don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 22 Novembre 2020

UNIVERSO

Gesù Cristo Re dell’Universo 2020

E se lo sguardo glorioso sul mondo, quello che Matteo dipinge con angeli e apocalittiche visioni, fosse possibile già qui, adesso? Se fosse questo, alla fine, il nostro compito? Guardare la storia come la guardano gli angeli, con lo sguardo Glorioso di Dio, dilatare il cuore fino ad abbracciate in ogni uomo tutti i popoli radunati. Tutte le esperienze radunate, tutta la storia radunata. Maturare una compassione così radicale da sentirsi parte di questo Tutto disegnato sul palmo della mano di Dio. E sentire che ogni aspetto della vita è solo una ferita aperta nel ventre di un cielo che partorisce richiami e presenze.

Suona strano, perché le fratture costanti che crepano le pareti del nostro cuore, che complicano le relazioni, che scheggiano via pezzi di relazioni che sono state importanti, sembrano dire il contrario, eppure credo che la fede possa essere una specie di resistenza alla disintegrazione della vita, alla frammentazione, a questo perdere pezzi che ci spinge verso la fine di noi stessi ammaccati e disillusi. Forse è solo illusione, forse mi piace pensarlo possibile, forse non ho ancora maturato quel distacco che fa rassegnare per i tanti vuoti che gridano di amori perduti, eppure questa pagina di Vangelo mi pare abiliti a nuove speranze. E lo faccia con lucido coraggio, imbastendo sentieri che non spingono alla fuga ma che ricollegano alla vita. Come se la speranza non fosse fuori e lontana, spinta in qualche paradiso da sperare ma, al contrario, fosse già qui, nel cuore delle nostre consapevolezze e fosse un richiamo costante, a disegnare con garbo il volto di Dio, il nostro e quello dei fratelli.

La rivelazione di un Universo abitato dalla speranza è sperimentabile a partire dalla parte più animale che ci abita: la fame e la sete. Non c’è niente di più universale. Incamminarsi in questa vita che implora di essere tenuta al mondo senza la fretta di riempire il vuoto. Dare nome a ciò che in noi chiede la fragranza del pane e la limpidezza dell’acqua. Di cosa abbiamo fame noi? Cosa è essenziale per rendere buona la nostra vita? Dal pane all’amore, dal desiderio di essere accarezzati al sogno di diventare generativi. Noi non solo abbiamo fame e sete ma lo siamo, siamo esseri fatti di fame e di sete, che sempre dicono, con il loro respiro che non cessa, con la fame d’aria che ci caratterizza, che non siamo niente senza un riempimento che viene da fuori di noi. Forse per iniziare a comprendere davvero chi siamo, senza cadere in trappole spiritualistiche o semplicistiche bisognerebbe dare dignità ad ogni cosa, anche apparentemente alla più banale, abbiamo bisogno di ogni cosa e ogni cosa, a modo suo, è risposta. Abbiamo bisogno di un pettine e di un amore a cui affidarci, di un cane da accarezzare e della foglia sull’albero da veder cadere, di un saluto e di una poesia e, in mezzo: l’Universo. Abbiamo bisogno di aver fame e sete di tutto. Sono bisogni diversi per importanza, certo, ma sono risposte. Tutte. E credo che imparare ad accogliere ogni cosa come una risposta che prova a render buona la vita con gratitudine sia un primo passo per insegnare agli occhi la gloria nascosta. Cantare un nostro personalissimo Cantico delle Creature.

E chissà forse i nostri occhi impareranno a sostare anche sul confine della tenda, in attesa di stranieri, come ci ha narrato Abramo. Forse i nostri occhi comincerebbero a imparare l’arte dell’accoglienza, che non è altro che una fame raffinata, la fame di sapersi guardare e di riconoscersi negli occhi degli altri. Ero straniero e mi avete accolto come Abramo, che facendo spazio all’incontro con quei tre uomini di passaggio nel deserto trasformò la tenda in un grembo e la sterilità in una discendenza. E così qualcuno disse che quegli stranieri erano angeli, e forse aveva ragione, perché dipende come guardi il mondo, puoi ridere, come Sara o puoi vedere angeli. Abramo aveva già maturato uno sguardo nuovo. Proprio dell’uomo di fede.

Straniero è ciò che non conosco, e lo straniero più grande è quello che ci portiamo dentro, quello che non sappiamo domare, quello che nascondiamo, quello che camuffiamo. Non penso immediatamente agli stranieri in cerca di casa, penso che noi siamo stranieri a noi stessi e che spesso viviamo con una frattura dentro tra ciò che mostriamo e ciò che sentiamo, frattura risanabile, almeno in parte, da uno sguardo angelico, fatto di dolci ricomposizioni, di grandi misericordie. E se fosse questo il nostro compito? Testimoniare qui, adesso, lo sguardo buono che raccoglie i pezzi di una vita e li ricompone con uno sguardo libero e gioioso?

E poi imparare il coraggio di accettare Dio per come vuole mostrarsi: nudo. Da Betlemme al Calvario, nudo. E nudo è stato anche in tutto il resto della sua vita, esposto, consegnato, spogliato. Credo sia l’atto di coraggio più alto a cui siamo chiamati. Perché nudo è colui che riconosce la sua vulnerabilità, nudo è chi non oppone resistenza alla crocifissione, nudo è chi vuole fare l’amore. Nudo è chi canta, nel proprio corpo, il rischio della vita, lo accetta, lo abbraccia, lo accoglie. Ad ogni costo. Anche a costo della vita stessa. Che la nudità sia lo spazio scelto da Dio per mostrarsi credo sia un atto di coraggio infinito. Anche perché dipende da come scegliamo di rivestire la nudità altrui. E se glorioso fosse già qui, il nostro sguardo, e quindi divino, se imparassimo la commovente tenerezza di chi bacia le proprie e altrui nudità con la sacrale devozione di chi riconosce nel corpo esposto l’unica definitiva reliquia?

E magari rivelare con coraggio anche l’identità di questa nostra amata e malata chiesa. Malata e quindi bisognosa di essere visitata. Se avessimo il coraggio di ammetterlo, senza enfasi o vittimismi ma con la sicurezza che solo un malato può parlare con occhi grati della bellezza di essere accuditi. La chiesa fatta di uomini malati e accuditi dalla misericordia. Mi sembra di una tenerezza inarrivabile.

E tutto, davvero tutto l’Universo, di mostrerebbe come un grande appello alla libertà ero in carcere e siete venuti a trovarmi per dire che il destino ultimo di ogni cosa è la libertà, una libertà da indicare, suscitare, accompagnare. Ogni cosa chiede libertà, l’universo chiede libertà, già qui, già ora. E l’unico in grado di liberare è il re. E allora anche la morte non sarà altro che il nostro ultimo atto di completa libertà grazie a un Dio che proprio quando credevamo di essere in trappola, legati al nostro ultimo respiro, è venuto a trovarci. Come ha sempre fatto. Per liberarci.


AUTORE: don Alessandro DehòSITO WEB Leggi altri commenti al Vangelo della domenica

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