Paolo Curtaz – Commento al Vangelo di domenica 9 Ottobre 2022

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Da appestati a uomini liberi

Sale a Gerusalemme Gesù, tutta la sua vita è proiettata all’incontro con quella città, la culla della fede ma anche il nido delle vespe della religiosità aggressiva e ottusa.

Sale con determinazione, col volto indurito, scrive Luca.

Attraversa la Samaria e la Galilea.

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Cammina verso l’assoluto. Cammina verso la resa dei conti. Cammina verso la Santa.

Ma intanto attraversa la vita, le città. Incontra la gente, si confronta, agisce.

Vive.

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La sua vita interiore non è a parte, lontana, inaccessibile. Non lo rende un alieno.

È presente, il Signore. A sé e al mondo. Vede. Si accorge. Ha compassione.

Avrebbe di che starsene chiuso in se stesso, a meditare e a riflettere.

E invece.

Sulla strada gli si fanno incontro dieci lebbrosi che urlano a distanza.

Se siamo in cammino l’intera umanità ci si fa incontro, gridando. Possiamo fare come il ricco che non vede Lazzaro, o raccogliere la sfida di chi attende salvezza. Gesù ha fatto la sua scelta.

Da tempo.

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Gridano

Gridano, i lebbrosi. Devono fermarsi a distanza. Per farsi ascoltare urlano.

Come accade ancora oggi, nelle nostre caotiche vite, nelle nostre grandi e anonime metropoli in cui il rumore, l’opinione, i confronto sovrastano ogni parola pronunciata sottovoce.

È un tempo in cui si urla, il nostro.

Devono urlare per chiedere pietà. Perché se si tace nessuno si accorge di loro.

I rabbini dicevano che un lebbroso era come un morto e poteva solo contaminare chi lo toccava.

E che la lebbra era la massima punizione che Dio infliggeva al peccatore.

Sono dieci. Dieci sono le dita di una mano, il numero dieci indica, in Israele, la totalità. Siamo tutti malati, tutti lebbrosi, tutti bisognosi.

La loro vita si consuma nel vedere il loro corpo cadere a pezzi, marcio. La loro anima, da tempo, è morta, divorata dal giudizio della gente e dai sensi di colpa che li fanno credere colpevoli davanti al dio impietoso dei farisei. Appesi al giudizio impietosi degli altri, come noi, spesso.

Dei dieci uno è straniero, nemico, un samaritano.

La malattia e il dolore accomunano ogni uomo, senza distinzioni di religione o di etnia. La sofferenza è e resta l’esperienza più comune del vagare umano. Ce ne ricordassimo.

Urlano il loro dolore, il loro abbandono, il loro lento ed inesorabile imputridire.

Chiedono pietà, la compassione che nessuno offre loro. E, forse, sperano in un’elemosina.

Gesù chiede loro di andare dai sacerdoti per essere guariti.

A volte Gesù ci guarisce a rate, ci chiede di metterci in cammino per vedere dei risultati.

A volte Gesù, simpaticone, ci chiede di andare da un prete per essere guariti. Ma dai.

Il Tempio

È un retaggio dell’antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da ufficiale medico: solo lui poteva attestare la guarigione e il reinserimento di un lebbroso.

Li manda dai sacerdoti, il Signore, porta rispetto per il passato di Israele, non è venuto a cambiare un iota o un segno, ma a dare compimento, a riportare alla propria origine il progetto di Dio.

La guarigione non è istantanea, richiede un cammino, obbliga a fidarsi; Dio non ama i miracoli eclatanti, chiede sempre consapevolezza, cammino, fiducia, mediazione.

Ci vuole tutta la vita per guarire dalla lebbra del peccato e della solitudine. Non esistono cambiamenti definitivi che non richiedano tempo e pazienza, costanza e fiducia.

I dieci vanno, forse delusi dal non avere visto la propria pelle risanarsi all’istante e, mentre camminano, si accorgono di essere guariti.

Anche a molti di noi accade di guarire per strada, quando la smettiamo di porre condizioni a Dio e a noi stessi. Solo camminando verso il tempio veniamo purificati da ogni lebbra del cuore.

Stupiti, straniti, sconvolti, i lebbrosi guariti adempiono la richiesta di Gesù e vanno dal sacerdote. Eccetto uno, colui che non ha tempio, che non ha sacerdoti, non ha religione.

Il suo tempio, sul monte Garizim, è stato raso al suolo dagli ebrei.

Non sa dove andare e torna sui suoi passi. Non ha un tempio dove andare. Torna al Tempio.

Vedendosi guarito

Vedendosi guarito racconta Luca.

Si vede, infine. Vede cos’è, sul serio. Si vede con uno sguardo nuovo, infine. Vede che è cambiato, che non è più lo stesso.

È guarito, ora. Dentro e fuori. La pelle è risanata, ora sta per risanare lo sguardo.

Abituato a considerarsi un maledetto da Dio, vittima prescelta, destinatario di un orribile destino.

Il suo pensiero guarisce. La sua anima guarisce.

Si scopre amato.

Vedendosi guarito.

È quello che possiamo fare anche noi. Dio ci guarisce, certo, ma solo se ci mettiamo in strada, solo se ci vediamo dentro, solo se ci osserviamo, solo se prendiamo consapevolezza.

Non è la nostra vita che cambia, è lo sguardo che abbiamo su di essa.

Da vittime a protagonisti. Da appestati a uomini liberi.

Lodando

Uno solo torna a ringraziare, pieno di fede.

Gesù, sconfortato, constata che dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato.

Il samaritano torna indietro lodando Dio a gran voce, non può tacere, urla la sua gioia, la sua solitudine e la sua emarginazione sono finalmente finiti. E gli altri? Chiede Gesù.

Nulla, spariti, scomparsi.

Guarire gli uomini dalla loro ingratitudine è ben più difficile che guarirli dalle loro malattie.

 

Essere guariti non significa essere salvati.

I nove ingrati sono la perfetta icona di un cristianesimo molto diffuso, che ricorre a Dio come ad un potente guaritore da invocare nei momenti di difficoltà. Che triste immagine di Dio si fabbricano coloro che a lui ricorrono quando c’è bisogno, che lasciano Dio ben lontano dalle loro scelte, dalla loro famiglia, salvo poi arrabbiarsi e tirarlo in ballo quando qualcosa va storto nei loro (badate, non nei suoi) progetti. I nove sono guariti: hanno ottenuto ciò che chiedevano, ma non sono salvati.

Rimasti chiusi nella loro parziale e distorta visione di Dio, guariti dalla lebbra sulla pelle, non vedono neppure la lebbra che hanno nel cuore.

Il Dio che hanno invocato è il Dio dei rimedi impossibili, non il Tempio in cui abitare, il Potente da corrompere e convincere, non il Dio che, nella guarigione, testimonia che è arrivato il tempo messianico.  

È tempo di camminare, fidandoci del Signore.

È tempo di vederci con uno sguardo diverso, guariti, infine.

È tempo di tornare indietro gridando a gran voce la gloria di Dio e le opere che compie in noi.

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