Sapeva, tuttavia, che una perla è senza alcun valore finchè resta dentro la conchiglia. Somiglia ai sogni, oppure i sogni assomigliano alle perle: a restare nascosti perdono di splendore, a tenerli chiusi nel cassetto fan la muffa. Un giorno, poi, capita che un mercante scenda per strada alla ricerca di perle: «Il Regno dei cieli è simile ad un mercante che va in cerca di perle preziose». Cercare è fissare un appuntamento al buio con la conoscenza: più che un andare a zonzo come un vagabondo, il mercante gioca a nascondino. “Tu sei andata a nasconderti – bisbiglia sottovoce alla perla –, io mi divertirò a cercarti”. Cercare una perla, ogni mercante lo sa bene, è cogliere così tanta documentazione da potere scrivere cento favole. Seguirne la carriera è dare la caccia al mistero e all’avventura: ogni perla, alla fine dei conti, è una risposta che il mare dà di una conchiglia. Il mercante e la perla preziosa: inizio.

Il giorno che l’uomo trovò il tesoro – «Un uomo lo trova, lo nasconde, poi va, vende tutti i suoi averi, compra quel campo» – fu tutta un’altra storia. Quel giorno chissà perchè era uscito: per andar dal barbiere, dal commercialista, dal capoufficio. E, andando, per caso s’imbattè in un tesoro. Stavolta, invece, esce proprio per andare a cercare perle: «Va in cerca di perle preziose», si è messo in testa che nulla gli avrebbe causato più gioia di rincasare con una perla: gli piaceva, probabilmente, l’incantesimo che l’attraversa. Per riuscire nell’impresa, non basta la sua ricerca: occorre che la perla collabori, gli apra casa sua. Ecco: «Trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi, la compra». Che un mercante si metta a cercarla non è materia sufficiente per la riuscita di una conquista: è necessario che la perla, fiutando d’essere cercata, lasci che il mercante la trovi. Avrebbe anche potuto starsene nascosta e il mercante mai sarebbe riuscito a custodirla tra le dita. La cosa curiosa è che, cercata, la perla si è lasciata trovare: “Eccomi, mercante di perle preziose: son io la tua perla, ho sentito i passi da lontano, ho indovinato il tuo sguardo, ho riconosciuto d’essere al mondo per te. Prendimi in mano, infilami nella collana della tua donna, fammi sentire preziosa. Mi sono lasciata trovare: ero stanca di rimanere nascosta”.

Forse, altre volte, era rimasta nascosta: la perla è timida, troppo preziosa per non provare paura, è di una riservatezza dorata. C’è anche chi, con le perle, ama giocare a biglie invece che farci una collana: “State attente a darvi ai porci – avrà insegnato la mamma alla perla – che i porci si crederanno ostriche”. Non basta cercare una perla per trovarla: è necessario che la perla si lasci trovare. Non basta che quel mercante di Cielo ch’è Dio esca per andar a cercare l’uomo e la donna: è tantissimo sapersi cercarti da Dio, molto più che sapersi cercati da chi si ama o da chi si è invaghiti. Non basta, però: è necessario che l’uomo e la donna si lascino trovare dal Dio-mercante. “Sono troppo sporca per lasciare che Dio mi prenda in mano! Sono così lurido che mi nascondo quando passa Dio. Il fatto è che mi vergogno a farmi trovare ridotto così” pensa l’uomo. Nel frattempo Dio passa, cerca, scandaglia gli abissi e s’inerpica sulle altezze: nessuna perla! E “nessuna perla” è l’altro nome dell’avvilimento di Dio. “Che m’importa della tua sporcizia – è la sua trattativa con la perla che non vuol farsi trovare -: vieni qui, ti cerco per come sei, nessuna lordura avrà potuto scioglierti. Ti pulirò, verrai in mano mia, tornerai a brillare!” Dalla perla, stavolta, dipende il destino stesso del mercante: è un mendicante quanto esce di casa, è un principe quando ritorna a casa con la perla. Quando torna senza, ci sono giorni che capita, ha la faccia addolorata: non ha potuto costringere la perla. L’ha cercata, (ri)tornerà domani.

Diommercante, in amore, ha idee chiare: o c’è consenso, oppure è violenza.

Commento a cura di don Marco Pozza

(Qui tutti i precedenti commenti al Vangelo di don Marco)

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Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo di domenica 26 Luglio 2020

Il tesoro e lo scriba

Dividiamo il presente commento in due parti. Nella prima leggiamo integralmente la pagina della liturgia di oggi. Dopo, daremo spazio a un approfondimento sulla parabola del tesoro nascosto.

Si conclude con questa domenica il capitolo delle parabole del Regno nel Vangelo secondo Matteo. Ne abbiamo addirittura tre, molto brevi, tutte introdotte dalla formula «il regno dei cieli è simile a…». Le prime due parabole, quella del tesoro e della perla, sono accomunate dall’idea di un ritrovamento: «il regno dei cieli, strettamente parlando, non è simile a un tesoro, tanto meno è simile a un mercante: ma è simile a quello che succede quando si scopre un tesoro, o quando un mercante trova una perla di grande valore» (Mello), ma anche nell’ultima parabola passa il messaggio che qualcosa (i pesci), nascosti sotto il mare, possano essere trovati e raccolti.

Diversi sono i denominatori delle nostre parabole. Il primo potrebbe essere dato dall’opposizione “sopra”-“sotto”: il tesoro, la perla, i pesci, sono nascosti, cioè “sotto” la terra, sotto altre perle di minor valore, sotto il mare. “Sopra” c’è la superficie, l’apparenza, uno strato che impedisce di vedere fino in fondo. Non che ciò che si vede sia finto, tutt’altro: vi è però anche una realtà più profonda, sommersa, un mondo che c’è, ma nemmeno si immagina possa esistere finché non lo si scopre. Ricordiamo tutti quanto scriveva nel Piccolo Principe De Saint-Exupéry: «L’essenziale è invisibile agli occhi; non si vede bene che col cuore». Per trovare il tesoro, scovare la perla preziosa, pescare dei buoni pesci, bisogna cercare “sotto” qualcosa, e cercare (come vedremo) sapientemente.

Il secondo denominatore è dato dalle conseguenze del ritrovamento. Chi trova un tesoro deve rinunciare a tutto il resto, che deve vendere per comprare il campo dove il tesoro è nascosto; chi trova la perla deve fare lo stesso; chi ha visto i pesci sotto la superficie del mare non può fermarsi a contemplarli ma subito deve tirare le reti prima che i pesci scappino, e poi con fatica deve portare la barca a riva.

La terza realtà dipende dalla precedente: la gioia. Se è espressamente citata solo nel caso del ritrovamento del tesoro («pieno di gioia vende i suoi averi», Mt 13,44), possiamo immaginarci che anche i pescatori esulteranno quando trovano di che vivere, e il mercante possa senza dubbio essere soddisfatto per l’affare che sta per concludere. Se si deve rinunciare ai propri beni, a quello che si ha, a qualcosa che dà sicurezza, non è mai per un’ascesi fine a se stessa o per il gusto della rinuncia: è per la gioia, perché il Regno porta una ricompensa infinitamente più grande di quanto si deve lasciare per entrarci. La stessa logica, sembra, è usata da Gesù per spiegare che chi lascia i beni o gli affetti per il Regno avrà già in questo mondo la gioia del centuplo (cf. Mt 19,29).

Infine, possiamo notare che sotto i simboli del tesoro e della perla si cela forse una realtà che è quella della Sapienza. Ricordiamo la donna forte di Proverbi 31,31, paragonata alle perle («una donna virtuosa chi potrà trovarla – cioè scovarla, come si scova un tesoro – superiore alle perle è il suo valore»), e che però è essa stessa probabilmente immagine della Sapienza. Le nostre parabole dicono come sia molto più saggio rinunciare al poco per avere il molto, come sia molto più intelligente aprire le mani piuttosto che tenere stretto un tesoro per paura di perderlo. Anche Gesù non ha “tenuto stretto” il suo tesoro, l’essere Dio (cfr. Fil 2,6), pur di salvare il suo popolo.

Molti studiosi ritengono che nel Vangelo secondo Matteo sia particolarmente importante l’ultima frase del nostro discorso parabolico: lì è Gesù a dire che «ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52), ma in realtà si potrebbe leggere dietro queste parole l’autoritratto di Matteo, l’evangelista. Il nome Maththaios (Matteo) ha qualche assonanza con il greco che traduce “discepolo”: mathetes (cf. “diventare discepolo”: matheteuo), e questa parola interpreterebbe bene il ruolo svolto da questo scriba, istruito nella Torah (le cose antiche), che viene però da lui vista in una luce nuova, quella del Regno annunciato dal Messia Gesù (le cose nuove). Non tutti sono d’accordo: Hagner, ad esempio, ritiene che nella Chiesa giudeo-cristiana delle origini molti possano essere considerati come questo “nuovo tipo di scriba”. Anzi, potremmo aggiungere: ognuno che ancora oggi è capace di comprendere le parole di Gesù, anche quelle più difficili («Avete capito tutte queste cose? Gli risposero: Sì»; Mt 13,51), che quindi sa leggere anche oltre la superficie delle cose, questi è davvero come quello scriba sapiente che «penetra le sottigliezze delle parabole, indaga il senso recondito dei proverbi e s’occupa degli enigmi delle parabole» (Sir 39,2), e che ora può andare alla scuola del Maestro.

Dio conceda anche a noi, oggi, “il discernimento dello Spirito” per comprendere la Sua parola e così «apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del suo regno» (Colletta).

 

La parabola del tesoro nascosto: approfondimento

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo».

Questo versetto del vangelo di Matteo di oggi fa parte del terzo discorso di Gesù, centrato sul Regno di Dio. È una parabola esclusivamente matteana, che non si trova negli altri vangeli canonici, ma ha un parallelo nell’apocrifo Vangelo di Tommaso.

Il Signore, anzitutto, offre la proposta di una similitudine: non abbiamo una concettualizzazione astratta sul Regno, ma la storia di un tesoro e di una persona, anthrōpos, che trova quel tesoro nascosto. Il Regno dei cieli, ci dice anzitutto la forma della parabola, non è un principio, una regola, un’astrazione, ma qualcosa di molto concreto – come un tesoro – che tocca la vita di una persona, di un uomo o una donna. È così ogni volta che Gesù parla del Regno: invano cercheremmo una sua definizione nei vangeli: le definizioni sono nei buoni dizionari biblici e teologici. Nei vangeli non ci sono; ci sono solo esempi, parabole, similitudini, come quella che stiamo leggendo, e che inizia proprio così, con la frase «homoia estin»: “è simile…», non “è esattamente…”.

Il tesoro di cui parla Gesù non è stato perduto da qualcuno – alludiamo alle tre parabole di Luca del capitolo quindicesimo sulla pecora, la moneta, e il figlio minore che si smarriscono – e quel tesoro nemmeno deve essere “costruito”, come si costruisce una casa (quella di cui si parla, la casa sulla roccia o sulla sabbia, alla fine di questo capitolo tredicesimo del vangelo di Matteo). Il tesoro c’è, c’è già, anche se è nascosto.

Non si dice perché sia nascosto, e chi l’abbia interrato in un campo; e Gesù non rivela nemmeno che cosa contenga. Una situazione molto diversa da quella descritta nel famoso Rotolo di Rame (3Q15), trovato nella grotta numero 3, vicino a Qumran, con un elenco di un’immensa quantità di tesori nascosti tra Gerusalemme, Gerico e il Garizim, e che iniziava così: «…nella rovina che si trova nella valle di Akor, sotto le scalinate che vanno verso est per quaranta cubiti, c’è una cesta d’argento, il cui peso complessivo è di diciassette talenti. Nella tomba nella terza fila di pietre ci sono 100 lingotti d’oro…», e così via (trad. F. García Martínez). Qualche archeologo ha organizzato delle spedizioni alla ricerca dei tesori della mappa di Qumran, ma non risulta che siano mai stati scoperti. Il tesoro di cui parla Gesù è molto diverso, ma c’è, lo assicura lui, perché qualcuno l’ha proprio trovato.

Il verbo che descrive lo stato di quel tesoro è kryptō: è nascosto “sotto”, come le cripte delle chiese antiche. Sotto la superficie, come delle altre cose di cui parla Gesù in questa stessa sezione del discorso sul Regno, la perla preziosa e i pesci. La prima c’è, ma è mischiata ad altre perle, false, senza valore: si trova sotto altre perle, nascosta in mezzo al mucchio. Anche i pesci sono sotto la superficie dell’acqua del mare di Galilea – è quello il luogo da cui Gesù sta parlando – il lago davanti a Cafarnao: i pesci non si vedono, sono “nascosti”, ma ci sono.

Il tesoro, dice la parabola, c’è e viene trovato. I commentatori si sono soffermati a lungo sulla modalità di questo ritrovamento, e si sono divisi per capire se si tratti di un ritrovamento “fortuito”, senza meriti (Turner, Luz) o dovuto ad una ricerca. Il detto dell’apocrifo Vangelo di Tommaso, che dipende da Matteo, ha una sua versione: «Gesù dice: “Il Regno assomiglia a un uomo che aveva nel suo campo un tesoro nascosto, ma non sapeva che fosse lì. E dopo che fu morto, lo lasciò a suo figlio. Ma nemmeno il figlio sapeva che fosse lì. Il figlio si fece carico di quel campo e lo vendette. E colui che l’aveva comprato vi andò e, mentre lo arava, trovò il tesoro”» (VgTom 109; trad. Puig i Tàrrech e C. Gianotto).

La versione apocrifa è molto interessante, ma anche molto diversa da quella di Matteo. Nel Vangelo di Tommaso il tesoro è trovato fortuitamente, ma nell’originale di Matteo non si chiarisce se il verbo heuriskō (trovare) lasci intendere che piuttosto che “cercato”. Forse, a mio parere, dato che nel vangelo di Matteo il verbo trovare appare poco avanti, nel “Discorso della montagna”, quando Gesù dice che bisogna prima cercare per trovare – «cercate e troverete» (7,7) – si può dire che per trovare quello che è nascosto “sotto”, si deve cercare di vedere meglio: sottoterra, per trovare un tesoro; tra tante false perle, per trovarne una preziosa; sotto la superficie dell’acqua, per fare una buona pesca. Come il mercante che la perla va a cercarla, e come il pescatore che decide di uscire con la barca, anche quell’uomo potrebbe aver capito che un tesoro va cercato.

Trovato il tesoro, è la gioia che permette al protagonista della parabola di tornare a casa per vendere tutto: la vera storia della parabola, sostiene qualcuno (così, ad es., Bovon), inizia proprio da questo punto. Ma prima, si dice che dopo aver scoperto il tesoro, quell’uomo lo nasconde di nuovo.

Quanta differenza tra questo atteggiamento e quello probabile di un nostro contemporaneo, che forse avrebbe postato subito la notizia su un social media, allegando magari la posizione del tesoro via whatsapp, sperando così di poter veder crescere il numero delle proprie amicizie e dei contatti.

La parabola di Gesù invece dice che è necessario un tempo di riservatezza, un’attesa non meglio quantificabile, la salvaguardia di un segreto. Ci torna alla mente quello che si legge nel libro di Tobia, quando l’anziano padre raccomanda al giovane figlio di «tenere nascosto il segreto del re» (Tb 12,7), presumendo forse quel detto egiziano antico, «Non parlare delle cose del Faraone quando bevi della birra» (Wisdom of Ankhsheshonqy 16:16), ovvero: stai attento perché, magari un po’ ubriaco, puoi rivelare qualcosa che non dovresti, come il povero Renzo de I Promessi Sposi, che, ubriaco, rivelerà il suo nome al poliziotto dell’osteria della Luna Piena, e da lì a poco verrà arrestato, e sarà costretto a scappare per anni…

Nascondere il tesoro per poter comprare il campo esprime l’idea che si tiene profondamente a quello che si è trovato; che si riconosce che è importante, che si deve fare di tutto per non perderlo, evitando che, magari perché si è distratti o presi da altre cose, si torni poco dopo in quel campo e si scopra che il tesoro non c’è più.

 

Dopo aver nascosto di nuovo il tesoro, chi l’ha trovato fa qualcos’altro di molto importante: vende tutto ciò che ha per comprare il campo. E da ciò si potrebbe dedurre che chi ha trovato il tesoro non sia un benestante, ma un bracciante che deve avere il coraggio di lasciare tutto quello che aveva. La parabola di Gesù, a questo proposito, si distingue notevolmente dalla versione del Vangelo di Tommaso, dove chi trova il tesoro è già ricco, e non ha bisogno di vendere nulla per comprare il campo. Si distingue anche da storie, favole, leggende che circolavano già nell’ambiente giudaico e altrove, commentate da lunghe discussioni giuridiche, testimoniate anche nel Talmud e nel diritto romano, circa il diritto di trattenere qualcosa di prezioso che veniva trovato nella proprietà altrui. Gli esegeti della parabola, poi, hanno anche discusso per capire se chi trova il tesoro agisca immoralmente o contro la legge, nascondendolo di nuovo, senza rivelare la cosa al proprietario del campo… (cf. Davies – Allison)…

Ma la parabola non vuole dirci nulla a riguardo, e non deve essere letta moralisticamente. Qui, piuttosto, si insiste piuttosto sulla gioia. È la stessa gioia di quei sapienti venuti dall’oriente che, sempre nel Primo vangelo, dopo aver cercato nel cielo, vedendo la stella «provarono una gioia grandissima» (Mt 2,10).

La prova che si tratta di un tesoro vero – che non è una fake news – è dunque la gioia. Questa parola, che ci riporta al documento fondamentale del pontificato di papa Francesco, Evangelii gaudium, ci dice che le vere scoperte della vita, ciò che davvero conta, ci portano alla gioia. Ha ragione il Santo Padre a metterci in guardia dalle tristezze che invece vengono dalle false scoperte che caratterizzano il «mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, [che porta con sé il rischio di] una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata» (EG 2). C’è solo una gioia vera, quella che accompagna la vera scoperta, e lo sappiamo.

A leggere meglio il testo greco, però, vi troviamo ancora qualcosa di più. Dalla traduzione CEI si evince che quell’uomo venda tutti i suoi averi e compri il campo, e tutto questo «pieno di gioia»: la gioia, cioè, accompagnerebbe queste due azioni, pōleō, vendere, e agorazō, comprare. Ma la preposizione apo, prima di gioia, è piuttosto causale (cf. Zerwick): “a causa della sua gioia”, dovremmo tradurre; “per la gioia” si può vendere e comprare, si può lasciare tutto per quel tesoro. Lo stesso traduce la CEI quando «apo tes charas» si trova in Lc 24,41, e si legge che «per la gioia i discepoli non credevano ancora ed erano pieni di stupore» davanti al Risorto. Anche san Girolamo aveva capito la sfumatura, e traduceva infatti che prae gaudio illius quell’uomo va a vendere tutto. Insomma, la gioia non è solo una condizione che caratterizza il nostro protagonista: è ciò che lo muove davvero. A causa di quella gioia, che forse (si può pensare) non aveva mai sperimentato prima, ci si può muovere e si può osare.

Potremmo usare la stessa metafora della “Chiesa in uscita” per dire che l’acquisto di quel campo comporta davvero l’uscire da uno spazio o da uno stato che ci garantivano sicurezza. Vendere tutto ciò che si possiede non è affatto facile: e infatti, nei vangeli, è ben nota la storia di quel giovane che non riesce a seguire Gesù perché aveva paura di lasciare quello che aveva (cf. Mt 19,16-22).

Siamo alla conclusione. Sono tante le possibili interpretazioni di questo versetto del vangelo. Nella sua spiegazione probabilmente più antica, quella contenuta nella versione del Vangelo di Tommaso che abbiamo ricordato, si parla della vita dello gnostico che «in un mondo (il campo) pieno di persone (l’uomo e suo figlio) che non conoscono l’accesso al Regno della luce e della verità (il tesoro nascosto) c’è una persona (il compratore del campo) che si impegna per trovare la conoscenza (ara il campo) […]» (cf. C. Gianotto), ma nella parabola originaria c’è qualcosa di più semplice. Il suo significato principale sembra stare piuttosto nel fatto che una volta scoperto il Regno – come si trova un tesoro in un campo – si deve fare di tutto per ottenerlo (cf. Davies – Allison).

Questa parabola allora pone anche a noi lettori di oggi alcune domande, che possono essere declinate in senso ecclesiale e pastorale, e che si possono formulare in questo modo.

1) Siamo convinti che ci sia davvero un tesoro? O rischiamo di pensare che non ci sia? La parabola dice che c’è, ma è nascosto. Così, commenta qualcuno, «il regno può essere presente, ma non viene percepito ancora» (Hagner). C’è forse qualcosa del Regno che non fatichiamo a vedere, che non vediamo, di cui nemmeno ci accorgiamo?

2) E cos’è per noi oggi il tesoro (qualcosa che esprime il Regno) che potremmo trovare? Come lo immaginiamo? Qual è la “cosa” più importante per cui, anche per la chiesa, si può lasciare tutto pur di comprare il campo in cui è nascosta? Nella tradizione biblica, spesse volte il tesoro rappresenta la sapienza, come in Proverbi 2,4 («Figlio mio, se… tendendo il tuo orecchio alla sapienza… la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori…») o in Siracide 20,30. Vorremmo che fosse qualcosa di particolare, e magari lo immaginiamo come le ricchezze tangibili dei quintali d’oro del Rotolo di rame? Siamo noi che stiamo decidendo cosa sia il tesoro? O forse non dovremmo arrenderci a trovarvi quello che ci viene donato, come quando da bambini potevamo aprire i regali dei nostri genitori, e non potevamo nemmeno immaginarci quello che ci fosse dentro?

3) Posto che un tesoro c’è, anche se non lo vediamo, dove lo cerchiamo e cosa facciamo per averlo? Quale campo stiamo arando (per riprendere il detto del Vangelo di Tommaso)? Dove investiamo, cioè, le nostre energie?

4) Siamo sicuri che stiamo davvero vendendo quello che abbiamo – e per essere molto concreti – che stiamo spendendo bene i nostri soldi, per comprare il campo dove c’è il tesoro? Oppure prendiamo tempo, non siamo sicuri di dover fare questo “investimento”, e, soprattutto, non lasciamo quello che dobbiamo? Ha ragione chi ha commentato (come U. Luz) che per comprare il campo dove c’è il tesoro, il protagonista accetta un grande rischio, quello di vendere tutto. Siamo disposti a correrlo?

5) Infine, e forse è la domanda che le racchiude tutte. Cos’è che ci muove, che muove la nostra chiesa, le nostre chiese? È la gioia, o è altro? Ci muove la paura (magari di perdere qualcosa), ci muove l’abitudine, l’inerzia, la disperazione? C’è una gioia che ci permette di spostarci, per vendere e comprare?


p. Arturo MCCJ – Commento al Vangelo del 26 Luglio 2020

Matteo ci dona altre 3 parabole, tutte introdotte dalla formula «il regno dei cieli è simile a…». Gesù non smette di parlare della presenza di Dio, è qualcosa di più forte di lui, come quando succede una cosa bella nella nostra vita e non possiamo fare altro che condividerla. Potremmo dire che con queste 3 parabole Matteo, nel sottofondo, ci ricordi che tutti possono incontrare Dio: chi per caso, chi cercandolo e chi inciampandovi dentro.  Anche se molto diverse tra loro c’è qualcosa che le accomuna: il tesoro, la perla, i pesci sono tutti nascosti, da qualche parte. L’occhio nudo non riesce a vederli, ma qualcosa avviene e li fa affiorare. C’è sempre una esperienza, un incontro, o la fine di una ricerca esistenziale che ci porta a intravedere la presenza e l’azione di Dio nelle nostre vite. Ma non basta percepire, le parabole insistono sul fatto che trovare non significare possedere. Chi trova un tesoro deve rinunciare a tutto il resto, chi trova la perla deve vendere tutto le altre che considerava preziose e chi ha visto i pesci sotto la superficie del mare non può fermarsi a contemplarli ma deve fare uno sforzo per raccoglierli.

Infine  tutte e tre ci dicono che chi fa il salto, vendendo, comprando e pescando riceve come ricompensa subito una cosa: la gioia (anche se viene citata solo nella prima parabola). Se si deve rinunciare ai propri beni, a quello che si ha, a qualcosa che dà sicurezza, non è mai per un’ascesi fine a se stessa o per il gusto della rinuncia: è per la gioia, perché il Regno porta una ricompensa infinitamente più grande di quanto si deve lasciare per entrarci. Non si tratta di vivere facendo sacrifici, infatti la parola “sacrifici” nel vangelo di Matteo appare solo due volte ed è per negarli. 

In queste parabole Gesù invita a vedere nell’esperienza di Dio il cammino certo per  la pienezza di vita alla quale ogni persona  aspira. In verità, secondo la terza parabola, Dio non è così nascosto da non farsi trovare. “È simile a una rete gettata in mare che raccoglie ogni genere…”. Dio accoglie tutti, non fa distinzioni e ciò che viene scartato non è una pesce buono o cattivo , che rende l’idea di un giudizio morale ma una pesce vivo da uno morto, putrefatto.  La parabola ci fa intendere che chi trova e accoglie l’invito di Gesù  e ne diventa discepolo (il nome pesce in Greco è l’acronimo della parola CRISTO) verrà riconosciuto da Dio nell’ultimo giorno. Si, perché con quest’ultima parabola sul Regno Matteo vuole ricordarci che Dio non è solo invisibilmente presente ed attuante nel nostro ora , ma lo sarà anche nel giorno del giudizio dove coloro che hanno seguito Gesù saranno riconosciuti come pesci (cristiani) sani, pieni di vita e non morti/putrefatti e quindi da gettare nel fuoco. 

«Avete compreso tutte queste cose?» Gli risposero: «Sì». Ecco la conclusione nella quale l’evangelista probabilmente mette la sua firma: comprendere e scegliere il mistero di Dio alle certezze, alle delusioni e credere nel concreto che le nostre vite siano guidate, alimentate e sostenute da questa sua presenza invisibile che ci guida ai valori del bene e della vita. Chissà se noi cristiani del XX secolo abbiamo capito o meno queste cose?  Voi che ne pensate???

Buona domenica!


Fonte: Sito Web

Il canale Telegram “Vedi, Ascolta, VIVI il Vangelo”.

Un luogo dove ascoltare ed approfondire la Parola con l’apporto di P. Arturo, missionario comboniano ?? ???????????, teologo biblista. Se vuoi comunicarti con loro, scrivici a paturodavar @ gmail.com BUON CAMMINO!!!

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don Marco Scandelli – Commento al Vangelo del 26 Luglio 2020

Il commento di don Marco Scandelli

Il Regno dei cieli: la possibilità di compimento della nostra vita!

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AUTORE: don Marco Scandelli
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don Claudio Bolognesi – Commento al Vangelo del 26 Luglio 2020

Trovare la gioia – il Vangelo della XVII domenica anno A

Dal Vangelo di oggi:
“Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo”. (Mt 13,44)
 
Il Regno, il rapporto bello con Te c’è. Lo doni Tu, non lo inventiamo noi. Lo troviamo soltanto. Diventa nostro se ce ne prendiamo cura. Se ci accorgiamo della gioia che ci dona. Di quanto vale. Se lo coltiviamo nella giustizia.
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Commento al Vangelo del 26 Luglio 2020 – don Giovanni Berti (don Gioba)

“il mio tesoro…” sibila con la sua voce gracchiante Gollum, completamente soggiogato dal potere dell’anello che vuole tenere ad ogni costo! Gollum è una figura fondamentale nella storia de “il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, che in un mondo immaginario popolato da personaggi fantastici narra lo scontro tra bene e male, e tutto ruota attorno ad un anello magico che riesce a possedere chi lo possiede, facendolo passare anche dalla parte del male. È quello che capita al povero Smeagol che venuto in possesso dell’anello forgiato dall’Oscuro Signore Sauron, pur di non perderlo viene trasformato nell’ambiguo Gollum, e proprio per la bramosia finirà distrutto anche lui insieme all’anello nel baratro infuocato di Orodruin.

Il Signore degli Anelli è diventato una saga cinematografica grazie al regista Peter Jackson che ha saputo ritrarre bene Gollum nella sua continua ambiguità tra bene e male proprio a causa del terribile anello.

Gesù parlando del Regno dei cieli, cioè della presenza e azione di Dio nel mondo, usa due esempi che in qualche modo hanno un legame con questa storia di Tolkein. Nella parabola dell’uomo che trova un tesoro nel campo, colpisce la determinazione di questo uomo nell’entrare in possesso del campo che nasconde il tesoro. L’uomo è disposto anche all’inganno pur di avere quel campo che non è suo. Nasconde il tesoro che ha scavato, non dice nulla, tanto meno al proprietario, e vende tutto per acquistarlo. Quel tesoro è il suo tesoro anche se forse non ne avrebbe diritto. Così come il cercatore di perle che trova la perla che cercava e per farla sua è disposto a rischiare tutto quel che possiede.
In questi racconti del Vangelo mi sembra davvero di rivedere la bramosia di Gollum e di tutti coloro che nella saga di Tolkien sono disposti a qualsiasi cosa, anche a perdere se stessi, per avere quel tesoro.

Gesù vuol far leva su questo desiderio profondo del tesoro per spingere ad interrogarci quanto ci teniamo davvero a Dio nella nostra vita. Dio, la sua Parola, la sua presenza e azione nella mia storia sono davvero un tesoro per me? Cosa sono disposto a dare per questo tesoro? Lo sento davvero come un “mio tesoro”?

Gesù ovviamente non sta pensando a Dio come ad una idea astratta, ma a Dio come scelta di vita, come “regno” concreto nel mondo. Ritenere Dio come tesoro della mia vita non è semplicemente e astrattamente il “credere che Dio esista”, ma avere Dio come punto di riferimento concreto per ogni mia scelta concreta di ogni giorno, in ogni situazione. Dio, come in qualche modo l’anello della storia di Tolkien che possiede chi lo possiede, vuole possedere me e modificare la mia vita nel profondo. Ma mentre l’anello forgiato da Sauron è per il male, Dio vuole condurmi al bene e modificare in bene la storia umana attraverso di me.

Gesù quindi mi invita a scavare con attenzione dentro il terreno delle mie giornate, dentro le relazioni che ho con le persone, dentro la mia comunità cristiana a cui appartengo, dentro anche quello che ho nel cuore e scoprire il tesoro di Dio, la perla preziosa della sua presenza. Devo scavare a fondo e cercare con attenzione evitando quindi di rimanere sempre superficiale e distratto come atteggiamento di vita spirituale, altrimenti rischio di non accorgermi del tesoro di Dio che mi sta sotto i piedi o sotto il naso.
Gesù alla fine dei suoi discorsi aggiunge un’altra immagine usando ancora la parola “tesoro”. Se divento discepolo scavatore e cercatore di Dio, alla fine la mia vita si trasforma come in una stanza di cose preziose che si accumulano e diventano sempre disponibili per me e per chi mi incontra. Se sono discepolo di Gesù imparo a trovare e a custodire la preziosità di Dio dentro la mia vita che diventa essa stessa un vero tesoro che altri possono trovare.

E sentirò nel profondo del cuore la voce di Dio che tenendomi in mano dice “il mio tesoro!”.

Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)


Paolo de Martino – Commento al Vangelo di domenica 26 Luglio 2020

Per la terza domenica consecutiva la liturgia ci consegna una pagina di parabole.

Matteo dice che la vita è una caccia al tesoro.
Questo tesoro, altro non è che il Vangelo stesso, ovvero la bella notizia che Dio è Padre, Amore assoluto, misericordia senza limiti; che io sono figlio amato e che l’altro è un fratello da amare come il Padre ama me.

Toh… chi l’avrebbe detto: la vita cristiana è una bella avventura e non solo un formale rispetto di codici e leggi per stare in pace con la coscienza e guadagnarsi la vita eterna.
La stragrande maggioranza dei cristiani pensa alla fede come un ricettario di comportamenti da rispettare per poter mettere tanti bei timbri sulla propria tessera e guadagnarsi un bel posticino in paradiso… Gesù, per fortuna, dice che la vita cristiana è qualcosa di ben diverso!
Non si tratta solo di cose da fare o da non fare, regole da rispettare o cavilli da non trasgredire. Se il cristianesimo fosse solo questo sarebbe una tristezza devastante!
La fede, quella nel Dio di Gesù Cristo, è l’esperienza di un incontro che può cambiare la vita, che può mutare l’ordine delle priorità, che può donare un coraggio inaspettato per vivere i momenti più duri della vita. Dobbiamo solo avere il coraggio di scavare un po’ e di smuovere le muffe delle nostre abitudini.

Matteo dice che incontrare Cristo è l’evento più spettacolare che possa capitare nella vita di un uomo.
Lui ne sa qualcosa: aveva soldi, successo, fama e ha lasciato tutto per andare incontro al Nazareno e ora, mentre scrive il suo vangelo, dopo trent’anni da quel giorno, dice che ne è valsa la pena.
La tua vita è una caccia al tesoro, amico lettore: l’hai già trovato?
Noi non avanziamo nella vita a colpi di volontà, ma solo per scoperta di tesori (là dov’è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore); per passione di bellezza (mercanti che cercano le perle più belle); per riserve di gioia che Qualcuno, uomo o Dio, amore o tesoro, seme o spiga, colma di nuovo.
Siamo dei cercatori, dei viandanti, nasciamo solo per scoprire di essere dei cercatori, dei bisognosi, dei mendicanti. La vita è mistero, ci appare inesplicabile, il senso del nostro esistere, velato, ambiguo.
Molti, intorno a noi, dicono che non c’è nessun tesoro da trovare, o, peggio, dicono che loro sanno dove si trova il tesoro e ti vendono la mappa.
La verità è un’altra: il tesoro è nascosto ma accessibile.
Alla luce di Dio capiamo, anche se sempre e solo parzialmente, il mistero dell’esistenza.

Trovare il senso, trovare Dio, avviene sostanzialmente in due modi.
O ti capita, come per il contadino che sta arando e inciampa nel tesoro fortuitamente.
O perché lo cerchi con ostinazione, come il mercante di perle che passa la vita a cercare la perla più bella.
Ma, nell’un caso come nell’altro, la parabola dice che per possedere il tesoro, per non lasciarselo scappare, occorre pagare, anche a costo di vendere tutto.
Matteo ricorda che non basta essersi imbattuti (prima parabola), o aver scoperto dopo lunghe ricerche (seconda parabola) il segreto della vita, occorre anche vivere tutto questo nella propria carne, decidersi per esso. E decidere, letteralmente significa troncare.
L’amore chiede tutto!
Camminare con un piede in due scarpe, risulta perlomeno un po’ scomodo…
Ogni decisione ti obbliga a lasciare qualcos’altro.
Scoperta la logica dell’amore, abbandoni la mentalità giocata sul potere, sul successo.
Oggi si fa sempre più fatica a decidersi.
S’intuisce anche la strada per la vita, ma non si ha il coraggio di troncare con altri sentieri.
Si vuole stringere tutto, senza mai giungere ad abbracciare nulla.

La terza parabola ci fa compiere un passo ulteriore.
Dinanzi a questo essere di misericordia, come mi comporto?
Tu che hai fatto esperienza di questo, come ti giochi l’amore che ti è stato offerto?
Non basta godere dell’amore di Dio. La salvezza è insieme grazia e responsabilità.
Una vita fallita, a cosa può servire?
Come la zizzania (Domenica scorsa) verrà presa e bruciata; semplicemente distrutta.
La separazione non avviene tra due parti di umanità, i buoni e i cattivi, ma tra la parte di me che si è formata amando, e quella che si è distrutta attraverso il male compiuto.
Quando il mondo, la storia giungerà a compimento, allora Dio mi giudicherà, ovvero distinguerà in me ciò che si è costruito nell’amore e ciò che ha fallito nel male e l’amore di Dio che è fuoco divorante, distruggerà questo male, ovvero quella parte di me che ha fallito e rimarrà solo ciò che è bene.
Dio ama tutti, perdona tutti e tutto, ma proprio per quest’amore che mi ha raggiunto, mi chiede di vivere, di spendermi secondo lo stesso amore riversandolo sui fratelli.
Si risponde all’Amore divenendo responsabili.
Ne vale la pena, dice Matteo.

In fondo, siamo tutti cercatori di perle.
Allora cerchiamo la perla bella, quella di grande valore, in grado di darci la felicità, e il nostro cuore non trova pace sino a quando non troverà proprio quella.
Nel corso della vita capita d’imbatterci in miriadi di altre perle, a volte di bassa bigiotteria, ma nessuna è come quella di cui eravamo in ricerca.
Curioso… è come se ci portassimo dentro, l’immagine di “quella” perla. Come se l’avessimo già contemplata da qualche parte, come se sapessimo che solo quella è la mia perla bella, come se qualcuno ce l’avesse già mostrata o perlomeno ce ne avesse già parlato. E quando vediamo, tocchiamo, di tante altre simili, ma non uguali, alla fine diciamo: “non è quella per cui io son fatto, non è quella che desideravo. Ho bisogno d’altro. Son fatto per altro”.

La bella notizia di questa Domenica? La vita è una ricerca e Dio solo conosce ciò che può riempire i nostri cuori.


AUTORE: Paolo di Martino
FONTE: Sito web
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don Paolo Squizzato – Commento al Vangelo del 26 Luglio 2020

Siamo cercatori di perle, di tesori perché abbiamo il presentimento del Vero, di ciò che – crediamo – sarebbe in grado di compierci il cuore. Siamo inquieti, palombari dello spirito, assetati di una bellezza in cui poter finalmente far riposare il cuore.

La cosa migliore che ci possa capitare è riuscire a distinguere nella vita ciò che conta da ciò che è superfluo, ciò che ha consistenza da ciò che è effimero, ciò che è essenziale da ciò che è solo necessario.

Scoperto il vero tesoro e la perla di grande valore, allora tutto il resto può essere abbandonato.

Il Vangelo ci svela in cosa consiste la perla e il tesoro di grande valore: l’Amore.

Fatta propria la logica dell’amore, viene vinta la logica del mondo incentrata sul potere l’avere e il successo. La luce dissolve la tenebra, in quanto il bene abbraccia il male sconfiggendolo. San Paolo, fatto esperienza dell’Amore, arriverà a considerare tutto ciò che fino ad allora gli sembrava essenziale e necessario per il suo compimento, semplicemente sterco: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura (lett = sterco), per guadagnare Cristo» (Fil 3, 8).

La terza parabola (vv. 47-50) del Vangelo di oggi ci aiuta poi a comprendere dove può condurre una vita che non arrivi a far propria questa logica dell’amore. Il risultato di non essersi giocati nel bene è simboleggiato qui dal “pesce cattivo”, inteso come guasto, fallito, inutile. Una vita spesa fuori dell’amore, è come essere gettati fuori dalla rete. Una vita guasta, fallita, non buona, a cosa può servire? Come la zizzania (Vangelo di domenica scorsa) verrà presa, e bruciata; semplicemente distrutta. I giusti, i buoni della parabola saranno invece coloro che hanno vissuto del medesimo amore che hanno ricevuto e sperimentato nella propria storia. E questa vita sarà conservata, come il grano che andò a finire nel granaio di Dio. Ma occorre fare un passo ulteriore. La separazione non avviene tra due parti di umanità, i buoni e i cattivi, ma tra la parte di me che si è formata amando, e quella che si è distrutta attraverso il male compiuto.

Quando il mondo, la storia giungerà a compimento, allora la Parola di Dio (gli angeli, v. 49b) mi giudicherà, ovvero distinguerà in me ciò che si è costruito nell’amore e ciò che ha fallito nel male. E l’amore di Dio che è fuoco divorante, distruggerà questo male, la parte di me che ha fallito nell’egoismo, nel potere, nell’incentramento sull’io. E rimarrà – ancora una volta – solo ciò che è bene.

In questo modo non ha avrà più senso domandarsi: ma allora se Dio salverà tutti (la rete che accoglie tutti) che bisogno c’è ancora di far qualcosa? Tanto son salvo, vivo come voglio! No, perché l’amore reclama la responsabilità. Dio ama tutti, perdona tutti e tutto, ma proprio per questo ora questo stesso amore che mi ha raggiunto, mi chiede di vivere, di spendermi secondo il medesimo amore riversandolo sui fratelli.

Si risponde all’Amore divenendo responsabili. Il resto è fallimento.


AUTORE: don Paolo Squizzato
FONTE
SITO WEB: https://www.paoloscquizzato.it
CANALE YOUTUBE:
https://www.youtube.com/channel/UC8q5C_j3ysCSrm1kJZ4ZFwA

don Guido Santagata – Commento al Vangelo di domenica 26 Luglio 2020

Anche questa domenica proseguiamo il nostro cammino accompagnati dalle parabole, questa novità di annuncio che non vincola ma ci invita ad una riflessione, ad un cambiamento interiore.

Oggi viene illustrata la parabola che in un certo senso riassume tutto il Vangelo, il saper mettere insieme cose nuove e cose antiche, il saper trovare un senso al nostro esistere, il saper interrogarsi su cosa è davvero fondamentale per la nostra vita, cosa rappresenta il tesoro sepolto nel campo e la perla preziosa. 

Gesù ci suggerisce di trovare il tesoro nascosto nel campo… ci vuole il coraggio di chiedere, di osare, la pazienza e la costanza. Il vero tesoro nascosto lo abbiamo, è accessibile, dobbiamo solo desiderarlo, il Vangelo di Gesù Cristo! Mai accontentarsi o rassegnarci, continuiamo sempre e comunque a cercare, prima o poi troveremo il tesoro che Dio ha nascosto nel campo.

Quando troviamo il Vangelo nella nostra vita, tutto il resto continua ad esserci, ma assume un valore diverso. Qual è il tesoro che stiamo cercando? Cosa nella nostra vita dobbiamo ancora trovare?  Tu continua a cercare! Non spegnere mai il desiderio di trovare!


Commento a cura di don Guido Santagata della Parrocchia Santa Maria Assunta-Duomo di Sant’Agata de’Goti (BN)

Fabio Quadrini – Commento al Vangelo di domenica 26 Luglio 2020

Se la settimana scorsa ci siamo trovati dinanzi ad una parola dalla radice incerta («zizzania»), anche quest’oggi, nel brano matteano che prosegue gli estratti delle due domeniche precedenti, siamo al cospetto di un termine dall’etimo «misterioso»: TESORO.

È molto probabile che la strada etimologica più lineare sia quella corretta: questa, infatti, fa risalire il sostantivo greco thesaurós al verbo títhemi («porre/collocare»).
A tale verbo, poi, si può aggregare, in combinazione, anche il nome aũron (in latino aurum) ovvero «oro».

Tuttavia, la lettura e la contemplazione del Vangelo odierno ci può sussurrare un’altra via.

Il «tesoro», recita la Parola di Dio, è «nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde» e poi «compra quel campo» (Cf. Mt 13, 44).
I termini «nascosto/nasconde», «campo» e «trova», ci indicano la strada.
Invero, che c’è nascosto nel campo? Ovvero: qual è quella cosa che in un campo va trovata?

Se la risposta ancora non è giunta, leggiamo l’ultimo versetto della pericope odierna, ovvero Mt 13, 52, nel quale si torna a parlare proprio di «tesoro»; e su questo «tesoro» agisce un verbo, ovvero «estrae» («Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”»).
Il greco del Vangelo adopera per «estrae» il verbo ek-bállei, il quale letteralmente vale «scagliare/gettare» (bállo) «fuori» (la preposizione ek esprime moto da luogo), ma può rendersi in traduzione anche con «estirpare».
Orbene, cos’è quella cosa che si trova nascosta in un campo, su cui agisce l’azione dell’’estirpare?

La radice.
In greco il nome «radice» è ríza, e il suo verbo associato è rizóo («mettere radici»).

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Di ciò dato atto, è possibile ritrovare ríza in thesaurós, e ciò è ancor più manifesto e forte nel momento in cui abbiniamo i loro verbi di riferimento, ovvero rizóo e thesau-rízo («accumulare/deporre nel tesoro»).
In merito a ciò, è decisivo riportare il passo di Mt 6, 19-21: «Non accumulate (tesaurízete) per voi tesori (tesauroùs) sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate (tesaurízete) invece per voi tesori (tesauroùs) in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro (tesaurós), là sarà anche il tuo cuore».
Ebbene, non è forse vero che la «radice» è il «cuore» della pianta?
E se a questo brano appena citato inseriamo i concetti di «radice/radicare» ogni qual volta troviamo tesaurízete/ tesauroùs/ tesaurós, il senso di queste righe assume una decisiva pienezza.

Ecco, allora, che quest’oggi il brano evangelico ci ispira ad interrogarci in cosa e dove siamo radicati; ci invita a ricercare quale sia la radice da cui traiamo linfa.
È grano o zizzania il frutto dei nostri germogli? Le nostre opere riempiono il granaio del Signore, oppure alimentano la carestia che viene dal maligno?
Insomma, qual è il nostro «tesoro»?
Ovvero: qual è la nostra «radice»?

Fonte

Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.wordpress.com/category/sindone/