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Mons. Costantino Di Bruno – Commento al Vangelo del 30 Luglio 2020

Il commento alle letture del 30 Luglio 2020 a cura di  Mons. Costantino Di Bruno, Sacerdote Diocesano dell’Arcidiocesi di Catanzaro–Squillace (CZ).

Li getteranno nella fornace ardente

GIOVEDÌ 30 LUGLIO (Mt 13,47-53)

Nel Libro di Daniele è rivelato che essere gettati nella fornace ardente era la punizione che il re di Babilonia aveva riservato a tutti coloro che si fossero rifiutati di adorare la statua da lui eretta nel centro della città: “Il re Nabucodònosor aveva fatto costruire una statua d’oro, alta sessanta cubiti e larga sei, e l’aveva fatta erigere nella pianura di Dura, nella provincia di Babilonia. Un banditore gridò ad alta voce: «Popoli, nazioni e lingue, a voi è rivolto questo proclama: Quando voi udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, dell’arpa, del salterio, della zampogna e di ogni specie di strumenti musicali, vi prostrerete e adorerete la statua d’oro che il re Nabucodònosor ha fatto erigere. Chiunque non si prostrerà e non adorerà, in quel medesimo istante sarà gettato in mezzo a una fornace di fuoco ardente». Alcuni Caldei si fecero avanti per accusare i Giudei e andarono a dire al re Nabucodònosor: «O re, vivi per sempre! Ci sono alcuni Giudei, che hai fatto amministratori della provincia di Babilonia, cioè Sadrac, Mesac e Abdènego, che non ti obbediscono, o re: non servono i tuoi dèi e non adorano la statua d’oro che tu hai fatto erigere». Sadrac, Mesac e Abdènego risposero al re Nabucodònosor: «Noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto».

Allora Nabucodònosor fu pieno d’ira e il suo aspetto si alterò nei confronti di Sadrac, Mesac e Abdènego, e ordinò che si aumentasse il fuoco della fornace sette volte più del solito. Poi, ad alcuni uomini fra i più forti del suo esercito, comandò di legare Sadrac, Mesac e Abdènego e gettarli nella fornace di fuoco ardente. Furono infatti legati, vestiti come erano, con i mantelli, i calzari, i copricapi e tutti i loro abiti, e gettati in mezzo alla fornace di fuoco ardente. Poiché l’ordine del re urgeva e la fornace era ben accesa, la fiamma del fuoco uccise coloro che vi avevano gettato Sadrac, Mesac e Abdènego. E questi tre, Sadrac, Mesac e Abdènego, caddero legati nella fornace di fuoco ardente. Essi passeggiavano in mezzo alle fiamme, lodavano Dio e benedicevano il Signore” (Dn 3,1-24). I tre giovani si lasciano gettare nelle fiamme, ma non rinnegano il loro Dio. Essi non mettono in dubbio la parola del re. Sanno che essa è un editto irrevocabile. Lo sanno, disobbediscono per non rinnegare il loro Dio.

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». Terminate queste parabole, Gesù partì di là.

Anche il nostro Dio ha emanato un editto irrevocabile. Chiunque si rifiuta di adorare Lui, obbedendo alla sua Parola e mettendo in pratica le sue Leggi, sarà gettato per l’eternità nella Geenna o fornace eterna, dalla quale mai più si uscirà. Qual è il pensiero dei cristiani dei nostri giorni? Questo editto è carta straccia. Dio, anche se lo ha detto un tempo, oggi lo ha abrogato. La sua misericordia è più grande della nostra disobbedienza e il suo cuore è più forte dei suoi occhi. Il suo cuore oscura i suoi occhi e ogni peccatore entrerà nella sua gloria eterna. Questo però dice il cristiano che si è fatto una sua Scrittura, un suo Vangelo, una sua Tradizione, un suo Magistero, una sua Teologia e anche un suo Dio ad immagine dei pensieri del suo cuore. Una cosa il cristiano deve sapere: Lui è obbligato ad attenersi a ciò che è scritto. Dalla prima pagina della Genesi all’ultima dell’Apocalisse, mai Dio ha dichiarato abrogata una sola Parola. Anzi, ogni sua Parola successiva sempre conferma quella precedente. La storia testimonia che non c’è vita per quanti escono dalla Parola. Noi siamo usciti dalla Parola e non scriviamo leggi di vita. Scriviamo solo leggi di morte.

Madre di Dio, Angeli, Santi, fate che i discepoli camminino di verità in verità.

Fonte@MonsDiBruno

Nota: Questo commento al Vangelo è gratuito pertanto l’autore non autorizza un fine diverso dalla gratuità.

Commento al Vangelo del 2 Agosto 2020 – fra’ Giuseppe Bonato, Diocesi di Vicenza

A cura di fra’ Giuseppe Bonato.

 Registrato nella Casa di spiritualità san Carlo di Costabissara, Vicenza

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Commento al Vangelo del 2 Agosto 2020 – p. Ermes Ronchi

È un dono il pane del Signore e va donato

Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 2 Agosto 2020.

Vangelo del pane che trabocca dalle mani, dalle ceste. Segno da custodire con particolare cura, raccontato per ben sei volte dai Vangeli, carico di promesse e profezia.

Gesù vide la grande folla, sentì compassione di loro e curò i loro malati. Tre verbi rivelatori (vide, sentì, curò) che aprono finestre sui sentimenti di Gesù, sul suo mondo interiore. Vide una grande folla, il suo sguardo non scivola via sopra le persone, ma si posa sui singoli, li vede ad uno ad uno. Per lui guardare e amare sono la stessa cosa. E la prima cosa che vede alzarsi da tutta quella gente e che lo raggiunge al cuore è la loro sofferenza: e sentì compassione per loro.

Gesù prova dolore per il dolore dell’uomo, è ferito dalle ferite di chi ha davanti, ed è questo che gli fa cambiare i programmi: voleva andarsene in un luogo deserto, ma ora chi detta l’agenda è il dolore dell’uomo, e Gesù si immerge nel tumulto della folla, risucchiato dal vortice della vita dolente. Primo viene il dolore. Il più importante è chi patisce: nella carne, nello spirito, nel cuore. E dalla compassione fioriscono miracoli: guarì i loro malati. Il nostro tesoro più grande è un Dio appassionato che patisce per noi.

Il luogo è deserto, è ormai tardi, questa gente deve mangiare… I discepoli alla scuola di Gesù sono diventati sensibili e attenti, si prendono a cuore le persone. Gesù però fa di più: mostra l’immagine materna di Dio che raccoglie, nutre e alimenta ogni vita, e incalza i suoi: Voi stessi date loro…[…]

Continua a leggere tutto il testo del commento su Avvenire


FAME di COSE GRANDI

Vorrei essere uno dei cinquemila, quella sera, sul lago!
Li invidio non per il miracolo dei pani, ma per la seduzione che hanno, più forte di ogni paura.
Con Gesù, che ascoltano e bevono. Ascoltano e brucia loro il cuore, ascoltano e risplende la vita.
Stare con lui, quando sera e notte scendono su noi. E il lago, e il deserto, profumano di pane.
Stare con lui, e sentire che più vivo di così non sarò mai.

In quella infinita sera sul lago, due verbi opposti: comprare o dare. Comprare, dicono gli apostoli. Mentalità che è nostra: se vuoi qualcosa, lo devi pagare. Niente di scandaloso, ma diventa banale questa logica d’eterna illusione, in bilico tra dare e avere. In questo sistema chiuso, Gesù rilancia: DATE!
Date voi stessi da mangiare. Non già “vendete, scambiate, prestate”; ma radicalmente “date”.

E sulla notte della necessità ecco spuntare l’alba della gratuità, dell’amore squilibrato e senza calcoli, del dare a fondo perduto senza aspettarsi nulla. Solo la gioia, forse.

Quante volte nel Vangelo lo si vede intento a condividere, felice, il pasto con altri, da Cana all’ultima cena, fino a Emmaus.
Gesù amava così tanto mangiare insieme, che il tenerli vicini a sé è diventato il simbolo della sua vita: “quando me ne andrò, e non potrò più riunirvi e darvi il pane, e condividerlo, voi potrete unirvi e mangiare me”.
Dio ferma la fame del mondo solo quando le nostre mani imparano a donare. L’aveva detto: “Voi farete cose più grandi di me”.
E a noi, che sempre preghiamo “dacci oggi il nostro pane”, il Signore risponde: “date voi il vostro pane”.

Ecco che i cinque pani passano dalle mani di uno a quelle di tutti i cinquemila.
Misteriosa e multipla regola del Regno: poco pane condiviso è sufficiente, perché solo così diventa pane di Dio. Cinque pani allora basteranno per una folla, e i pezzi rimasti riempiranno le ceste. Nulla andrà perduto.
Cinque pani e due pesci: è poco, è solo una goccia nel mare, ma è quella goccia che può dare senso a tutta la vita (Madre Teresa).

La fame inizia quando io tengo il mio pane per me, quando l’Occidente sazio tiene il proprio pane per sé. Fame che, allora, non finirà.
Sfamare la terra invece è un miracolo possibile se la condivisione si fa realtà. C’è pane sufficiente per tutti nel mondo, ma è diventato insufficiente per l’avidità di pochi.
Il profeta ripete: chi ha fame venga e mangi, senza denaro né spesa.
Ma quale fame morde dentro di noi? Solo di pane? O fame di giustizia per noi e per tutti? Fame di avere o anche fame di dare?

Il Signore sia il nostro affamatore, e sapremo dare pane a chi ha fame e accendere fame di cose grandi in chi è sazio di solo pane. E la nostra sarà fame di un mondo nuovo, con mani di pane che conoscono il miracolo del dono.

AUTORE: p. Ermes Ronchi FONTE: AvvenirePAGINA FACEBOOK

Nico Guerini – Commento al Vangelo di domenica 2 Agosto 2020

Qualcuno (penso ai nati negli anni ’40 e ’50, e anche prima) ricorderà che una delle più vistose innovazioni prodotte dal Concilio, dopo il passaggio dall’uso del latino all’italiano nelle celebrazioni liturgiche (messa, sacramenti, liturgia delle ore), fu – immagino – la ristrutturazione del presbiterio, che comportò due grosse novità: la scomparsa delle balaustre, che eliminava una visibile netta separazione tra clero e popolo, e la trasformazione dell’altare, che da secoli era stato ridotto a una “predella” che serviva da base a una serie di mensole dove troneggiavano candelieri giganti, a volte le statue dei quattro dottori della Chiesa, e diversi vasi di fiori; il tutto trovava il suo punto focale di attenzione nel tabernacolo, diventato di fatto il centro della devozione eucaristica, con la “presenza” segnalata dalla lampada accesa.

Recuperare il binomio altare/mensa

L’altare come “mensa”, sul quale non dovrebbe essere posato niente se non ciò che serve alla celebrazione della messa, ritrovò con la riforma una sua centralità e un suo pieno significato, perché una mensa serve a preparare e a porre il cibo del quale poi ci si nutre (non dunque candelieri e vasi di fiori), marcando con questo il punto attorno al quale si “raduna” una comunità.

Il mutamento del presbiterio mise in luce altri due segni importanti per capire il senso della celebrazione: l’ambone, che serve a enfatizzare l’importanza della Parola che lì viene proclamata e commentata, e la sede, dove sta colui che presiede l’assemblea, la guida e la istruisce, ed è chiamato così a sentirsi comunità, sensazione mai raggiunta del tutto, e che colui che presiede dovrebbe tenere bene in mente per non rischiare di intendere la celebrazione come “recitazione del programma stampato”, dove l’unica variante prevista è l’omelia.

Ma, anche su questo, è utile ricordare che l’omelia non è obbligatorio svolgerla sul solo vangelo, e neanche sulle letture, ma può esserlo su ogni parte della messa, «tenuto conto sia del mistero che viene celebrato, sia delle particolari necessità di chi ascolta» (Ordinamento generale del Messale romano, n. 65). Tutto può essere occasione per un qualche commento o gesto che aiuti il popolo a crescere nella coscienza di essere una “comunità”, a cominciare dal ritmo pacato e concorde della risposta ai dialoghi che occorrono in vari momenti della celebrazione, come non sempre accade.

Visto che l’assemblea pare sia composta per lo più dalla generazione cresciuta nel pre-concilio, mi chiedo quanto i più siano consapevoli di quanto ho appena detto sul senso dell’altare-mensa, cosa non sempre chiara neanche nel prete che presiede.

Quanto alle generazioni nuove, il problema è enorme, ma su questo non mi fermo, perché la situazione implica – mi sembra – un’attenzione appassionata alla liturgia nella catechesi a fanciulli e giovani, e una ri-catechizzazione a livello catecumenale degli adulti, magari anche in occasione della preparazione ai sacramenti di confessione, comunione e cresima, per i quali, oltre e più che dei bambini, ci si dovrebbe preoccupare dei genitori, secondo il metodo di una “formazione permanente”.

Una mensa gustosa e nutriente

Questa introduzione mi è venuta alla mente pensando che la prima lettura e il vangelo di oggi ruotano attorno a qualcosa che ha nella mensa il suo riferimento naturale: mangiare e bere, con in più ascoltare, che è, come tutti sanno, il bello della tavola, che non è fatta solo per “nutrirci”, ma che raggiunge il suo obiettivo più importante nella gioia del “mangiare insieme”, il che implica una circolazione della parola che serve a dare senso alla riunione.

La lettura del profeta Isaia (55,1-3) ci presenta un Dio che mette radicalmente in crisi il sistema capitalistico e le leggi del mercato: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte».

Ma a leggere bene, forse non si tratta di procurarsi gli alimenti necessari per la vita senza pagare, ma, elevando un poco lo sguardo, ricordare che noi abbiamo fame e sete anche di altre cose che non sono solo quelle materiali, ed è pensando a questi bisogni che il profeta continua: «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia?».

Stiamo pure nell’immagine della mensa alla quale ci accostiamo di solito. Che guadagno c’è nell’avere sulla tavola cibi e bevande prelibate quando le persone che mangiano e bevono insieme non sono in sintonia tra loro? Quando ristagna nell’ambiente un’atmosfera di diffidenza, di sospetto, di rancore per offese non digerite? Quando l’aria è così pesante che non si vede l’ora che il tutto finisca?

È quanto segue che illumina tutto il brano: «Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti». Naturale pensare al «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3; Mt 4,4), e soprattutto alle parole dette da Gesù in un lungo discorso segnato dall’incomprensione e, alla fine, dal rifiuto: «Io sono il pane della vita, sono il pane che discende dal cielo perché chi ne mangia non muoia, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,48-51). Lo stesso vale per la sete: «Chi berrà dell’acqua che io gli darò non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).

Non sono discorsi fatti di vapore acqueo, proposte di una spiritualità eterea che vorrebbe evadere dalle durezze della vita. Il pane di cui discorre Gesù sono anche le “parole”, le nostre, quelle che confortano, benedicono, educano, perdonano, incoraggiano, che non offendono, non insultano, non disprezzano, non maltrattano, ma servono invece a dare speranza, gioia e gusto per la vita.

Se c’è un prezzo da pagare per acquistare questi beni, che non possediamo in modo automatico, e che sono sempre minacciati dal loro contrario, c’è solo una ricetta: «Porgete l’orecchio – dice Dio – e venite a me, ascoltate e vivrete». E cos’è questa “vita”? «Io stabilirò per voi un’alleanza eterna». Quale? Quella che, con Gesù, è diventata l’alleanza nuova, che rinnoviamo in ogni eucaristia, quella comunione di cuori che cresce sulla gratuità e sul dono: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue con cui consegno me stesso a voi, per la vostra vita».

Se questo è vero – come è vero –, non sorprende più l’attacco folgorante della seconda lettura (Rm 8,35.37-39): «Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Segue un torrente di affermazioni, che travolge ogni forma di paura e di angoscia, perché niente e nessuno, se non noi stessi, potrà mai rompere questa alleanza, un “inno all’amore di Dio” che ci arriva dalla bocca di uno che ha sofferto nella sua carne tutte le tribolazioni che enumera, e che dichiara, alla fine, come niente di tutto ciò lo può separare dall’amore di Cristo, perché «in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati».

Compassione e gratuità

Quasi a dimostrare ancora una volta la verità di queste parole di Paolo, arriva l’accostamento che fa Matteo nel suo vangelo (Mt 14,13-21) tra l’assassinio di Giovanni Battista e il primo racconto della moltiplicazione dei pani, tra la sconfitta di un “profeta” e la risposta di un altro che lo segue, e che, pur prevedendo che subirà la stessa sorte (Mt 16,21), non si arrende, non fugge, e risponde a un fallimento umano alla sua maniera, quella divina.

Il collegamento tra i due episodi è fatto dallo stesso evangelista: «Avendo udito della morte crudele di Giovanni Battista, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte». Non è la prima né l’unica volta che questo “ritirarsi di Gesù” fa pensare a un’indecisione, forse anche a un suo momento di paura. Ma il “deserto” è il luogo dove egli ha l’abitudine di intrattenersi con il Padre per capire come comportarsi. E la risposta arriva presto: si ritrova davanti «una gran folla che lo ha seguito a piedi dalle città». La sua reazione è la solita che conosciamo: le folle suscitano la sua “compassione”, che si traduce anzitutto nella guarigione dei malati.

Il racconto di Marco è più ricco di dettagli, nei quali ci dice il motivo che colpisce Gesù (erano come pecore senza pastore), e pure che «egli insegnava loro molte cose» (Mc 6,11). Matteo, in certo senso, “asciuga” il testo, ma l’essenziale rimane: la compassione porta a un intervento mirato a guarire.

Questa figura di Gesù “medico” è dominante nei vangeli, in grado massimo in quello di Luca, e integra magnificamente quella di “maestro”, le due immagini chiave che fanno la sostanza di quella che si chiama, nei discepoli, “attività pastorale”.

In Matteo, Gesù insegna con il gesto, scelta curiosa in un vangelo celebre per i “discorsi” di cui è costellato. Comunque, oltre alle malattie, in questo caso Gesù guarisce la fame, dilatando a “tutti” la sua attenzione.

E qual è l’insegnamento? La prima lezione ci dice che, come aveva fatto con la parabola del seminatore, la qualità più caratteristica di Dio è la gratuità: se egli è colui che ha tutto, in termini di beni e poteri, non è per vantarsene, ma per donare e condividere. E, in questo caso, non solo dichiara con luminosità solare che il pane è un bene destinato ad essere condiviso, ma pure mostra che lo stesso discorso vale del “potere”, che da lui passa ai discepoli: «Dategli voi stessi da mangiare»! Si poteva dire con maggiore chiarezza che il vero potere è il servizio?

I gesti con cui Gesù opera il miracolo – «prese i pani e i pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla» – evocano in modo trasparente l’Ultima Cena e le nostre eucaristie che la rappresentano e la ripresentano.

Non credo di dover aggiungere altro. Non ci viene raccontata la reazione della folla: solo si dice che «mangiarono a sazietà» (ritorna la parola di Isaia) e si portarono via i pezzi avanzati.

Non credo sarà difficile fare di questa storia la base per una riflessione sul significato della messa, e su come, di conseguenza, la viviamo. Perché quello che dovremmo aver capito è ciò che siamo chiamati a fare una volta usciti di chiesa.

FonteSettimana News

Commento a cura di Nico Guerini


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Paolo de Martino – Commento al Vangelo di domenica 2 Agosto 2020

Il miracolo di oggi, la moltiplicazione dei pani, è l’unico miracolo raccontato da tutti e quattro gli evangelisti. Addirittura, Mc e Mt lo raccontano due volte.

Prima del miracolo la cosa che impressiona di più di questa pagina del vangelo è il bisogno che la gente ha di Gesù tanto da mettersi a cercalo in tutti i modi e di seguirlo a piedi. È un bisogno che non è mai venuto meno lungo tutta la storia. Anche in un mondo come il nostro che sembra così distante dalla religione o dalla fede, c’è una così grande sete di Cristo che basta anche solo una piccola esperienza in cui Lui è realmente presente a creare immediatamente una folla.
Il popolo ha naso nel capire se quello che stiamo dicendo è davvero di Cristo oppure no.
Sente subito se una cosa è vera oppure è una delle tante fake vendute dal mercato del mondo. Ecco perché Gesù nel vedere tutto questo bisogno di senso e di amore da parte della gente, prova per loro una immensa compassione e si mette subito all’opera per guarire ciò che più li fa star male.
Ma non si limita solo a far questo, si preoccupa anche concretamente di loro.
È sempre grande la tentazione di separare lo spirituale dal materiale.
Si crede che lo spirituale sia una forma astratta che si arresta non appena inizia concretamente un bisogno materiale, mentre invece lo spirituale consiste anche nel prendere sul serio i bisogni materiali delle persone.

La fame, dunque. Fame di cibo, di giustizia, di senso, di pace.
Gesù conosce la fame, la nostra fame la vede, Dio non è sbadato, e chiede ai dodici di aiutarlo, di trovare una soluzione.
Panico, amici. Ma Dio non ci serve proprio a risolvere i problemi?
Cos’è questa storia, che ce ne facciamo di un Dio che ci chiede di aiutarlo?

Cos’è la Chiesa? Una holding del sacro? Un vecchio baraccone che custodisce antichi riti? L’esperienza di Chiesa che vive Matteo diversa, racchiusa in quel gesto ingenuo e potente dell’offrire la propria merenda al Signore perché con essa sfami l’umanità.
L’umanità ha fame, amici.
Fame che Dio sazia, non noi. Fame che Lui vede, non noi, che commuove Dio e un poco anche noi discepoli.
Il mosaico di luce che il Maestro vuole disegnare ha bisogno anche di noi.
A Dio piace di coinvolgere i suoi discepoli nel suo sogno di pace, e Dio chiede, al solito. “Date loro voi stessi da mangiare”.
I discepoli parlano di comprare, Gesù parla di dare. Apre un altro modo di essere: dare senza calcolare, dare senza chiedere, generosamente, gratuitamente, per primi.
A noi, che quotidianamente preghiamo: “Dacci oggi il nostro pane”, il Signore risponde: “Voi date il vostro pane”. “Dacci”, noi invochiamo. “Donate”, ribatte lui.
Signore, noi crediamo in te e ti preghiamo e ti veneriamo appunto per non dover far nulla!
Noi vogliamo sempre credere in te, Dio di ogni Potenza, proprio perché tu ci tolga dai guai e sbrogli le nostre matasse! Non è forse l’idea di Dio che preferiamo?
Un Dio che vede la sofferenza e ascolta la preghiera dei suoi servi e li esaudisce?
Gesù, invece, chiede collaborazione, coinvolge.
Quando nella nostra preghiera chiediamo: “Signore ferma le guerre!”, Dio ci risponde: “Tu per primo diventa costruttore di pace”; quando lo invochiamo dicendo: “Aiuta quella persona malata”, Dio ci dice: “Tu diventa mia consolazione per lei”.

Da nessuna parte in questo testo, ma nemmeno negli altri Vangeli, troviamo il verbo “moltiplicare”. Il vero miracolo su cui l’evangelista vuole attirare la nostra attenzione, non è il gesto magico di Gesù che con una bella formuletta riempie le ceste di fragranti pagnotte. Il vero miracolo è la condivisione, è il pane spezzato che sazia la fame di chi ascolta la Parola, è la logica nuova dell’amore e della fraternità che libera dalla schiavitù del possesso e dall’ansia della conquista.
Ogni scusa è buona per aggirare la richiesta. Non siamo capaci, non abbiamo i mezzi, non abbiamo sufficiente fede, abbiamo troppa zizzania nel cuore. Gesù insiste: a lui serve ciò che sono, anche se ciò che sono è poco.
La sproporzione è voluta: pochi pani e pesci per una folla sterminata. E’ una situazione che produce disagio, sconforto, la stessa sensazione che proviamo noi quando cerchiamo di annunciare la Parola, di porre gesti di solidarietà, di bene.
Incontro i miei ragazzi e sto con loro un’ora a settimana: giochiamo, parliamo, annuncio loro il bel modo di vivere che aveva Gesù… poi escono, e per un’intera settimana sentiranno e vivranno il contrario: violenza, egoismo, opportunismo.
Vivo come uomo di pace… e i miei colleghi d’ufficio ne approfittano e mi fregano.
Consacro la mia vita al Vangelo…e la gente pensa che sia una specie di funzionario di Dio.
Occorre arrendersi? No: il nostro è un gesto fecondo se accompagna l’opera di Dio.
E’ segno profetico che imita l’ampio gesto del seminatore. E’ icona di speranza che imita la pazienza verso la zizzania del padrone del campo.
Raccolsero gli avanzi in dodici ceste. Una per ogni tribù, una per ogni mese. Tutti mangiano e ne rimane per tutti, e per sempre. E hanno valore anche gli avanzi, le briciole, il poco che sei, il poco che sai fare, il bicchiere d’acqua dato.
Nulla è troppo piccolo di ciò che è donato con tutto il cuore. L’unico merito che i cinquemila possono vantare, l’unico loro diritto al pane la fame. Davanti a Dio mio vanto esclusivo è il bisogno. Davanti a Dio non c’è nulla di meglio che essere nulla!

Coraggio amici! Nessuna difficoltà ci può separare dall’amore di Cristo.
Siamo chiamati a donare quel poco che abbiamo, a condividere con inattesa incoscienza tutto ciò che siamo, per somigliare almeno un poco a questo Dio che riempie i cuori.
Un Dio adulto che ci crede e ci rende capaci di cambiare il volto della Storia.
Questa è la Chiesa, quella del cuore di Dio, non quella delle nostre elucubrazioni: l’insieme di coloro che hanno conosciuto l’immensa tenerezza di Dio e che mettono a disposizione ciò che sono, ciò che fanno, perché Dio sazi l’umanità stanca.
La bella notizia di questa Domenica? Se il Signore sarà il nostro vero affamatore, sapremo dare pane a chi ha fame, e accendere fame di cose grandi in chi è sazio di solo pane.


AUTORE: Paolo di Martino
FONTE: Sito web
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d. Giampaolo Centofanti – Commento al Vangelo del 30 Luglio 2020

La rete gettata nel mare della fede è aperta all’accoglienza, ad imparare da tutti. Fede, comunità (i pescatori), accoglienza, sono vie essenziali per crescere nel discernimento. La Chiesa stessa su questa via trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Questo è il senso autentico della tradizione: non solo cose antiche, non solo cose nuove.

La tradizione matura liberandosi di ciò che è caduco e approfondendo il senso autentico della Parola di Gesù. La via del teologo, dello scriba, dell’uomo di cultura, è maturare, discernere, insieme agli altri sulla via di un vissuto discepolato.

Quando la cultura si riduce a intellettualismo si gonfia, si isola in pseudo elites. Queste caste si chiudono in codici, in apparati al servizio degli interessi dei potenti, finiscono per servire solo a manipolare le persone.

Questo brano mostra che la comunità viva che discerne nell’ascolto della Parola è un sia pur germinale antidoto a tutto ciò e per questo i dominatori di questo mondo possono avversarla in ogni modo, avversare la famiglia, spegnere ogni cosa in un falso incontro senza sviluppo anche delle identità, dove ogni pesce è uguale all’altro nel senso che non vi è più vero e falso.


A cura di don Giampaolo Centofanti nel suo blog.

Don Cosimo Schena – La rabbia è peccato?

La rabbia è peccato?


Cosimo Schena è un sacerdote della diocesi di Brindisi-Ostuni. Laureato in filosofia presso l’Università di Verona, è attualmente dottorando in filosofia presso la Pontificia Università Lateranense, dove sta approfondendo il tema del totalitarismo e del misticismo in Simone Weil. Svolge il ministero pastorale a Mesagne. Con Diogene Multimedia ha pubblicato “La croce è la nostra patria. Simone Weil e l’enigma della croce” (2016) e “L’essere persona. Lo stato limite della persona?” (2017). Mentre, con l’editore Asterios ha dato alla stampa “Simone Weil e la questione gnostica” (2017). Ancora, con Pagine ha pubblicato delle poesie in Ispirazioni (2017) e nel 2018 diverse raccolte di versi, quali Sussurri, Sussurri di un’anima e Soffio verso il cielo. Con l’editore Bertone ha appena pubblicato la raccolta di poesie “Impronte di cuore” (2019). Tra il 2018 e il 2019 ha pubblicato diverse poesie audio che l’hanno portato ad essere conosciuto in tutto il territorio.

Fonte Linkedin

don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 30 Luglio 2020

‘… i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere…’

Quanta serenità in quella immagine dei pescatori seduti a riva! Gli uomini del regno, afferma Gesù, sono quelli che sanno fare propria l’arte di sedersi per vagliare con attenzione, con calma.
In queste parole di Gesù viene messo a tema un rischio, quello di spaventarsi e allarmarsi senza motivo. Per questo è necessario concedersi tempo, il tempo che occorre per passare al vaglio sentimenti, pensieri, emozioni, desideri, chiamando per nome le cose e non temendo di buttare via i cattivi. Il discernimento si compie solo prendendo tempo, curando le disposizioni del cuore e assicurando una giusta comodità. Occorre, perciò, la stessa diligenza dello scriba per non rischiare di essere superficiali e distratti: fare nostre, perciò, l’arte dell’attesa e la forza della pazienza.

La nostra vita come la vita della Chiesa è simile a una rete gettata nel mare: in me c’è il santo ed il peccatore, l’uomo di fede e l’incredulo, colui che è capace di compiere il bene e colui che compie il male. Sta a noi lasciarci continuamente illuminare dalla luce e dalla grazia dello Spirito perché sappiamo diventare conformi a quell’uomo che Dio ha pensato.

Nel tesoro del nostro cuore ci sono cose nuove e cose antiche che custodiscono la loro preziosità. Guai a pensare, perciò, che il valore risieda solo nella ripetizione stanca di un passato ma guai anche a pensare che solo il nuovo abbia diritto di esistere: il nuovo non soppianta definitivamente il vecchio ma lo porta a compimento, né il vecchio può impedire al nuovo di apportare la sua freschezza e la sua capacità di leggere le cose con uno sguardo diverso.

È proprio della sapienza riconoscere il bene da qualunque parte venga sapendo che non è un tempo né un luogo a stabilire ciò che senz’altro è bene ma un cuore docile che si lascia ammaestrare dal Signore a qualunque tempo o popolo appartenga.

Che cosa fa di ciascuno di noi un buon scriba? La capacità di restare ancorato al vangelo e la disponibilità a mettere in dialogo realtà che a tutta prima sembrerebbero inconciliabili.


AUTORE: don Antonio Savone
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Giovani di Parola – Commento al Vangelo del 30 Luglio 2020

Il Vangelo di oggi ricorda che il tesoro, ciò che mi arricchisce, non è qualcosa che viene da fuori di me, ma è anche e soprattutto ciò che è dentro di me. Io sono bello/a così come sono, ho dentro un tesoro, io valgo; e non perché me lo dice una famosa marca di cosmetici; ma perché il primo a scommettere su di me è proprio il Signore.

La vita non è altro che una continua ricerca di questo tesoro che altro non è che me stesso. Non si finisce mai di scoprirsi. Si sa che per cercare un tesoro occorre una bussola, e mi piace l’immagine della bussola di Jack Sparrow che punta in direzione di ciò che più desidero al mondo! Ma, come accade anche nel film Pirati dei Caraibi, alle volte neanche noi sappiamo cosa vogliamo davvero, ecco perché il Buon Dio ci affida delle persone pronte a navigare con noi e a darci le coordinate per il più prezioso dei tesori, me stesso.

Sono consapevole che il Buon Dio mi ha creato come un prodigio e che in me c’è un tesoro da scoprire?


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p. Arturo MCCJ – Commento al Vangelo del 30 Luglio 2020

La storia raccontata è ben conosciuta dalla gente della Galilea che vive attorno al lago. E’ il loro lavoro. La storia rispecchia la fine di una giornata di lavoro.

I pescatori vanno a pescare con un unico scopo: gettare la rete e prendere molti pesci, trascinare la rete sulla spiaggia, scegliere i pesci buoni da portare a casa e gettar via quelli che non servono. Il peggio è arrivare sulla spiaggia al termine di una giornata e non aver pescato nulla (Gv 21,3).

Ma l’immagine della rete ci ricorda anche che Dio viene a raccoglierci e a verificare se siamo stati dei buoni testimoni del Cristo (che agli inizi della storia della chiesa era rappresentato come l’acronimo della parola pesce). Dio non rimane assente e indifferente all’operato delle persone e Matteo ce lo ricorda diverse volte.


Fonte: Telegram

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