p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 4 Dicembre 2022

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 4 Dicembre 2022.
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Fiorirà come palma

Israele era un albero che il Signore aveva fatto germogliare e aveva coltivato. Poi erano venuti i nemici che, armati di scure da tagliaboschi, avevano vibrato colpi impietosi e lo avevano ridotto a un tronco spoglio e desolato (Sal 74,5-6).

È la nostra storia. In balia delle forze del male che ci soggiogano, ci tolgono la luce e il respiro, diventiamo rami secchi, incapaci di dare frutti.

Ma guai perdere la speranza!

“Nei giorni futuri – assicurano i profeti – Israele metterà radici, fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti” (Is 27,6). “Io sarò come rugiada per Israele – dice il Signore – esso fiorirà come un giglio, metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’ulivo e la fragranza del Libano” (Os 14,4-5).

Nulla è impossibile a Colui che ha fatto fiorire perfino il bastone secco di Aronne (Es 17,23).

Secondo le promesse del Signore, dalla radice di Iesse è spuntato un albero vigoroso – Cristo – nel quale tutti verranno innestati. Da lui uscirà la linfa che manterrà rigoglioso e farà produrre frutti abbondanti ad ogni albero piantato nel giardino di Dio.

Non esistono situazioni disperate per chi crede nell’amore del Signore.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
Temiamo la scure dei nemici, non quella di Dio che elimina le piante maligne dal nostro giardino”.

Prima lettura (Is 11,1-10)

Come già accaduto domenica scorsa, Isaia ci introduce in una realtà idilliaca di pace, di fratellanza, di amore universale. Con un’immagine presa dal regno animale, nella seconda parte della lettura (vv. 6-9) descrive un mondo da cui sono stati eliminati le inimicizie, gli odi, le ostilità; un mondo in cui le belve sono divenute mansuete e domestiche: il lupo dimora con l’agnello, la pantera col capretto, il leone e il vitello pascolano insieme e sono tanto docili da lasciarsi condurre da un bambino.

L’armonia non è ricostituita solo a livello animale, ma anche fra Dio e l’uomo e fra gli uomini tra loro: non c’è più alcuno che commetta malvagità, il povero e il debole non subiscono ingiustizie e soprusi, tutti sono mossi da sentimenti di amore “perché la saggezza del Signore riempirà il paese come le acque riempiono il mare” (v. 9).

L’oracolo è ancora più sorprendente se si tiene presente che è stato pronunciato in un momento drammatico della storia d’Israele, quando la dinastia di Davide, nella quale erano state riposte tante speranze, non era più forte e rigogliosa come un cedro del Libano, ma era ridotta a un tronco reciso e senza vita.

Con questo annuncio, il profeta intendeva risvegliare nel suo popolo la fiducia e la speranza. Fedele alle sue promesse, Dio avrebbe dato inizio a un’era di pace, simile a quella che esisteva nel paradiso terrestre prima del peccato.

A questo punto sorge spontanea la domanda: quando si realizzerà questa profezia? La risposta viene data nella prima parte della lettura (vv. l-5).

Con un’immagine presa dal regno vegetale il profeta annuncia il destino della dinastia di Davide. Era germogliata da una radice insignificante, da un ceppo che nessuno riteneva degno di considerazione: da Iesse, un umile pastore di Betlemme.

Benedetto da Dio, quest’albero aveva preso vigore e si era sviluppato, “la sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i più alti cedri” – dice il salmista con un’immagine piena di freschezza (Sal 80,11). Poi era giunta la rovina, il tronco era stato spezzato, bruciato, ridotto a un tizzone fumigante. Era la fine di tutto? Disgustato dalle infedeltà di questa famiglia, Dio aveva forse revocato la promessa fatta per bocca di Natan (2 Sam 7)?

Il profeta risponde: no! Dal ceppo riarso della famiglia di Iesse, spunterà prodigiosamente un nuovo germoglio per mezzo del quale tutte le promesse di Dio si compiranno.

Le doti di questo virgulto della radice di Iesse saranno straordinarie.

Sarà colmo dello spirito del Signore: possiederà in pienezza quella forza divina che aleggiava sulle acque all’aurora del mondo (Gn 1,2), che ha animato gli eroi come Sansone, che ha ispirato i profeti cominciando da Mosè (Nm 11).

Per quattro volte viene richiamato questo “spirito” e il numero quattro indica l’universalità. È come se questo “vento impetuoso”, proveniente dai quattro punti cardinali, confluisse, con tutta la sua energia, su questo “figlio di Iesse”.

Sono sei i doni offerti dallo “spirito del Signore” e il profeta li elenca in tre coppie:

– la sapienza e l’intelligenza: sono le doti che hanno caratterizzato Salomone, il re saggio “come non ci fu alcuno prima di lui né sorgerà in seguito” (1 Re 3,12);

– il consiglio e la fortezza: indicano la capacità di governare con prudenza e il valore militare, qualità di cui era colmo Davide;

– la conoscenza e il timore del Signore: si riferiscono alla docilità e all’obbedienza a Dio, virtù di cui sono stati modelli i patriarchi.

Possedendo in pienezza lo spirito del Signore, l’atteso discendente di Davide sarà un re che porterà a compimento la missione affidatagli da Dio: instaurerà la giustizia, prenderà le difese dei deboli e degli oppressi, con la forza della sua parola ridurrà all’impotenza i violenti e farà scomparire gli empi. La giustizia e la fedeltà lo accompagneranno ovunque, saranno come gli ornamenti del suo vestito.

Chi è questo re di cui parla Isaia? Nessun discendente di Davide ha mai posseduto tutte queste qualità né ha realizzato questi sogni. La promessa si è compiuta in Gesù che è spuntato come un germoglio dalla famiglia di Davide.

Anche dopo la nascita di Cristo – lo constatiamo ogni giorno – i forti continuano a opprimere i deboli, i diritti umani vengono ignorati e calpestati, le discordie, gli odi e le violenze sono ancora presenti. Tuttavia, il germoglio della famiglia di Davide è apparso, sta sviluppandosi, è già divenuto un popolo – la chiesa – incaricata di rendere presente nel mondo la società nuova annunciata da Isaia.

Seconda Lettura (Rm 15,4-9)

Paolo era preoccupato delle tensioni che esistevano all’interno della comunità di Roma fra due gruppi di cristiani. Il gruppo meno numeroso era costituito da coloro che l’Apostolo chiama deboli, gente legata alle tradizioni religiose degli antichi. Conducevano una vita austera, si privavano dei piaceri anche leciti, osservavano numerose prescrizioni quali la circoncisione e l’astinenza da cibi impuri. L’altro gruppo, detto dei forti, sosteneva che le osservanze imposte dall’antica legge avevano perso il loro valore; bastava credere in Cristo.

I deboli giudicavano i forti e li consideravano faciloni, superficiali. A loro volta questi disprezzavano i deboli, li trattavano da ottusi mentali, retrogradi e nostalgici.

Paolo – che si colloca fra i forti – raccomanda a tutti la carità e il rispetto reciproco. Come argomento decisivo cita l’esempio di Cristo: Gesù non ha mai avuto in vista il proprio interesse egoistico, ma ha dimenticato se stesso e si è messo totalmente a servizio degli altri.

I suoi discepoli non possono essere diversi da lui; non possono cercare il proprio tornaconto, ma devono pensare solo al bene del fratello, disposti anche a porre dei limiti alla propria libertà, se questo è richiesto dall’amore verso gli altri.

Vangelo (Mt 3,1-12)

Al tempo di Gesù si riteneva che Elia non fosse morto, ma fosse stato rapito in cielo per ricomparire un giorno. Infatti il profeta Malachia aveva predetto: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me… Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,1.23).

Quando, dopo la Pasqua, i primi cristiani si resero conto che “il giorno del Signore” era quello in cui Gesù aveva portato la salvezza, compresero anche chi era l’Elia di cui aveva parlato il profeta: era il Battista, incaricato da Dio di preparare il popolo alla venuta del messia. Si ricordarono anche di ciò che di lui aveva detto il Maestro: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te” (Lc 7,25-27). “La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire” (Mt 11,13-14; 17,13).

Chi era Giovanni? Un personaggio piuttosto enigmatico. Giuseppe Flavio – il famoso storico del tempo – lo presenta così: “Era un uomo buono che esortava gli ebrei a vivere una vita retta, trattandosi con giustizia reciprocamente e sottomettendosi con devozione a Dio, e facendosi battezzare. In verità, Giovanni era dell’idea che nemmeno questo lavacro fosse accettabile come perdono per i peccati, ma era convinto che si risolveva soltanto in una purificazione del corpo, se l’anima non era stata purificata in precedenza grazie ad una condotta retta” (Antichità Giudaiche 18.5.2 §§ 116-119).

Nel vangelo di oggi Matteo lo descrive come un uomo austero (v. 4). Il suo cibo era quello semplice degli abitanti del deserto, il suo vestito era rozzo: la cintura ai fianchi che contraddistingueva Elia (2 Re 1,8) e il mantello di pelo – la divisa dei profeti (Zac 13,4).

Tutta la persona del Battista era denuncia e condanna della società opulenta che – allora come oggi – puntava sull’effimero, sul frivolo, sui falsi valori del lusso e dell’ostentazione.

Il suo messaggio è riassunto dall’evangelista in una semplice frase: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” (v. 2).

La speranza in un futuro migliore era uno dei temi centrali del messaggio dei profeti. A differenza degli altri popoli che ponevano la loro età dell’oro nel passato, Israele collocava il “regno di Dio” nel futuro. Attendeva un mondo dove il Signore avrebbe fatto trionfare l’armonia e abbondare la pace, un mondo dove i rapporti interpersonali sarebbero stati improntati all’amore, alla riconciliazione con la natura, con gli uomini, con Dio.

I predicatori apocalittici avevano descritto la storia dell’umanità come un susseguirsi di regni di bestie. “Bestie emerse dal mare” erano stati i grandi imperi di Babilonia, Media, Persia, Grecia (Dn 7). I tempi erano difficili, ma non ci si doveva perdere d’animo: il mondo antico era ormai alla fine e il mondo nuovo stava per fare irruzione.

I dolori presenti non dovevano essere interpretati come segni di morte, ma come sofferenze di un difficile parto: preludevano alla nascita della nuova era.

Essendo queste le attese del popolo, è facile intuire come la predicazione di Giovanni suscitasse enorme entusiasmo. Tutti correvano a farsi battezzare per essere introdotti per primi in questo “regno di Dio”.

Il battesimo con l’acqua non era però sufficiente. Il Giordano non era una piscina da cui si usciva miracolosamente purificati dai peccati. Per disporsi ad entrare nel “regno” era necessario “convertirsi”, cioè invertire il cammino, cambiare rotta, modificare completamente il modo di pensare e di agire. Non bastava correggere qualche comportamento morale, bisognava mettere in atto un nuovo esodo.

“Uscivano verso di lui da Gerusalemme…”. Ecco il popolo d’Israele, ormai installato nella terra promessa, che abbandona la propria condizione di presunta libertà e ritorna al Giordano. Si riteneva libero, ma in realtà continuava ad essere schiavo: delle proprie convinzioni religiose, della propria ostinazione, della falsa immagine di Dio che si era fatta.

“Confessavano i loro peccati”. Prendevano coscienza di vivere ancora in esilio, di essere privi della libertà.

Tutti gli anni, nella seconda domenica di Avvento, la liturgia propone ai cristiani la predicazione del Battista perché, come egli preparò il popolo d’Israele alla venuta del messia, così oggi è in grado di insegnare ad accogliere il Signore che viene.

Oggi come allora, il passo più difficile da compiere è comprendere che è necessario “uscire” dalla “terra” in cui ci si è installati, “uscire” dalle false sicurezze religiose e teologiche che ci si è costruiti e accogliere la novità della parola di Dio.

Non tutti hanno risposto con sollecitudine all’invito del Battista, non tutti sono stati disponibili a operare un cambiamento interiore radicale. I farisei e i sadducei, pur incuriositi dalla predicazione di Giovanni, stentavano a lasciarsi coinvolgere, non si fidavano, preferivano mantenere le loro certezze (vv. 7-10). Pensavano di essere già a posto con Dio per il fatto di essere figli di Abramo. Questa falsa sicurezza sarà denunciata in seguito da un famoso detto rabbinico: “Come la vite si appoggia su legni secchi, così gli israeliti si appoggiano sui meriti dei loro padri”.

Il rimprovero con cui il Battista accoglie farisei e sadducei è severo: “Razza di vipere!”. Li paragona a serpi che iniettano il loro veleno di morte in chi inavvertitamente si accosta a loro. Poi passa all’invettiva, all’annuncio delle catastrofi che stanno per colpirli: corrono il rischio di venire tagliati come un albero che non porta frutto e di essere bruciati come pula. Su di loro incombe l’ira di Dio.

Siamo di fronte a immagini drammatiche che sembrano smentire il sogno di Isaia della prima lettura.

Il tono è minaccioso e non sorprende sulla bocca del Battista; così si esprimevano i predicatori di quel tempo ed è questo il linguaggio che compare spesso anche nella Bibbia. Il precursore lo impiega per mettere in guardia chi rifiuta l’invito alla conversione: si priva dell’incontro di amore con Cristo che viene per introdurlo nella sua gioia e nella sua pace.

Nel contesto di tutto il vangelo le parole del precursore assumono un significato che va oltre quello immediato. È successo anche a Caifa di pronunciare, senza rendersene conto, una profezia.

Quando parlava dell’ira divina, Giovanni non aveva le idee chiare su come si sarebbe manifestata.

L’ira di Dio è un’immagine che ricorre spesso nell’AT e non va intesa come un’esplosione di livore della persona offesa. È espressione dell’amore di Dio: si scaglia contro il male, non contro chi lo compie; non vuole colpire l’uomo, ma sottrarlo al peccato.

La scure, che taglia gli alberi alla radice, ha la stessa funzione attribuita da Gesù alla forbice che pota la vite e la libera rami inutili che la privano della preziosa linfa e la soffocano (Gv 15,2). Gli alberi divelti e gettati nel fuoco non sono gli uomini, che Dio ama sempre come figli, ma le radici del male che sono presenti in ogni uomo e in ogni struttura e che devono essere fatte a pezzi in modo che non possano più gettare germogli (Ml 3,19).

I tagli sono sempre dolorosi, ma quelli operati da Dio sono tagli provvidenziali: creano le condizioni perché spuntino rami nuovi, capaci di produrre frutti.

Il ventilabro, infine, con cui il Signore attua il suo giudizio è immagine viva: descrive il modo con cui l’operato di ogni uomo viene vagliato da Dio.

Nei tribunali umani i giudici prendono in considerazione solo gli errori e pronunciano la sentenza in base al male commesso. Delle opere buone tengono poco conto. Nel giudizio di Dio avviene esattamente il contrario. Egli, con il ventilabro della sua parola, sottopone ogni uomo al soffio impetuoso del suo Spirito che spazza via la pula e lascia sull’aia solo i preziosi chicchi: le opere di amore che, poche o molte, tutti compiono.

AUTORE: p. Fernando Armellini

FONTE: per gentile concessione di Settimana News