don Marco Pozza – Commento al Vangelo di domenica 27 Febbraio 2022

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In(trave)do una pagliuzza

Il linguaggio è così crudo ch’è impossibile, per chi vuol capire, non capirlo: comunque anche se la finestra è la medesima – direbbe Alda Merini -, non tutti quelli che guardano vedono lo stesso panorama. La vista, più che dagli occhi, è dipendente dal cuore: ognuno vede quello che custodisce nel suo cuore. Che, a ragione, è a tutti gli effetti organo riproduttivo maschile e femminile.

Tant’è che il popolo saggio dei nonni, dalle cui labbra in tanti abbiamo appreso le catechesi più avvincenti e credibili, amava ricordar sempre che gli occhi sono lo specchio del cuore: «Non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo» è la sintesi, a kilometrozero, del Gesù narratore. Che, terra-terra, è il dibattito in corso tra la mosca e l’ape: anche se l’ape può spiegare alla mosca che il fiore è meglio della spazzatura, la mosca non lo capirà, perchè lei ha sempre vissuto nella spazzatura. Volano entrambe, ma è dove si posano che fa la differenza: «L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male». Il cristianesimo, sembra sottintendere Cristo, è tutto qui: «La bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

Pagine evangeliche così vanno strappate il prima possibile dai lezionari, o sono da leggersi così in fretta da sperare che l’orecchio non oda ciò che l’occhio ha fiutato prima ancora di tradurre in parole udibili. Son queste pagine, infatti, a rompere le ossa alla nostra fede. A sbatterci nel volto, senza paura di farci del male, la verità che amiamo tenere accuratamente piegata in quattro: il fatto che amiamo giudicare gli altri basandoci su noi stessi.

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Il che, forse, non sarebbe un dramma d’elevate proporzioni. E’ il risultato, però, a falsificarne la valutazione: li assolviamo volentieri dei nostri difetti ma li condanniamo severamente se non ci dimostrano le nostre virtù. E’ la trave che imbastisce guerra alla pagliuzza: la prima è imponente, di cemento armato, sostanziosa. La seconda, al confronto, è gracile, poco meno di uno stuzzicadente, poca cosa se paragonata alla trave. Eppure ci accorgiamo di quella meno ingombrante soltanto perchè è nell’occhio dell’altro. Senz’accorgerci che l’altro, magari, ci chiederebbe se davvero il bue, dando del cornuto all’asino, non s’accorga d’avere lui, e non l’asino, le corna.

L’accorgimento di Cristo è d’una finezza sopraffine: «Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo?» Non è tanto per una forma spicciola di carità, quanto perchè nel giudicare l’altro non decido chi è lui ma dimostro a tutti chi sono io: è molto più difficile giudicare me stesso che l’altro. Ed è molto più semplice, quando non ho alcuna voglia di sgomberar il mio occhio da una trave, divertirmi a cercar la pagliuzza nell’altro.

Senza accorgerci minimamente che da come guardiamo il mondo, il mondo attorno ci (ri)guarda: c’è gente che questa mattina si alza e, guardando fuori dalla finestra, si domanda che cosa sia quel puntino giallo che fa così male agli occhi da costringere ad indossare l’occhiale. E c’è gente che quel puntino lo chiama sole. “Gentemmia, non è che per caso vi piaccia così tanto sindacare sugli altri solo perchè non avete il coraggio di guardarvi allo specchio?”, pare dica Domeniddìo. Diamogli torto!

Resta il fatto che, anche stavolta, il Vangelo ha mira da cecchino: se uno ha l’inferno nel suo cuore, vedrà inferno dappertutto, eccetto che nel suo cuore. Quando uno, invece, trattiene anche solo un piccolo frammento di luce in cuore, saprà vedere oceani di luce nelle tenebre più burrascose. Ciascuno vede fuori ciò che custodisce dentro, nel cuore. E la sua bocca «esprime ciò che dal cuore sovrabbonda»Ad essere acide, dunque, non sono le parole o gli sguardi: è il cuore. Che si smaschera, poi, da come un uomo ti parla, da come una donna ti guarda. L’acidità di cuore batte l’acidità di stomaco dieci a zero. Non c’è partita.

Commento a cura di don Marco Pozza
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