Prima lettura: Isaia 55,1-3
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Così dice il Signore: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti.
Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide».
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Questo oracolo del secondo Isaia è rivolto ai deportati a Babilonia, nella prospettiva del ritorno in patria e della ricostruzione, grazie alle concessioni del re persiano Ciro, intorno al 538 a.C. I capitoli attribuiti a questo profeta (Is 40-55) incominciano proponendo gli intensi e molteplici richiami della parola di Dio, che annuncia e prepara il cambiamento della situazione (Is 40,1-11). Poi si diffondono sull’opera militare e politica di Ciro e su quella profondamente spirituale del Servo di JHWH. Adesso con la conclusione costituita dal capitolo 55, sollecitano tutti a dare ascolto e collaborazione attiva alla parola di Dio, sicuri dei suoi splendidi frutti. I tre versetti del brano liturgico sintetizzano questa sollecitazione, con paragoni facili e incisivi.
— Il versetto 1 invita a procurarsi i beni materiali, da quelli necessari di acqua e grano a quelli sovrabbondanti di vino e latte, pur senza denaro e senza spese. Con espressioni simili, la Sapienza invita ad ascoltare la parola di Dio, saggia e feconda di vita (Pr 9,5.11). Il profeta intende la stessa cosa. Ma sembra anche imitare le grida dei venditori per reclamizzare la loro merce, che stanno all’origine del paragone. Ciò gli permette di evidenziare i benefici anche materiali, che per i deportati erano il ritorno in patria e la ricostruzione, e di polemizzare con gli spacciatori di merci false.
— Il versetto 2 riferisce esplicitamente il paragone degli acquisti all’impegno di ascoltare la parola di Dio. Lo fa prima mettendo in guardia dallo spendere per ciò che non è pane e che non sazia e poi con l’invito «ascoltatemi», per avere le cose buone e i cibi succulenti. Le allusioni sono a predicatori di altri messaggi, magari di pessimismo e di rassegna-zione alla deportazione, comunque in contrasto con quello del profeta.
— Il versetto 3, ormai fuori dai paragoni, insiste sul rapporto tra parola di Dio e vita. Ripete per tre volte: «Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete». E assicura le conseguenze concrete: «Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide». Questo rapporto avvicina l’oracolo all’invito di Gesù: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Lo pone in linea col messaggio della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Vangelo). Ed esclude l’interpretazione spiritualista data da qualcuno al versetto precedente, quasi escludesse la ricerca del pane materiale per dedicarsi solo al cibo spirituale. Per Isaia, come per Gesù, la parola di Dio è fonte di vita piena, per lo spirito e per il corpo.
Seconda lettura: Romani 8,35.37-39
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Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.
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Qui è proposta la parte finale dell’inno di lode all’amore di Dio che conclude il capitolo ottavo della lettera ai Romani, tutto dedicato alla trasformazione dell’uomo e del creato grazie alla redenzione operata da Cristo. In riferimento al suo contesto, si può trovare in essa un collegamento con la tematica principale delle altre letture, sotto due aspetti.
Da una parte l’inno esprime la più completa ed entusiasta fiducia nell’amore che Dio ha per noi. Tale senso ha la domanda iniziale: «Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Assolutamente niente può intaccare la fedeltà di Dio che ha impegnato verso di noi la sua paterna misericordia, manifestata nel dono supremo di Cristo e della sua opera. Paolo fa un dettagliato elenco degli ostacoli possibili, dal nostro punto di vista: vanno dalle sofferenze personali, interne ed esterne, alle catastrofi di flagelli naturali, come la fame e la nudità, e della cattiveria umana, come la persecuzione e le violenze, fino alle opposizioni di potenze superiori che agiscono nel cosmo e nella storia. Nessuna creatura può prevalere su Dio. All’elenco possiamo certamente aggiungere le difficoltà a costruire, ieri e oggi, un mondo riconciliato, quale è prospettato nel contesto di questi versetti, e una comunità umana nella solidarietà e nella condivisione, come propongono la prima lettura e il Vangelo. Anche di queste difficoltà è più forte l’amore col quale Dio ci ama.
Dall’altra parte l’inno esprime il nostro impegno a corrispondere: «in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati ». L’apostolo è ottimista ed entusiasta anche sotto quest’aspetto. Ma sa bene, e lo ha detto altrove pure in questa lettera, che gli ostacoli all’amore di Dio vengono proprio da noi. Per questo prospetta il nostro impegno quasi come una sfida. Bisogna lasciarsi amare da Dio, in ogni circostanza, e avere il coraggio, con la sua grazia, di affrontare qualsiasi situazione per quanto difficile. Con questi atteggiamenti, i cristiani del tempo di Paolo hanno fermentato e trasformato la società pagana. Solo con essi è possibile liberare anche la società attuale dalle presunzioni dei vari ateismi e dalle catastrofi provocate dagli egoismi, dalle violenze e dalle sopraffazioni reciproche. I cristiani ne dovrebbero essere convinti per primi e impegnarsi a darne testimonianza dentro alla vita sociale, sebbene tanto complessa e difficile.
Vangelo: Matteo 14,13-21
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In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
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Esegesi
La moltiplicazione dei pani e dei pesci è l’unico miracolo raccontato da tutti e quattro gli evangelisti. Il motivo è perché ha prefigurato e preparato l’istituzione dell’Eucaristia. E l’Eucaristia, bisogna aggiungere, è il primo germoglio che nasce dalla seminagione della parola, per organizzare la vita umana secondo il regno di Dio e la sua giustizia. Matteo fa risaltare questo, raccontando il prodigio al centro del Vangelo, dopo i discorsi in parabole (Mt 13), missionario (Mt 10) e della montagna (Mt 5-7), quando Gesù provoca i suoi discepoli e le folle a passare dalle parole ai fatti, in forza della fede. Riferisce prima la situazione, poi il dialogo per affrontarla e infine il miracolo.
La situazione (vv. 13-14). Gesù è in pericolo di vita, dopo che Erode ha ucciso il Battista, e per sottrarsi si apparta in un luogo deserto. Là trova una grande folla, affamata del nutrimento dello spirito e anche del corpo, per la quale prova una «compassione viscerale», cioè profondamente partecipata, come verso quelle che in precedenza gli erano apparse «stanche e sfinite, come pecore senza pastore» (Mt 9,36). Allora aveva provveduto formando il gruppo dei dodici apostoli, collaboratori della sua opera. Adesso guarisce i malati e si fa aiutare a procurare anche il cibo materiale. In questa viva partecipazione di Gesù, Matteo vede gli atteggiamenti del Messia liberatore dall’oppressione e dalle deportazioni (Mt 4 14-16), che si addossa le nostre miserie di ogni genere (Mt 8,17), per guarirle alla maniera misericordiosa e delicata del Servo di JHWH (Mt 12,17-21).
Il dialogo (vv. 15-18). Affronta decisamente la necessità del cibo materiale. Focalizza lo scopo del miracolo ed è la chiave per intenderne il significato e i successivi sviluppi. I discepoli propongono in sostanza a Gesù il disimpegno: «congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Gesù, al contrario domanda anche a loro un impegno a prima vista impossibile: «voi stessi date loro da mangiare». Hanno solo cinque pani e due pesci. Ma, proprio perché discepoli, hanno qualcos’altro di fondamentale da donare a questa folla e al mondo, nel procurarsi il cibo e il vestito: la fiducia in Dio Padre e il senso della condivisione nel suo nome. Con l’ordine: «Portatemeli qui», chiede i pani e i pesci, ma insieme anche la loro presenza e partecipazione. Non intende affatto uno sbrigativo e miracolistico: lasciate fare a me!
Il miracolo (vv. 19-21). Effettivamente poi Gesù intreccia il suo operato con la richiesta di collaborazione a tutti, nel più profondo affidamento a Dio. Ai discepoli, avute le risorse disponibili, domanda di darsi da fare personalmente con lui nel servire la gente. Alla folla ordina di sedersi sull’erba, «a gruppi», specifica Marco (Mc 6,39), perché non ha da starsene soltanto passiva. In quella posizione, infatti, realizza un minimo di ordine che consente di seguire quello che fa lui e di accorgersi di chi è vicino nella stessa necessità, per incominciare a solidarizzare. Nel provvedere convenientemente al cibo e alle necessità materiali, bisogna sempre prima di tutto uscire dalla confusione e dalle chiusure nelle preoccupazioni egoistiche. Da questo inizio si può seguire Gesù in tutti i suoi gesti che l’evangelista scandisce come lo saranno poi nell’Eucaristia: alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. In questo modo quel miracolo è stato la preparazione di quello permanente dell’Eucaristia, con il quale i cristiani sono chiamati a contribuire per rendere sempre possibile il miracolo, universalmente e perennemente urgente, della solidarietà e dello sviluppo nella pace.
Meditazione
La comunione e l’alleanza sono sancite da un banchetto, segno di convivialità e di celebrazione della vita. La promessa di Dio dell’«alleanza eterna» (Is 55,3) è accostata all’invito a partecipare al banchetto che suggella il sacrificio di comunione che normalmente accompagna la stipulazione dell’alleanza (prima lettura). Gesù dona cibo abbondante e sazia una folla numerosa condividendo il poco a disposizione (vangelo).
La gratuità del cibo, sottolineata nella prima lettura («comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte»: Is 55,1) come nel vangelo, dove il banchetto imbandito da Gesù è frutto di condivisione e si oppone alla richiesta dei discepoli di congedare le folle perché possano andare a comprarsi da mangiare (Mt 14,15), rientra nella dimensione escatologica che il banchetto riveste ed è espressione di un’istanza di giustizia e fratellanza da cui nessuno può restare escluso. Riprendendo le espressioni di Ap 21,4, che evocano la situazione della Gerusalemme celeste istituendo un confronto con la condizione storica e terrena e delineandola come situazione in cui non vi sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno, noi potremmo aggiungere anche: «non ci sarà più fame». Ma sperare un mondo dove non esista più la piaga della fame e dove non si muoia più per fame, ha il prezzo dell’impegno quotidiano, qui e ora, per dar da mangiare agli affamati, per debellare le cause strutturali che riducono alla fame intere popolazioni.
Prima di aver a che fare con l’eucaristia, i nostri testi hanno a che fare con l’umanissimo atto di mangiare. Mangiare è un’arte. «Gli animali si pascono; l’uomo mangia; solo l’uomo intelligente sa mangiare» (Anthelme Brillat-Savarin). Il testo di Isaia inizia con un invito: a mangiare si è chiamati. È il nostro corpo che ci chiama a mangiare. Ma poi, giacché gli uomini mangiano insieme, il banchetto è segnato da un invito che altri ci ri-volgono. E mangiare significa anche attendersi e condividere (ciò a cui Paolo richiama i cristiani di Corinto: 1 Cor 1,21-22.33-34).
Il cibo che sfama non è solo quello costituito da «grasse vivande e vini eccellenti» (Is 25,6), ma quello delle relazioni umane. Relazioni evocate negli imperativi di Is 55,2-3: «Porgete l’orecchio e venite a me».
La pericope evangelica inizia con l’annotazione che Gesù parte su una barca e si ritira in disparte, in un luogo deserto, dopo aver appreso la notizia della morte di Giovanni Battista (Mt 14,13). Gesù cerca la solitudine per prendere una distanza dall’evento dell’esecuzione del Battista e poter così leggere la propria responsabilità di fronte al vuoto lasciato da Giovanni. E gli eventi, ovvero le folle che lo seguono a piedi dalle città e si presentano a lui quando sbarca a riva, gli suggeriscono la risposta: «egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati» (Mt 14,14). Dalla sua sofferenza per la morte del Battista Gesù passa a vedere la sofferenza delle folle e soprattutto dei malati e degli infermi. E se ne prende cura. Entrato in contatto con la sua sofferenza, Gesù sa vedere la sofferenza delle folle e la sua compassione diviene cura, azione terapeutica. Diviene risposta umile e fattiva al male del mondo.
La sua assunzione di responsabilità nei confronti delle folle contrasta apertamente con l’atteggiamento dei discepoli che vorrebbero che Gesù licenziasse la gente per consentire loro di andare ad acquistarsi viveri (Mt 14,15). Gesù dice: «voi stessi date loro da mangiare» e il comando contesta la deresponsabilizzazione verso il bisognoso e suscita l’obiezione dei discepoli che vedono nella loro povertà l’impedimento ad assolverlo (Mt 14,17: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!»). Questa la reazione scandalizzata dei discepoli – e di noi con loro – in nome del buon senso, della razionalità e dell’efficienza. Nella risposta di Gesù (Mt 14,18) la povertà non solo non è un impedimento, ma è la condizione che manifesta la potenza della condivisione e dell’azione di Dio. La povertà della chiesa è la condizione della sua efficacia evangelica: essa svela la sua fede che consente alla potenza di Dio di agire.
Commento a cura di don Jesús Manuel García
Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 2 Agosto 2020
Una compassione intelligente
La pericope evangelica della XVIII domenica del tempo Ordinario dell’annata A inizia con l’annotazione che Gesù parte su una barca e si ritira in disparte, in un luogo deserto, dopo aver appreso la notizia della morte di Giovanni Battista (cf. Mt 14,13). Come si era ritirato dopo aver saputo dell’arresto di Giovanni (Mt 4,12), ora, venuto a sapere della sua esecuzione capitale, analogamente si ritira, fa anacoresi. Il rapporto di Gesù con Giovanni è profondo anche nella distanza. È come se la presenza di Giovanni abitasse in Gesù: la notizia della sua morte provoca un’eco profonda in lui, una risonanza certamente di tipo affettivo, ma non solo. Immerso nel Giordano da Giovanni, Gesù ne è stato un seguace, e il loro incontro è stato un evento spirituale in cui l’uno ha riconosciuto la vocazione dell’altro ed entrambi si sono obbediti a vicenda pur di compiere il volere del Padre (cf. Mt 3,13-17). Ora, morto Giovanni, Gesù cerca la solitudine per prendere una distanza dall’evento dell’esecuzione del Battista e poter così leggere la propria responsabilità di fronte al vuoto lasciato da Giovanni. È come se la morte di Giovanni divenisse un messaggio per lui, un passaggio di testimone. Quando, vedendo le folle che lo avevano seguito sottraendolo di fatto alla solitudine che cercava, Gesù abdicherà al proposito di ritiro per prendersi cura di loro, lo farà anche assumendo la postura pastorale nei confronti di gente che, come specifica Marco nella sua redazione evangelica, “erano come pecore senza pastore” (Mc 6,34) perché orfane del Battista. In ogni caso, noi abbiamo qui l’espressione di quella ricerca di solitudine e ritiro che ha caratterizzato la vita di Gesù (Mt 14,23; Mc 1,35.45; 6,31; Lc 5,16; Gv 11,54). Gesù non fugge di fronte al vuoto in cui consiste il lutto per la perdita dell’amico e maestro, non si stordisce, ma cercando la solitudine tenta di rendere eloquente per lui tale perdita. Gesù coltiva il vuoto della morte di Giovanni e così quella morte diventa generativa e produttrice di vita. Non a caso il racconto evangelico che inizia con la notizia della morte di Giovanni, si chiude con l’atto con cui Gesù dà vita alle folle curando i malati e dando loro da mangiare. E come la morte di Giovanni è stata elaborata da Gesù facendone un atto di responsabilità che l’ha impegnato nei confronti delle folle, così egli spingerà i suoi discepoli a un’analoga assunzione di responsabilità nei confronti della gente affamata dicendo loro: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mt 14,16).
La notizia della partenza di Gesù verso un luogo solitario si sparge e le folle, a piedi, seguono Gesù che invece si è spostato su una barca. Ci troviamo dunque nei dintorni del lago di Tiberiade. La “sequela” che le folle attuano di Gesù, in questo caso, contraddice l’intento di Gesù. E la contraddizione appare nella sua “violenza” quando veniamo a sapere, al termine del racconto, che quelle folle constavano di migliaia di persone (Mt 15,21). Gesù non cerca le folle, anzi, a volte, scoraggia le folle numerose che lo cercano e le mette in guardia (cf. Lc 14,25). Gesù non è certo incantato dal numero consistente di ascoltatori, ma non si sottrae nemmeno al loro grido, al loro bisogno, alla loro sete. Quando infatti scende dalla barca “prova compassione” per loro e accetta di “cambiare programma” mostrando duttilità e capacità di cogliere nella folla che lo distrae dal suo proposito di solitudine e silenzio, un appello da ascoltare e a cui obbedire. La solitudine e il ritiro sono un’esigenza per Gesù, ma egli non è così rigido da fare dei propri pur giusti e giustificati progetti una barriera che gli impedisca di ascoltare il bisogno degli altri. E a motivo della carità egli deroga dal suo progetto di ritiro. Anzi, provando compassione, sentendosi cioè sconvolto nelle viscere dalla visione delle folle che lo cercano mendicando la sua presenza, egli sente anche la loro sofferenza, entra in contatto con la loro mancanza e, mentre si prende cura di loro e fa loro il bene, fa certamente il bene anche a se stesso. Sofferente per la morte di Giovanni, Gesù è particolarmente disponibile e aperto a sentire la sofferenza delle folle, la loro mancanza, e ad agire di conseguenza. Nessun moto di fastidio e nessuna ribellione di fronte alle folle numerose, ma l’assunzione del dato di realtà per fare di quella contraddizione un’occasione per vivere l’obbedienza a Dio. Anche altrove Matteo riporta la compassione di Gesù per le folle (per esempio, in Mt 9,36) e questo movimento profondo dell’animo non va ridotto a un semplice sentimento, a un semplice sommovimento interiore, ma va colto anche nella sua forza cognitiva. La compassione è anche intelligenza dell’altro. Intelligenza che comporta almeno un giudizio che vede la grave situazione di bisogno dell’altro e una valutazione di innocenza, per cui l’altro non ha colpa della situazione penosa in cui si trova. Infine, la compassione comporta l’azione, l’intervenire in favore dell’altro. E Gesù, dice Matteo, cura i malati (Mt 14,14). Non si dice che li guarisce, ma che li cura e curare significa anzitutto “servire” e “onorare” una persona, averne sollecitudine, assumersi la responsabilità della loro persona, prendersene cura. E così passa la giornata e viene la sera (Mt 14,15).
Entrano ora in scena i discepoli che si rivolgono a Gesù con parole di realismo disimpegnato. Essi fanno presente a Gesù ciò che Gesù già certamente sapeva, ovvero che il luogo è solitario e l’ora è tarda e dunque occorre rimandare le folle affinché se ne vadano nei villaggi per acquistare cibo. La presenza di Gesù, maestro e guida, sembra deresponsabilizzarli: dicono a Gesù cosa deve fare nei confronti delle folle. Non si interrogano su ciò che eventualmente loro stessi possono fare, ma insieme (Mt 14,15: “i discepoli”, dunque tutti), come tutti quanti incapaci di autonomia e di iniziativa, si rivolgono a lui affinché faccia quel che vogliono loro. Ma la risposta di Gesù mostra che il suo pensare non coincide con il pensare dei discepoli. Ed è un pensare che li responsabilizza rinviandoli a loro stessi. “Non hanno bisogno di andarsene; date loro voi stessi da mangiare” (Mt 14,16). Come altrove nei vangeli, l’obiezione dei discepoli si richiama a ragionevolezza, a buon senso, e si nutre di quella malcelata superiorità e condiscendenza che si ha nei confronti di chi non si rende conto della realtà. E diviene anche un mascherato rimprovero. Non è forse così quando i discepoli dicono a Gesù che, in mezzo alla calca, si è sentito toccato nelle sue vesti: “Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: ‘Chi mi ha toccato?’” (Mc 5,31). Qui l’obiezione verte sulla risibile quantità di cibo che i discepoli hanno a disposizione: “Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci” (Mt 14,17). E si potrebbe aggiungere: “Come possiamo trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?” (Mt 15,33). C’è un realismo che è mancanza di fede, che diventa un impedire al Signore di intervenire nella storia, che ostacola il novum che Dio può operare. In questo caso i discepoli è come se dicessero che la loro povertà, la pochezza a loro disposizione, è ciò che impedisce loro di adempiere la parola di Gesù. Chiediamoci: non è forse una tentazione che abita i cristiani quella di ritenere che la povertà, la mancanza di mezzi sia ciò che ostacola l’evangelizzazione, l’annuncio e la testimonianza del vangelo? Per Gesù è l’esatto contrario: la povertà è condizione necessaria dell’annuncio evangelico. Il vangelo impoverisce e spoglia chi se ne vuole fare testimone e servo. E solo così l’annuncio è fecondo.
E la via indicata di Gesù è quella della condivisione. Il poco, condiviso, diventa sufficiente per tutti. E Gesù imbandisce un banchetto, anzi il banchetto messianico. Tra i compiti del Messia vi è quello di assicurare il pane al popolo. Il re Davide, figura del Messia venturo, aveva distribuito una focaccia di pane per ciascuno dei membri del popolo d’Israele (2Sam 6,19). Gesù qui si manifesta come colui che realizza l’operare del Dio che “dà il cibo a ogni vivente” (lett. “il pane a ogni carne”: Sal 136,25), come il pastore che fa sedere sull’erba verde (Mt 14,19) il suo gregge e lo rifocilla e sostiene (cf. Sal 23). Il testo può certamente anche essere colto come prefigurazione del banchetto eucaristico (cf. Mt 14,19), tuttavia può essere utile terminare la riflessione ricordando che le parole di Gesù “Voi stessi date loro da mangiare” si rivolgono anche a noi oggi e diventano una spina nella carne che interpella le chiese di fronte alla tragedia della fame nel mondo. Le parole di papa Benedetto XVI conferiscono una dimensione politica e mondiale al comando che Gesù rivolse ai suoi discepoli: “La fame miete ancora moltissime vittime tra i tanti Lazzaro ai quali non è consentito … di sedersi alla mensa del ricco epulone. Dare da mangiare agli affamati (cf. Mt 25,35.37.42) è un imperativo etico per la chiesa universale, che risponde agli insegnamenti di solidarietà e di condivisione del Signore Gesù. Inoltre, eliminare la fame nel mondo è divenuta, nell’era della globalizzazione, anche un traguardo da perseguire per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta. La fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale” (Caritas in veritate 27). La prassi messianica di Gesù passa così nella realtà ecclesiale e diviene parola e azione profetica.
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose