Commento al Vangelo del 28 giugno 2015 – Paolo Curtaz

Il commento al Vangelo di domenica 28 giugno 2015 a cura di Paolo Curtaz per la XIII domenica del tempo ordinario.

Tredicesima domenica durante l’anno

Sap 1,13-15;2,23-24/2Cor 8,7.9.13-15/ Mc 5,21-43

Destini incrociati

È proprio bravo il giovane Marco.

Bravo a parlare di Gesù.

Bravo a raccontare ciò che ha fatto, come lo ha colpito, come lo ha convinto, come lo ha cambiato.

Bravo a descrivere la reazione delle persone, dei discepoli, la sua.

Come quando ha dovuto parlare delle inevitabili difficoltà che incontriamo nel passare all’altra riva, nel cercare di attraversare il mare di ostacoli che incontriamo nella vita e, in particolare, nella vita interiore, quella vera, quella piena.

Oggi fa anche di meglio, fa anche di più: usa uno stratagemma letterario, ci dicono gli esegeti, incrociando due storie. Ma non sono due storie qualsiasi: sono le storie di due donne travolte dal dolore.

Marco mette in scena la storia di due dolori immensi, di due dolori che mozzano il fiato: quello della morte prematura di un figlio e quello di una sconfinata solitudine.

E, in entrambe, Gesù interviene, manifestandosi come colui che, solo, restituisce alla vita, restituisce alla compagnia.

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Parlo da padre: il dolore più forte che un essere umano possa immaginare è la perdita di un figlio. È lo spauracchio che mette ansia, che noi genitori dobbiamo sempre tenere sotto controllo.

Il dolore più assurdo e inaccettabile, quello che mette davvero in crisi la nostra visione di un Dio buono.

La figlia di Giairo ha dodici anni, dodici, in Israele, rappresenta la pienezza.

È nel pieno della sua adolescenza, le manca un solo anno per raggiungere l’età in cui potrà andare in moglie. È gravemente ammalata. Giairo, suo padre, si rivolge con apprensione al rabbì, chiedendole una guarigione.

Gesù è profondamente coinvolto da quel dolore.

Va a vedere ma, quando giunge, si premurano di avvisare entrambi (che delicatezza!) che la ragazza è morta. Non è così, dice Gesù. E viene deriso dai presenti.

Ma che razza di dolore vivono se sono capaci di passare dal pianto allo sfottò in un attimo?

Il dolore di Gesù è vero, autentico; entra in casa e rialza la ragazza. È la caparra di ciò che accadrà a ciascuno di noi.

Talità kum. Alzati, fanciulla!

Il dolore perfetto

E dodici sono gli anni di malattia della donna che lo vede da lontano.

Il sangue contiene la vita, secondo l’antropologia biblica, toccare il sangue significa contaminarsi con la vita dell’altro. Una donna che ha perdite di sangue dev’essere lasciata sola. Non può entrare nel tempio, chi la tocca contrae impurità. Un vero inferno.

Non ha più relazioni, né marito, né famigliari. Come una lebbra senza lebbra.

Da dodici anni è sola. Nessuno che la tocchi, nemmeno per un casto abbraccio.

E la solitudine consuma, uccide, spegne.

Vuole toccare Gesù, ma teme una sua reazione. Lo contaminerebbe, lo sa bene.

Osa. E accade.

Non è lei a contaminare Gesù, è lui che la purifica.

Si accorge di una potenza che esce da lui. Molti lo toccano, gli fanno notare i discepoli iper-realisti.

Lo sa bene Gesù, ma solo lei lo ha toccato con amore. E guarisce.

Il miracolo nasce nel nostro cuore, germina da dentro, non dall’esterno.

Viene sanata all’istante. La sua vita non sarà più versata in mille rivoli, il suo affetto non sarà più dilapidato. Ora la vita scorre, sì, ma verso Cristo.

Si consuma ma verso colui che, con affetto, la restituisce.

Noi

Come la figlia di Giairo, spesso, la nostra anima, la nostra fanciulla interiore, la nostra parte autentica langue, si spegne, muore. Intorno tutti dicono che non c’è nulla da fare, che è meglio lasciar perdere. Anima? Di questi tempi? Ma chi ne parla ancora!

No, non esiste nessuna parte immortale in noi, nessuna parte autentica, nessuna scintilla di Dio.

Anche noi, come Cristo, siamo derisi. Pezzi di antiquariato, fenomeni da baraccone. Ridicoli.

Ma Cristo ancora ci rianima, dice a ciascuno di noi: alzati!

Qual è il sogno che abbiamo sepolto? La tenerezza che abbiamo abbandonato? La parte bambina di noi che è stata mortificata dalla vita?

Quella, proprio quella ci permette di incontrare Dio.

Come la donna malata, la nostra vita si disperde in mille rivoli, come il sangue che cola.

Diamo affetto a chi non sa che farsene.

La solitudine ci travolge, nonostante i social network, nonostante gli smartphone.

In un mondo cinico e superficiale essere attenti e seri diventa una maledizione che conduce alla condanna della solitudine.

Ma Cristo no, non ci lascia soli.

Ci guarisce, ci fa abbandonare solitudine e dolore.

Sempre.

Eccoci qui, amici.

Questo è il nostro Dio,

questo è il dono che ci offre ancora.

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