Commento al Vangelo di domenica 9 Maggio 2021 – Comunità Kairos

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Un testo ricchissimo, questo del Vangelo di oggi, che fa parte del lungo discorso di congedo, in quell’ultima sera,   che   il   Maestro   trascorse   coi   suoi,   prima   di   consegnarsi   alla   morte. Un discorso, tutto sull’amore, e che molti esegeti considerano il “testamento” stesso di Gesù.

L’esortazione accorata di Gesù ai suoi discepoli non è quella di ricordarsi di Lui, dei giorni trascorsi insieme, ma è un invito a fare di Lui la nostra abitazione, o, che è lo stesso, a lasciarci inabitare totalmente da Lui. L’abitazione vera del cristiano non è dunque, un luogo nello spazio, ma l’amore stesso di Cristo, che non si ritiene la fonte, ma si presenta come l’amato del Padre.

Gesù non ha essenzialmente alcuna altra preoccupazione che mostrarci questo: in quanto amato Egli ci rivela il Padre amante. Gv 4,10 “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”. Diventiamo quindi ciò che il Cristo ha colto dell’amore del Padre. Diventiamo il banco di prova del mistero della Trinità. Siamo ciò di cui è capace il mistero di Dio.

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L’amore suggerito, anzi “comandato” da Gesù non è generico sentimento o spontaneità immediata ma impegno solido e radicale. Gesù vuole superare il contrasto tra legge e amore perché la legge che egli propone non è una fredda norma da osservare sotto la minaccia della sanzione ma è la proposta di un impegno totale di vita. E’ l’amore di cui parla Paolo in 1Cor 13,7-8: “tutto crede, tutto spera, tutto sopporta e non ha mai fine”.

Siamo chiamati a un atto di custodia (tradotto come osservanza dei comandamenti): “se custodirete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore”. E questo è lo stesso atteggiamento del Cristo verso il Padre. I comandamenti o incarichi del Padre a Gesù si identificano con la sua missione: quella di salvare l’umanità. Egli l’ha realizzata liberando l’uomo dall’oppressione della Legge e dando vita all’uomo morto. Ai discepoli chiede di trasmettere la vita che hanno ricevuto e la Parola che hanno conosciuto, senza chiudersi dentro la dimensione puramente mondana dell’esistenza.

Il “come io vi ho amato” dice l’assoluta necessità di vivere la nostra fede come un evento, prendendo le mosse dalla comunione che lega Gesù al Padre.

Il testo ci vuole ricordare come il rapporto d’amore che lega ciascun credente al Cristo sia reso concreto e credibile dalla relazione d’amore che lo lega al fratello. Il fratello diviene così il luogo palpabile della risposta all’amore di Cristo (cf. Mt 22,34-40).

Il v.11 sulla gioia sembra interrompere il movimento che dall’amore di Dio va sino all’amore condiviso tra fratelli. In realtà serve ad interiorizzare la rivelazione precedente. Rimanere nella gioia del Padre, di cui ha compiuto l’opera: questa è la gioia inesprimibile del Figlio al termine della sua missione, ed essa comunicherà a coloro che accolgono il suo amore. La gioia nell’AT era legata alla promessa della salvezza con l’avvento del Messia. Gesù realizza questa gioia, la cui caratteristica è la pienezza. Perché è una gioia vittoriosa sulla morte, quindi non può essere paragonata alla gioia umana. Inoltre la gioia è uno dei frutti dello Spirito (Gal 5,22).

In questa prospettiva, si può bene intendere il senso del v.13, con quel “deporre la vita” che richiama il movimento del Buon Pastore (Gv 10,11-18) «Dare la vita per i propri amici» .

Proprio a partire dal medesimo v.13 un elemento del testo particolarmente insistente è costituito dal termine “amici” (in greco philoi). L’amicizia con Dio è un tratto ben noto all’AT, e qui acquista una connotazione particolare in quanto è legato ad un’esperienza di liberazione, che, a sua volta, discende da un’esperienza di conoscenza e genera a sua volta un’esperienza di responsabilità.

In Giovanni avviene un passaggio dalla servitù all’amicizia in virtù della possibilità, per il discepolo, di accedere ad una conoscenza di “tutto ciò che ho udito dal Padre”. A questo progetto del Padre, anche noi collaboriamo, non per nostra iniziativa, ma perché scelti e costituiti dallo stesso Maestro e Redentore.

Si tratta di acquisire quella consapevolezza che, sola, può spiegare la possibilità e la responsabilità, individuata dal v.16, dell’andare e, andando, del portar frutto, con evidente connessione alla prima parte del discorso sulla vite. La caratteristica dell’amore rivelato da Gesù è di dilatarsi come per un bisogno interno. Il nostro amore, quello che ci è naturale e a cui siamo abituati, è amore che tende a chiudersi sull’oggetto o sulla persona amata per goderne in esclusiva. L’amore di cui parla Gesù non si pone in antitesi con questo amore, ma lo amplia: l’amore non deve essere possessivo pena la morte; l’amore di Dio è come una sorgente che zampilla in continuazione, dà e spinge a dare. L’amore deve dilatare i suoi confini, deve comprendere l’esperienza del dono e della gratuità. Il frutto atteso dai discepoli è l’irradiamento che avranno nel mondo la loro fede e il loro amore, per la gioia del Padre, il vignaiolo. Il profeta Isaia annunciava che la faccia della terra si sarebbe “coperta di raccolto” (Is 27,6). Ma il frutto che rimane è il Cristo, verbo incarnato, parola eterna, amore eterno.

“Fare frutto” può sbilanciare i discepoli verso un’operatività unilaterale; la particella “perché” lega invece la fruttuosità a quanto segue: chiedere e ricevere, sperimentare l’indigenza e il dono elargito con abbondanza (“tutto quello che chiederete”) e gratuitamente. Quel Qualcuno che Gesù rivela è il Padre, fonte dell’amore e della missione del Figlio, il Padre al quale ci si può rivolgere nel nome del Figlio in quanto si è rimasti nel suo amore.

L’amore consapevole e reciproco è coessenziale all’ascolto. Se per Cristo parlare vuol dire amare, per il discepolo ascoltare fruttuosamente significa amare il fratello, quello che porta frutto e quello che non porta frutto.

In questa circolazione inestricabile di amore e di conoscenza, che lo Spirito oggi ci dona attraverso l’ascolto della Parola, c’è la radice del più rigoglioso tra i frutti: quella gioia piena che “nessuno potrà più togliervi” (Gv 16,23).

Commento a cura di Annalisa Comunità Kairos


Immagine di Dimitris Vetsikas da Pixabay