p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 7 Marzo 2019

L’uomo si umanizza a partire dalla morte. La morte è l’unica certezza, l’uomo è l’essere che sa che deve morire. Per conoscere se stessi dobbiamo prendere sul serio la nostra morte anche se, disumanizzati come siamo, viviamo come se fossimo immortali non credendo alla nostra morte. E allora? Allora continuiamo a cercare ciò che non c’è nelle cose. L’immortalità non è cosa umana e la sua ricerca ci disumanizza. Ci obblighiamo a farci del male per rincorrere una illusione. Noi umani, consciamente o inconsciamente, ci mettiamo in moto per paura della morte e ci lasciamo guidare da un’ansia per la vita che non è sana. Facciamo di tutto per salvarci, magari riusciamo a prolungare la nostra vita, ma ciò che è sotto i nostri occhi è che non riusciamo a dare vita al tempo in più che abbiamo. Duriamo di più, ma siamo di meno!

Ci dimentichiamo che l’uomo non si realizza perché sa farsi amare, l’uomo si realizza perché ama, perché dona, perché vive la gratuità del dono. Noi definiamo in modo errato tutto questo come croce da portare. Lo definiamo in modo errato non perché sia sbagliato, ma perché lo pensiamo in modo sbagliato. Gesù quando ci parla della croce da portare ogni giorno dimentichi di se stessi, non fa altro che richiamare il dono gratuito di se stessi fino alla morte. Centrale è il dono gratuito, non la morte e la croce. Morte e croce sono mezzi, strade da percorrere, non sono il fine della camminata. Il dono di sé non è croce anche se passa attraverso la croce. Il dono di sé è gratuità di vita che dona vita. Bisogna spendere, bisogna seminare, perché qualcosa cresca. Arraffare non ha mai fatto crescere nulla.

Pensiamo ai nostri imprenditori: hanno investito, hanno rischiato, hanno dato del proprio perché la loro azienda potesse crescere e dare lavoro. Per loro l’azienda erano la loro vita e i loro operai erano la loro famiglia. Oggi i manager e i professionisti dell’economia, distruggono ogni capacità di dono e ogni rapporto di famiglia. Non era tutto oro neanche prima, ma quando uno sente suo qualcosa allora diventa capace di soffrire per quella cosa, è una forma di dono che salva.

Volersi salvare è perdersi e perdersi nel dono è salvarsi: se semini amore puoi pensare di raccogliere vita! Vivere per salvare vita o perdersi per salvare se stessi, sembra essere il grande dilemma che ci ritroviamo a vivere.

Il martirio e la quotidianità della croce, vale a dire la ricerca del gratuito donato, ci richiamano il destino ultimo dell’uomo e non ha la pretesa di esorcizzare quella morte che ci fa tanto paura ma, ricordando la quale, noi diventiamo sempre più veri e sempre più umani, vale a dire sempre più pieni di vita e gente di fede.

Noi non ci crediamo e continuiamo a spendere vita per accumulare, ma i beni che crediamo ci diano sicurezza è cosa sempre più falsa. Quanta attenzione diamo al debito pubblico: il nostro è al 130% del nostro PIL, se non erro. Quanta invidia abbiamo per il gigante Cina che cresce al 6% annuo e che continua a investire in lungo e in largo. Ebbene il suo debito è una cosa impensabile per noi: la seconda potenza economica del mondo ha il suo debito al 250% del suo PIL che è cosa mostruosa: gigante dai piedi di argilla che prima o poi crollerà trascinando con sé milioni di poveri dopo avere fatto milioni di vittime di questo capitalismo di stato.

La sicurezza dei beni non aggiunge una virgola a quello che siamo, anzi chiede vittime dell’essere da immolare sull’altare dell’avere. Ma questo non riempie il vuoto che siamo, non da nulla a quello che non siamo. La dinamica del fagocitare cose, persone e Dio stesso, è perversa e chiede continuamente di fagocitare noi in un buco nero senza fine. Perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non è dalle cose che ha. Il cristiano che vuole guadagnare tutto si perde come discepolo e come uomo. L’insaziabilità dei beni è figlia della sfiducia ed è madre dell’ingiustizia. È via alla perdizione per il sé e per il mondo intero perché per ottenere quello che vuole deve continuamente distruggere ciò che c’è nel creato per bruciarlo sull’altare di quello che facciamo per avere!

Le nostre banche, quelle sicure, quelle che permettono il passaggio di tale ricchezza nella casa del Padre, sono i poveri, dicevano i Padri della Chiesa. Il vero accumulo è donare. Accumulate tesori in cielo dove né tignola né ruggine né ladri li possono raggiungere. Fare questo significa mettere come scopo della nostra vita quello che siamo e non più quello che abbiamo, insieme ai nostri fratelli e non più in solitudine sazia e disperata.

Gli unici beni che passano alla dogana del Regno sono quelli dati per misericordia: nulla di ciò che abbiamo tenuto passa. Il rovinare se stessi con l’avere, a noi sembra meno che perdere se stessi. Rinnegare noi stessi prendendo la nostra croce per seguire Lui sulla via del dono, a noi sembra cosa disumana. Le tribolazioni inutili e dannose sono quelle che nascono da un cuore arraffone, non nascono da un cuore donante. Nel dono il fuoco purifica e rende più veri. Nell’arraffare il passaggio nel fuoco, che è parte della vita, brucia tutto quello che abbiamo e ci lascia con un essere sempre più vuoto, un io sempre meno io e sempre meno noi.

Commento a cura di p. Giovanni Nicoli.

Fonte – Scuola Apostolica Sacro Cuore

Vangelo del giorno:

Lc 9, 22-25
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

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