Non si fa fatica a capire che l’immagine che Gesù usa nel Vangelo di oggi nasce per essere compresa soprattutto da un popolo di pescatori: <<È simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci>>.
Infatti non è compito della rete separare ciò che è mangiabile, da ciò che invece non lo è. La rete non ha la capacità di fare differenza tra un pesce buono e uno cattivo. Questo possono farlo solo i pescatori a riva. Per la durata della pesca ciò che conta è prendere. Tutta la storia è il tentativo di Dio di prenderci in qualche modo.
Di pescarci dal mare del non senso, di tirarci fino alla riva della fine della storia. Ma la salvezza non è un fatto automatico. La salvezza è essere riconosciuti buoni, e non semplicemente presi. Infatti tutti noi “siamo presi” da questa rete tutte le volte che ci accostiamo ai sacramenti, che ascoltiamo la Parola, che preghiamo, che facciamo un qualsiasi gesto che abbia a che fare con la fede. Ma essere presi nella rete non ci salva in automatico. Conta la scelta del bene o del male.
Sono le nostre scelte nella vita che ci qualificano come “buoni” o come “cattivi”. Serve poco ad essere presi se poi veniamo riconosciuti come cattivi. Il regno dei cieli è un misto tra la grazia e la nostra libertà. Non solo la grazia, e non solo la nostra libertà, ma entrambe le cose contano. Per troppo tempo, forse, ci siamo convinti che tutto poggiava sulle nostre scelte e le nostre forze, ma così non è; senza la grazia, senza l’essere presi non serve a molto il nostro sforzo.
Ma è vero anche il contrario, non possiamo delegare alla grazia ciò che poi dovremmo e potremmo fare noi con la nostra libertà. Solo scegliere concretamente il bene alla fine ci rende anche buoni. La nostra deve essere la stessa capacità dello <<scriba divenuto discepolo del regno dei cieli che è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche>>.
Non solo le cose antiche ci salveranno, né la ricerca smodata del nuovo, ma la saggezza di tenere insieme tradizione e profezia.
Non solo uomini del “sapere” ma persone dal “sapore” della gioia
Giovedì della XVII settimana del Tempo Ordinario (Anno pari)
La Chiesa è come una rete, dice Gesù, che raccoglie tutti senza una previa selezione. La prima missione della Chiesa è quella di creare spazi di accoglienza in cui ognuno possa fare esperienza di unità e comunione. A tutti deve essere offerta questa possibilità. Chi entra in contatto con i cristiani attraversa la soglia di quello che gradualmente sente come casa sua, lì dove è circondato di tenerezza, è sostenuto nelle difficoltà, trova agio nel condividere le proprie difficoltà e rendere partecipi gli altri delle proprie gioie.
Discepolo del Regno si diventa non per meriti acquisiti, quasi che sia un titolo da esibire, ma per la costanza con la quale si compie un cammino di conversione. Chi progredisce in questo cammino seguendo Gesù non è nostalgico e ripetitivo ma creativo. Dall’incontro con Gesù, il vero tesoro della vita, avviene una trasformazione per la quale si diventa creativi nel bene, cioè s’inventano nuove forme di annuncio del vangelo e promozione umana. Cristo è un tesoro inesauribile in cui le tradizioni dell’antico Israele si coniugano e si compongono con lo stile di vita del nuovo Israele.
Gesù non è venuto ad abolire la legge ma a dare pieno compimento; sicché i segni e le profezie dell’antico Testamento trovano piena luce e significato nelle parole e nei gesti di Gesù e attualizzati nella vita quotidiana dei suoi discepoli.
Il cristiano non solo rispetta le tradizioni che ha ricevuto, ma le coniuga con le istanze sempre nuove che il mondo offre. Il discepolo di Cristo non rinnega nulla della storia di cui è parte e non è proiettato solo verso un futuro tanto lontano quanto incerto, ma vive oggi la missione di portare il vangelo ad ogni creatura preparando il suo cuore e quello dei fratelli al giudizio finale nel quale emergerà la verità, cioè chi si è lasciato trasformare dalla grazia e chi invece le ha opposto resistenza rimanendo legato a norme, precetti e tradizioni di cui è rimasta solo la forma esterna ma che col tempo hanno perso il loro significato originario.
Lo scriba può essere considerato come colui che cerca la volontà di Dio, studia per cogliere nella parola di Dio la verità. Così facendo accumula «saperi» ma diventa veramente discepolo di Cristo quando ciò che impara lo impiega non per giudicare ma per evangelizzare, attirare nella rete della comunione con Dio e dei fratelli nella Chiesa. Così da uomo del sapere diventa discepolo della Sapienza e persona dal sapore dell’amore. A nulla servirebbe sapere tante cose ma non essere saporosi, cioè incapaci di far gustare agli altri la sapienza dell’amore che dà gusto alle relazioni che intessiamo.
Abbiamo sempre bisogno d’invocare il dono dello Spirito santo che ci aiuti non solo a comprendere le verità della fede e vivere per sé le esigenze del vangelo ma anche a metterle a disposizione di tutti coloro che incontriamo in modo che il nostro cuore sia veramente lo scrigno aperto dal quale tirar fuori le cose più belle, antiche e nuove, quelle che hanno e danno il sapore della gioia.
Auguro a tutti una serena giornata e vi benedico di cuore!
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Fonte – Mater Ecclesiae Bernalda La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]
“Il Signore rende giustizia agli oppressi e dà il pane agli affamati” (Sal 146,7), sono le parole con cui il pio israelita professa la sua fede nella provvidenza. Gli fa eco Maria nel suo canto di lode: “Ha ricolmato di beni gli affamati” (Lc 1,53).
Ma come possono essere vere queste affermazioni se un quarto dell’umanità vive in condizioni di assoluta miseria, se ogni giorno decine di migliaia di bambini muoiono di fame, se milioni di persone rimescolano la spazzatura alla ricerca di cibo? Dio che veste i gigli del campo e alimenta gli uccelli del cielo si è forse dimenticato dei suoi figli? Perché il Padre non ascolta la preghiera di chi ogni giorno lo supplica: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”?
Gli indigenti hanno fame, ma anche i sazi si ritrovano tristi, frustrati e soli; la gratificazione del possesso dura pochi giorni, se non poche ore, poi riaffiora l’ansia e il vuoto interiore obbliga a ripartire alla disperata ricerca di altri beni. L’avere di più, invece di saziare, aumenta la fame e fa entrare in un vortice di morte senza uscita.
Questa spirale può essere interrotta. È possibile trovare il pane che sazia e il banchetto dove abbonda il vino della gioia, ma una sola è la via che vi conduce, non ci sono scorciatoie. I cammini che passano accanto alle boutiques, alle gioiellierie e ai negozi di antiquariato sono immaginati come “Vie della felicità”, ma sono ingannevoli. È illusorio anche il cammino indicato da chi predica il miracolismo, da chi invita a impetrare interventi soprannaturali; il Signore non intende sostituirsi all’uomo.
Un prodigio però egli lo promette ed è la sua parola che lo realizza: dove è accolto il suo vangelo i cuori si disintossicano dall’egoismo e sbocciano solidarietà e condivisione. Quando emergono questi sentimenti, la fame di pane scompare ed è saziata la sete di amore.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo: “Dio si serve delle mani dell’uomo per sfamare i suoi figli”.
Prima Lettura (Is 55,1-3)
1 O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte. 2 Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. 3 Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide.
Siamo a Babilonia, sono già passati più di cinquant’anni da quando Gerusalemme è stata distrutta e da quando è iniziato il triste periodo dell’esilio. Gli israeliti che scoraggiati vivono in terra straniera un giorno odono risuonare la voce di un profeta; annuncia l’imminente caduta dell’impero babilonese, la liberazione, il ritorno in patria.
Nel brano di oggi, questa nuova condizione è paragonata ad un banchetto in cui ci sarà abbondanza di cibi e bevande. Per parteciparvi non sarà necessario spendere denaro, basterà avere fame e sete (v. l).
Il profeta però si rende conto che la maggioranza degli esiliati non ha né fame né sete. Essi si sono ormai stabiliti a Babilonia, bene o male si sono adattati alla situazione, non pensano affatto a costruirsi una nuova vita nella patria d’origine. Preferiscono restare dove sono e, se hanno messo da parte qualche risparmio, lo investono per comprarsi case e campi in Mesopotamia; non se la sentono di correre rischi, di lanciarsi in avventure che possono riservare sorprese. Insomma, a loro “il banchetto” non interessa, rifiutano l’invito.
Il profeta insiste, tenta di farli riflettere: la vostra non è una vera vita e chi impiega i propri soldi per sistemarsi definitivamente in terra straniera, sta “spendendo denaro per ciò che non sazia” (v. 2). Solo chi avrà il coraggio di partire sperimenterà la gioia della nuova realtà sociale preparata dal Signore.
Non venne ascoltato. I gruppi di israeliti che lasciarono Babilonia furono pochi e sparuti, la maggioranza non se la sentì di rischiare un nuovo esodo. Coloro poi che ritornarono… non trovarono alcun banchetto, furono accolti male, dovettero affrontare disagi e difficoltà d’ogni genere, per questo in molti sorse il dubbio di essere stati ingannati.
Ci volle del tempo prima che Israele intuisse il vero significato delle promesse del Signore. Non dovevano essere interpretate materialmente; si sarebbero realizzate, ma non in un futuro immediato. Il banchetto era il simbolo della salvezza offerta da Dio a tutta l’umanità.
La condizione in cui si trovavano i deportati a Babilonia è immagine di tutte le schiavitù in cui si dibatte ogni uomo. La tentazione di spendere denaro per ciò che non sazia, la diffidenza nei confronti di chi invita al banchetto e promette la vera gioia, la paura di intraprendere il cammino verso la terra della libertà sono sempre le stesse e si ripresentano continuamente.
Dio non pone di fronte all’evidenza, non dà prove convincenti, chiede fiducia incondizionata in ciò che promette. Solo chi ha già messo piede nella sala del banchetto del regno dei cieli può testimoniare di aver trovato la tavola imbandita. La sua gioia può divenire contagiosa e convincere anche i più diffidenti ad entrare.
Seconda Lettura (Rm 8,35.37-39)
35 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 37 Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38 Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39 né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
Cosa spinge l’uomo ad abbandonare la fede?
Le circostanze più disparate: gli avvenimenti tristi, ma anche la fortuna e il successo. Quando nella vita tutto va bene, si può essere tentati di fare a meno di Dio perché si ha già tutto ciò che si desidera. Ma sono soprattutto le contrarietà, le fatiche, i disagi, le sventure che generano sconforto e possono allontanare da Dio e da Cristo.
Paolo enumera sette di queste difficoltà: “la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada” (v. 35). Sono solo alcune – quelle che Paolo ha sperimentato nella propria carne (cf. 2 Cor 11,24-33) – la lista può essere completata da ognuno con l’aggiunta di quelle da cui si sente minacciato. Provo ad elencare quelle che oggi mettono a repentaglio più di altre l’adesione a Cristo: la paura di perdere occasioni e opportunità di essere felici; lo scoraggiamento, l’abbattimento di fronte alla constatazione delle proprie debolezze e miserie morali; la vergogna che porta a non ammettere serenamente i propri errori; il rimorso che fa sentire miserabili, genera angoscia, porta alla disperazione e fa dubitare di essere ancora amati di Dio.
La tentazione di scegliere una vita opposta ai principi evangelici è sempre incombente, ma Paolo assicura: “Nulla potrà separarci dall’amore di Dio e di Cristo” (vv. 35.39). È stato Dio ad aprire la partita con l’umanità e sarà lui a chiuderla, dopo averla condotta come solo egli sa fare, cioè vincendola.
Vangelo (Mt 14,13-21)
13 Udito ciò, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo seguì a piedi dalle città. 14 Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati. 15 Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. 16 Ma Gesù rispose: “Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare”. 17 Gli risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci!”. 18 Ed egli disse: “Portatemeli qua”. 19 E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. 20 Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. 21 Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
Se si riduce questo miracolo a un gesto di potenza compiuto da Gesù per dare prova dei suoi poteri divini, ci si deve confrontare con una serie di obiezioni cui è difficile sfuggire. Non è molto verosimile lo spostamento di una folla di tante migliaia di persone; l’ora tarda che prelude l’imminente calare delle tenebre non è la più adatta per procedere a una distribuzione del pane a tanta gente; da dove sono saltate fuori le dodici ceste, le avevano portate con sé vuote? Ma la considerazione più provocatoria è un’altra: che interesse può avere per l’uomo d’oggi il fatto che, duemila anni fa, Gesù abbia sfamato cinquemila uomini, se poi Dio permette che si continui a morire per mancanza di pane?
Cosa sia realmente accaduto quella sera nei pressi del lago di Tiberiade è difficile stabilire e non è questo che importa, gli evangelisti infatti riferiscono l’episodio in ben sei versioni, ciascuna con un suo messaggio specifico. Vediamo di cogliere quello che il brano di oggi ci vuole dare.
Era diffusa al tempo di Gesù la convinzione che il messia avrebbe compiuto segni e prodigi straordinari, che avrebbe radunato il popolo, lo avrebbe introdotto nel deserto ove si sarebbe ripetuto il miracolo della manna.
Presentandoci Gesù che entra nel deserto seguito da un’immensa moltitudine di persone che ha abbandonato le città (v. 13), l’evangelista vuole farci vedere in lui il nuovo Mosè. Israele era uscito dall’Egitto ed era entrato nella terra promessa, ma non aveva ancora raggiunto la libertà, non era ancora entrato in comunione con il suo Dio. Eccolo ora condotto di nuovo nel deserto.
Se si vuole spingere più avanti il parallelismo basta collocare il brano nel suo contesto. Matteo ha appena descritto il banchetto organizzato per il compleanno di Erode, quello in cui è avvenuta l’esecuzione del Battista (Mt 14,3-12), banchetto che rappresenta in modo vivo la società corrotta, oppressiva e sanguinaria che deve essere ripudiata da chi segue Cristo. È nel deserto che vengono poste le basi di una società nuova.
Eccone le caratteristiche: anzitutto ha come guida Gesù e come norma dei rapporti reciproci i suoi stessi sentimenti. Egli sente compassione (v. 14). Il verbo impiegato – splagknizomai – non indica un vago sentimento di commozione, ma un’emozione profonda, viscerale (spagkna in greco sono dette le viscere). Lo abbiamo già trovato questo termine: “Vedendo le folle, Gesù ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9,36).
Di fronte ai bisogni dell’uomo Gesù non è insensibile, si sente partecipe, è coinvolto fin nel suo intimo, gli si stringe il cuore, ma la sua commozione non lo porta allo scoraggiamento, non sfocia in imprecazioni, in vane parole di rammarico o in uno sterile pianto, diviene stimolo all’azione immediata in favore di chi soffre: “Sceso dalla barca, vide una grande folla… guarì i loro malati” (v. 14).
La com-passione, il patire-insieme ai fratelli sono la forza che porta anche il discepolo a impegnarsi nella costruzione di una società nuova. Solo chi ha assimilato la sensibilità del Maestro è mosso a intervenire, a compiere i suoi stessi gesti di amore. “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5) – raccomanda Paolo – “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri” (Rm 12,15-16).
Questo impellente bisogno interiore a compiere il bene è il segno inequivocabile della presenza nel discepolo dello Spirito di Cristo.
Non è solo con le malattie – con le manifestazioni della debolezza e fragilità dell’uomo – che Gesù si confronta. Anche l’impellente bisogno di cibo e la mancanza dei beni necessari alla vita vanno affrontati. Quale risposta dà Gesù alla fame che c’è nel mondo?
Se la soluzione fosse quella del miracolo, il brano di oggi non avrebbe molto da dirci perché a nessuno di noi è concesso di compiere simili prodigi. Con il suo gesto Gesù indica invece ciò che ogni discepolo può e deve fare affinché a nessuno manchi il pane. Egli non risolve il problema della fame senza la collaborazione dell’uomo.
La prima, subdola tentazione da cui mette in guardia è quella del disimpegno, quella di voler “congedare le folle” affinché ognuno se la cavi da solo, andando nei villaggi a comperarsi da mangiare (v. 15). È la proposta avanzata dai discepoli che, evidentemente, non hanno capito che l’adesione a Cristo implica un impegno concreto in favore di chi è nel bisogno. Non occorre che vadano – risponde Gesù – siete voi stessi che dovete dare loro da mangiare (v. 16).
Immediatamente viene sollevata la difficoltà che è anche la nostra: ciò che abbiamo non può bastare (v. 17).
Se ognuno conserva egoisticamente per sé ciò che possiede, nel timore che un giorno gli possa mancare il necessario, nel mondo ci sarà sempre fame.
Gesù chiede al discepolo di consegnarli ciò che ha, anche se a lui sembra poco. Cinque pani e due pesci – sette pezzi di alimento – sono il simbolo della totalità. Nulla va trattenuto, la generosità deve essere senza limiti. La condivisione dei beni è la proposta di Cristo ed è l’unica in sintonia con il progetto di Dio che è Padre e che vuole che i suoi figli vivano come fratelli, che non accumulino per se stessi, che non si accaparrino i beni destinati a tutti. Quando ognuno metterà a disposizione degli altri ciò che possiede (non solo il denaro, ma tutto se stesso: il proprio tempo, le proprie attitudini, la propria intelligenza, le proprie capacità…), si assisterà al prodigio: ci sarà cibo per tutti e ne avanzerà. Sulla generosità dell’uomo, infatti, si riversa sempre la benedizione di Dio.
Il pane che Gesù distribuisce non è però solo quello materiale.
Come l’acqua, anche il pane era in Israele simbolo della sapienza di Dio. Sia i profeti che i saggi dell’AT vi alludono spesso: “La Sapienza ha imbandito la tavola – dice l’autore del libro dei Proverbi – a chi è privo di senno essa dice: ‘Venite, mangiate il mio pane” (Pr 9,1-5) e Amos annuncia che Dio manderà la fame e la sete nel paese, “non fame di pane, né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore” (Am 8,11).
Un giorno Gesù ha affermato: “Non di solo pane, vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Il cibo che egli dona e che alimenta la vita dell’uomo è la sua parola, anzi è egli stesso, parola di Dio che deve essere assimilata.
“Gesù prese i pani – dice Matteo – e, alzati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai suoi discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla” (v. 19). Queste parole ci sono familiari: sono quelle dell’eucaristia. L’evangelista le riprende per far comprendere ai cristiani delle sue comunità che, dopo aver assimilato il pane del vangelo che è donato loro attraverso la predicazione degli apostoli, devono accostarsi anche al banchetto eucaristico per essere saziati.
Gli uomini sfamati sono cinquemila. È il numero che simboleggia Israele. È a questo popolo che è offerto il pane, è lui il primo invitato al banchetto annunciato dai profeti. Dopo che Israele sarà stato saziato, ne avanzeranno dodici ceste. Dodici indica la nuova comunità, quella costituita, attorno a Gesù, dai dodici apostoli. A questo nuovo popolo non mancherà mai il pane – che è Cristo – ci sarà sempre un resto e ogni volta riprenderà la distribuzione.
Attraverso i suoi discepoli – ai quali ha consegnato il suo pane – è Gesù stesso che continua a sfamare gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.
AUTORE: p. Fernando Armellini FONTE: Settimana News SITO WEB: http://www.settimananews.it
Nell’amore di Gesù tutto si moltiplica. Pani che vengono dal tuo cuore e che a loro volta provengono da cuori generosi. Pesce condiviso e che toglie la fame. E quel grande, immenso Cuore, in pieno lavoro e movimento … È necessario che il Cuore di Gesù moltiplichi il nostro povero pane e le nostre reti vuote in così tante occasioni.
Cari amici, moltipliciamo con gesti, vicinanza, preghiera, amiamo così tante situazioni in cui il La fede aiuta i nostri cuori a battere al ritmo di quel grande Cuore che è quello di Gesù. Nel mese di agosto il nostro caro Fano metterà in relazione la Parola con la vita matrimoniale. Quindi i nostri commenti avranno quel background di questa vocazione così importante nella vita della Chiesa.
Nella comunità ecclesiale, come è accaduto in quel campo della moltiplicazione, c’è sempre un divario per l’amore, c’è sempre un grande divario per gli sposi, per le famiglie. Nel cuore della Chiesa, eccoti qui.
In questo agosto, preghiamo per i matrimoni. Preghiamo per loro. Quel riposo aiuta a rinnovare la convivenza, a continuare a fare l’amore di nuovo.
(Testo tradotto usando Google Translate – mi scuso per eventuali errori, nel caso scrivete nei commenti 😉 )
«Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare!» (Mt 14,16).
Bella e lapidaria la risposta di Gesù. Bella e scomoda. Bella e sconvolgente. Proviamo a pensarci: se chiedesse a noi di dare da mangiare a oltre 5.000 uomini (senza contare donne e bambini, che in una società come quella in cui Gesù viveva significava come minimo dover triplicare i numeri) cosa penseremmo? Come reagiremmo? Ecco, pensiamoci! Siamo in 12. Solo in 12. Viaggiamo leggeri: 5 pani e 2 pesci. E di fronte a noi masse incredibili di gente affamata e stanca. Che si fa?
In Gesù l’atteggiamento immediato è: vede (quindi si accorge!), prova una profonda compassione (quindi si sente interpellato dai volti che ha di fronte!), guarisce (quindi verosimilmente entra in contatto), si fa carico del bisogno altrui, fino a saziare la fame. La sua è un’attenzione in carne e ossa. E nei discepoli? Qual è il loro atteggiamento immediato? I discepoli vedono, ma prendono le distanze. O almeno ci provano! I discepoli misurano: sia la gente sia il cibo. Ma la loro logica non incontra il favore del Maestro. Sono su posizioni diametralmente opposte: i discepoli si preoccupano per la gente. Gesù si occupa della gente.
I discepoli partono da ciò che hanno, temendo il poco… Gesù parte da ciò che hanno e, credendo che tutto ciò che è dato si trasforma in benedizione, spezza il poco, lo offre e chiede di offrirlo. Quanta bellezza c’è in questo gesto. Quanta profezia. Quanta verità. Perché non proviamo? Perché non facciamo in modo di spezzare quello che ci sembra poco, donandolo senza misurare? Senza preoccuparci di conservalo? Vi assicuro che vedremo miracoli accadere sotto i nostri occhi. Vedremo le nostre mani riempirsi svuotandosi. Provare per credere!
UNA PREGHIERA COME SOSTEGNO
Insegnaci a spezzare il poco
Signore Gesù, Maestro di compassione, insegnaci a spezzare il poco che abbiamo tra le mani per offrirlo, trasformandolo in dono. Trasformaci in profondità, dimostraci che ad arricchirci non è la misura che trattiene, ma la condivisione che lascia andare. Aiutaci a credere che non gli armadi pieni ci permettono di donare, ma un cuore libero e capace di amare.
Signore, vinci le nostre paure. Signore, insegna alle nostre mani a svuotarsi. Signore, rendici capaci di fare ogni giorno quello tu hai fatto: vedere, amare, farsi carico, saziare. Amen.
O Dio, vieni a salvarmi.
Signore, vieni presto, in mio aiuto.
Sei tu il mio soccorso, la mia salvezza:
Signore, non tardare.
Gloria
Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà.
Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente.
Signore, figlio unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre, tu che togli i peccati dal mondo abbi pietà di noi; tu che togli i peccati dal mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi.
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo, Gesù Cristo, con lo Spirito Santo: nella gloria di Dio Padre. Amen.
Colletta
Mostraci la tua continua benevolenza, o Padre, e assisti il tuo popolo, che ti riconosce suo pastore e guida; rinnova l’opera della tua creazione e custodisci ciò che hai rinnovato. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo…
Prima Lettura
Is 55, 1-3
Dal libro del profeta Isaìa
Così dice il Signore:
«O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate
senza denaro, senza pagare, vino e latte.
Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia?
Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide».
C: Parola di Dio.
A: Rendiamo grazie a Dio.
Salmo Responsoriale
Sal.144
RIT: Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente.
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa
e tu dai loro il cibo a tempo opportuno.
Tu apri la tua mano
e sazi il desiderio di ogni vivente.
Giusto è il Signore in tutte le sue vie
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità.
Seconda Lettura
Rm 8, 35. 37-39
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati.
Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.
C: Parola di Dio.
A: Rendiamo grazie a Dio.
Canto al Vangelo
Alleluia, Alleluia.
Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Alleluia.
Vangelo
Mt 14, 13-21 Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte.
Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
Professione di Fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra,
di tutte le cose visibili e invisibili.
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato, della stessa sostanza del Padre;
per mezzo di lui tutte le cose sono state create.
Per noi uomini e per la nostra salvezza
discese dal cielo,
e per opera dello Spirito Santo
si è incarnato nel seno della Vergine Maria
e si è fatto uomo.
Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato,
morì e fu sepolto.
Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture,
è salito al cielo, siede alla destra del Padre.
E di nuovo verrà, nella gloria,
per giudicare i vivi e i morti,
e il suo regno non avrà fine.
Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita,
e procede dal Padre e dal Figlio.
Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato,
e ha parlato per mezzo dei profeti.
Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica.
Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti
e la vita del mondo che verrà. Amen.
Preghiera dei Fedeli
Lo Spirito di Gesù è il principale artefice
della preghiera della Chiesa;
affidandoci alla sua ispirazione interiore
innalziamo al Padre la nostra preghiera.
R. Esaudisci il tuo popolo, signore.
Per la santa Chiesa,
perché in ogni sua parola e in ogni suo gesto
faccia trasparire sempre più chiaramente il signore Gesù
in cui crede e in cui spera, preghiamo. R.
Per la città in cui viviamo,
perché il signore dia a tutti noi forza e immaginazione,
per creare rapporti veramente umani
in un mondo dominato dalla fretta e dall’ansia, preghiamo. R.
Per le nostre famiglie,
perché accrescano il senso di ospitalità e di comunione nell’amore
e diventino luogo privilegiato di crescita nella speranza, preghiamo. R.
Per le suore di clausura,
che nella preghiera e nel lavoro edificano silenziosamente
l’unità della Chiesa e la pace nel mondo,
perché siano liete e perseveranti nell’offerta della loro vita, preghiamo. R.
Per noi qui presenti,
perché sappiamo interrogarci davanti a Dio e ai fratelli
sui nostri limiti e le nostre contraddizioni,
per fare della comunità eucaristica una vera famiglia, preghiamo. R.
Concedi, a noi il dono della tua sapienza, o Padre,
e fa’ che la tua Chiesa
diventi segno concreto dell’umanità nuova,
fondata nella libertà e nella comunione fraterna.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
Sulle Offerte
Santifica, o Dio, i doni che ti presentiamo e trasforma in offerta perenne tutta la nostra vita in unione alla vittima spirituale, il tuo servo Gesù, unico sacrificio a te gradito. Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
Prefazio
E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.
Nella tua misericordia hai tanto amato gli uomini da mandare il tuo Figlio come Redentore a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione umana. così hai amato in noi ciò che tu amavi nel Figlio, e in lui, servo obbediente, hai ricostruito l’alleanza distrutta dalla disobbedienza del peccato.
Per questo mistero di salvezza, uniti agli angeli e ai santi, cantiamo con gioia l’inno della tua lode:
Antifona alla Comunione
Ci hai mandato, Signore,
un pane dal cielo,
un pane che porta in sè ogni dolcezza
e soddisfa ogni desiderio.
Dopo la Comunione
Accompagna con la tua continua protezione, Signore, il popolo che hai nutrito con il pane del cielo e rendilo degno dell’eredità eterna. Per Cristo nostro Signore.
La pericope evangelica della XVIII domenica del tempo Ordinario dell’annata A inizia con l’annotazione che Gesù parte su una barca e si ritira in disparte, in un luogo deserto, dopo aver appreso la notizia della morte di Giovanni Battista (cf. Mt 14,13). Come si era ritirato dopo aver saputo dell’arresto di Giovanni (Mt 4,12), ora, venuto a sapere della sua esecuzione capitale, analogamente si ritira, fa anacoresi. Il rapporto di Gesù con Giovanni è profondo anche nella distanza. È come se la presenza di Giovanni abitasse in Gesù: la notizia della sua morte provoca un’eco profonda in lui, una risonanza certamente di tipo affettivo, ma non solo. Immerso nel Giordano da Giovanni, Gesù ne è stato un seguace, e il loro incontro è stato un evento spirituale in cui l’uno ha riconosciuto la vocazione dell’altro ed entrambi si sono obbediti a vicenda pur di compiere il volere del Padre (cf. Mt 3,13-17). Ora, morto Giovanni, Gesù cerca la solitudine per prendere una distanza dall’evento dell’esecuzione del Battista e poter così leggere la propria responsabilità di fronte al vuoto lasciato da Giovanni. È come se la morte di Giovanni divenisse un messaggio per lui, un passaggio di testimone. Quando, vedendo le folle che lo avevano seguito sottraendolo di fatto alla solitudine che cercava, Gesù abdicherà al proposito di ritiro per prendersi cura di loro, lo farà anche assumendo la postura pastorale nei confronti di gente che, come specifica Marco nella sua redazione evangelica, “erano come pecore senza pastore” (Mc 6,34) perché orfane del Battista. In ogni caso, noi abbiamo qui l’espressione di quella ricerca di solitudine e ritiro che ha caratterizzato la vita di Gesù (Mt 14,23; Mc 1,35.45; 6,31; Lc 5,16; Gv 11,54). Gesù non fugge di fronte al vuoto in cui consiste il lutto per la perdita dell’amico e maestro, non si stordisce, ma cercando la solitudine tenta di rendere eloquente per lui tale perdita. Gesù coltiva il vuoto della morte di Giovanni e così quella morte diventa generativa e produttrice di vita. Non a caso il racconto evangelico che inizia con la notizia della morte di Giovanni, si chiude con l’atto con cui Gesù dà vita alle folle curando i malati e dando loro da mangiare. E come la morte di Giovanni è stata elaborata da Gesù facendone un atto di responsabilità che l’ha impegnato nei confronti delle folle, così egli spingerà i suoi discepoli a un’analoga assunzione di responsabilità nei confronti della gente affamata dicendo loro: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mt 14,16).
La notizia della partenza di Gesù verso un luogo solitario si sparge e le folle, a piedi, seguono Gesù che invece si è spostato su una barca. Ci troviamo dunque nei dintorni del lago di Tiberiade. La “sequela” che le folle attuano di Gesù, in questo caso, contraddice l’intento di Gesù. E la contraddizione appare nella sua “violenza” quando veniamo a sapere, al termine del racconto, che quelle folle constavano di migliaia di persone (Mt 15,21). Gesù non cerca le folle, anzi, a volte, scoraggia le folle numerose che lo cercano e le mette in guardia (cf. Lc 14,25). Gesù non è certo incantato dal numero consistente di ascoltatori, ma non si sottrae nemmeno al loro grido, al loro bisogno, alla loro sete. Quando infatti scende dalla barca “prova compassione” per loro e accetta di “cambiare programma” mostrando duttilità e capacità di cogliere nella folla che lo distrae dal suo proposito di solitudine e silenzio, un appello da ascoltare e a cui obbedire. La solitudine e il ritiro sono un’esigenza per Gesù, ma egli non è così rigido da fare dei propri pur giusti e giustificati progetti una barriera che gli impedisca di ascoltare il bisogno degli altri. E a motivo della carità egli deroga dal suo progetto di ritiro. Anzi, provando compassione, sentendosi cioè sconvolto nelle viscere dalla visione delle folle che lo cercano mendicando la sua presenza, egli sente anche la loro sofferenza, entra in contatto con la loro mancanza e, mentre si prende cura di loro e fa loro il bene, fa certamente il bene anche a se stesso. Sofferente per la morte di Giovanni, Gesù è particolarmente disponibile e aperto a sentire la sofferenza delle folle, la loro mancanza, e ad agire di conseguenza. Nessun moto di fastidio e nessuna ribellione di fronte alle folle numerose, ma l’assunzione del dato di realtà per fare di quella contraddizione un’occasione per vivere l’obbedienza a Dio. Anche altrove Matteo riporta la compassione di Gesù per le folle (per esempio, in Mt 9,36) e questo movimento profondo dell’animo non va ridotto a un semplice sentimento, a un semplice sommovimento interiore, ma va colto anche nella sua forza cognitiva. La compassione è anche intelligenza dell’altro. Intelligenza che comporta almeno un giudizio che vede la grave situazione di bisogno dell’altro e una valutazione di innocenza, per cui l’altro non ha colpa della situazione penosa in cui si trova. Infine, la compassione comporta l’azione, l’intervenire in favore dell’altro. E Gesù, dice Matteo, cura i malati (Mt 14,14). Non si dice che li guarisce, ma che li cura e curare significa anzitutto “servire” e “onorare” una persona, averne sollecitudine, assumersi la responsabilità della loro persona, prendersene cura. E così passa la giornata e viene la sera (Mt 14,15).
Entrano ora in scena i discepoli che si rivolgono a Gesù con parole di realismo disimpegnato. Essi fanno presente a Gesù ciò che Gesù già certamente sapeva, ovvero che il luogo è solitario e l’ora è tarda e dunque occorre rimandare le folle affinché se ne vadano nei villaggi per acquistare cibo. La presenza di Gesù, maestro e guida, sembra deresponsabilizzarli: dicono a Gesù cosa deve fare nei confronti delle folle. Non si interrogano su ciò che eventualmente loro stessi possono fare, ma insieme (Mt 14,15: “i discepoli”, dunque tutti), come tutti quanti incapaci di autonomia e di iniziativa, si rivolgono a lui affinché faccia quel che vogliono loro. Ma la risposta di Gesù mostra che il suo pensare non coincide con il pensare dei discepoli. Ed è un pensare che li responsabilizza rinviandoli a loro stessi. “Non hanno bisogno di andarsene; date loro voi stessi da mangiare” (Mt 14,16). Come altrove nei vangeli, l’obiezione dei discepoli si richiama a ragionevolezza, a buon senso, e si nutre di quella malcelata superiorità e condiscendenza che si ha nei confronti di chi non si rende conto della realtà. E diviene anche un mascherato rimprovero. Non è forse così quando i discepoli dicono a Gesù che, in mezzo alla calca, si è sentito toccato nelle sue vesti: “Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: ‘Chi mi ha toccato?’” (Mc 5,31). Qui l’obiezione verte sulla risibile quantità di cibo che i discepoli hanno a disposizione: “Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci” (Mt 14,17). E si potrebbe aggiungere: “Come possiamo trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?” (Mt 15,33). C’è un realismo che è mancanza di fede, che diventa un impedire al Signore di intervenire nella storia, che ostacola il novum che Dio può operare. In questo caso i discepoli è come se dicessero che la loro povertà, la pochezza a loro disposizione, è ciò che impedisce loro di adempiere la parola di Gesù. Chiediamoci: non è forse una tentazione che abita i cristiani quella di ritenere che la povertà, la mancanza di mezzi sia ciò che ostacola l’evangelizzazione, l’annuncio e la testimonianza del vangelo? Per Gesù è l’esatto contrario: la povertà è condizione necessaria dell’annuncio evangelico. Il vangelo impoverisce e spoglia chi se ne vuole fare testimone e servo. E solo così l’annuncio è fecondo.
E la via indicata di Gesù è quella della condivisione. Il poco, condiviso, diventa sufficiente per tutti. E Gesù imbandisce un banchetto, anzi il banchetto messianico. Tra i compiti del Messia vi è quello di assicurare il pane al popolo. Il re Davide, figura del Messia venturo, aveva distribuito una focaccia di pane per ciascuno dei membri del popolo d’Israele (2Sam 6,19). Gesù qui si manifesta come colui che realizza l’operare del Dio che “dà il cibo a ogni vivente” (lett. “il pane a ogni carne”: Sal 136,25), come il pastore che fa sedere sull’erba verde (Mt 14,19) il suo gregge e lo rifocilla e sostiene (cf. Sal 23). Il testo può certamente anche essere colto come prefigurazione del banchetto eucaristico (cf. Mt 14,19), tuttavia può essere utile terminare la riflessione ricordando che le parole di Gesù “Voi stessi date loro da mangiare” si rivolgono anche a noi oggi e diventano una spina nella carne che interpella le chiese di fronte alla tragedia della fame nel mondo. Le parole di papa Benedetto XVI conferiscono una dimensione politica e mondiale al comando che Gesù rivolse ai suoi discepoli: “La fame miete ancora moltissime vittime tra i tanti Lazzaro ai quali non è consentito … di sedersi alla mensa del ricco epulone. Dare da mangiare agli affamati (cf. Mt 25,35.37.42) è un imperativo etico per la chiesa universale, che risponde agli insegnamenti di solidarietà e di condivisione del Signore Gesù. Inoltre, eliminare la fame nel mondo è divenuta, nell’era della globalizzazione, anche un traguardo da perseguire per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta. La fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale” (Caritas in veritate 27). La prassi messianica di Gesù passa così nella realtà ecclesiale e diviene parola e azione profetica.
La morte di Giovanni Battista segna uno spartiacque nella vita e nel ministero di Gesù. Il Maestro avverte l’esigenza di ritirarsi in un luogo deserto, dopo un periodo intenso vissuto sulle rive del lago di Tiberiade, a contatto con la folla che gli domandava la liberazione dal male e la guarigione dalle infermità.
A tutto ciò Egli non si è sottratto, accompagnando i gesti con la predicazione. Questo brano si offre molto bene per consentirci di fare una vera e propria composizione di luogo: visualizzare l’ambiente in cui l’episodio si è svolto, identificandoci, di volta in volta, nelle folle che cercano Gesù, affrontando un faticoso percorso a piedi per raggiungerlo; riflettere sui discepoli che restano accanto a Lui, seguendoLo ovunque, però ancora incapaci di cogliere il mistero profondo del loro Maestro; cogliere l’importanza di riportare a Gesù tutto quanto abbiamo, nella certezza che, sebbene sia poco, nelle sue mani quel poco può divenire incommensurabile fino a sfamare tanti e averne in sovrabbondanza.
Infine possiamo contemplare il mistero profondo di Gesù, nostro Maestro e Signore: il suo desiderio di rivolgersi costantemente al Padre, affidandosi completamente a Lui; il suo rimettersi in gioco, guarendo e donandosi senza misura. Egli, sacerdote e nostro pastore, ci conduce su pascoli erbosi e al banchetto di comunione universale annunciato dai profeti: tutto questo vivendo radicato nel Padre, a cui sempre si è rivolto in rendimento di grazie e da cui trae ogni benedizione.
(A cura dell’Istituzione Teresiana)
Diventare pane.
Signore Gesù, sacerdote per sempre e pastore buono, insegnaci attraverso il contatto vivo con i tuoi gesti e le tue parole a divenire segno permanente di azione di grazia, benedizione, eucaristia vivente per ogni tipo di fame intorno a noi.
Abbiamo tutti delle morti, piccole o grandi, con cui fare i conti nella nostra quotidianità e a volte può succederci di sperimentare, come Marta, la sensazione di abbandono: “Se tu fossi stato qui…”.
Il Vangelo di oggi ci ricorda due cose che sappiamo bene, ma a cui ci può venir difficile credere, soprattutto quando sentiamo maggiormente la fatica: i tempi di Dio non sono i nostri e noi non siamo mai veramente lasciati a noi stessi.
Il Signore non se n’è mai andato e non dovremmo mai smettere di pregare che questa consapevolezza sia forte e chiara in chi si sente scoraggiato, schiacciato, deluso. La certezza di non essere soli è alla base della nostra fede ed è ciò che ci fa “sperare contro ogni speranza”, che ci fa vivere le nostre morti come se le avessimo già vinte.
don Luigi Maria Epicoco – Commento al Vangelo del 30 Luglio 2020 – Mt 13, 47-53
Non si fa fatica a capire che l’immagine che Gesù usa nel Vangelo di oggi nasce per essere compresa soprattutto da un popolo di pescatori: <<È simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci>>.
Infatti non è compito della rete separare ciò che è mangiabile, da ciò che invece non lo è. La rete non ha la capacità di fare differenza tra un pesce buono e uno cattivo. Questo possono farlo solo i pescatori a riva. Per la durata della pesca ciò che conta è prendere. Tutta la storia è il tentativo di Dio di prenderci in qualche modo.
Di pescarci dal mare del non senso, di tirarci fino alla riva della fine della storia. Ma la salvezza non è un fatto automatico. La salvezza è essere riconosciuti buoni, e non semplicemente presi. Infatti tutti noi “siamo presi” da questa rete tutte le volte che ci accostiamo ai sacramenti, che ascoltiamo la Parola, che preghiamo, che facciamo un qualsiasi gesto che abbia a che fare con la fede. Ma essere presi nella rete non ci salva in automatico. Conta la scelta del bene o del male.
Sono le nostre scelte nella vita che ci qualificano come “buoni” o come “cattivi”. Serve poco ad essere presi se poi veniamo riconosciuti come cattivi. Il regno dei cieli è un misto tra la grazia e la nostra libertà. Non solo la grazia, e non solo la nostra libertà, ma entrambe le cose contano. Per troppo tempo, forse, ci siamo convinti che tutto poggiava sulle nostre scelte e le nostre forze, ma così non è; senza la grazia, senza l’essere presi non serve a molto il nostro sforzo.
Ma è vero anche il contrario, non possiamo delegare alla grazia ciò che poi dovremmo e potremmo fare noi con la nostra libertà. Solo scegliere concretamente il bene alla fine ci rende anche buoni. La nostra deve essere la stessa capacità dello <<scriba divenuto discepolo del regno dei cieli che è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche>>.
Non solo le cose antiche ci salveranno, né la ricerca smodata del nuovo, ma la saggezza di tenere insieme tradizione e profezia.
Pratico formato (cm. 11,5 x 14,4): 640 pagine – testo a caratteri grandi, ben leggibile.
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Prezzo verificato a maggio 2020