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Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 24 Gennaio 2024

Commento al brano del Vangelo di: Mc 4,1-20

Il seme della Parola

Nel lungo brano di oggi troviamo la più classica delle parabole di Gesù; l’immagine del seme che attraversa con la sua agreste verità non solo i vangeli ma anche tutto il Nuovo Testamento. Una parabola che è sempre in atto, perché il seminatore semina la Parola (v. 14), e la Parola ha in sé tutta la potenza del frutto futuro. Ma è una potenzialità che al primo stadio rimane inespressa, inefficace. Di cosa ha bisogno la Parola per portare frutto? Due cose: tempo e spazio.

Anzitutto il tempo. Nell’era digitale in cui il tempo è una variabile irrisoria, noi ci scontriamo con il fatto che nella sfera spirituale non vale la logica del tutto e subito. Bisogna prendersi del tempo, sapere aspettare, esercitare la pazienza. La teoria della spiritualità cristiana infatti la si può apprendere leggendo un libro, o con un corso di poche ore. La teologia con degli studi di pochi anni. Ma arrivare a fecondare con la Parola il nostro io interiore, arrivare all’inabitazione dello Spirito, come direbbero i cristiani d’Oriente, richiede molti anni di applicazione e soprattutto di perseveranza nell’ascolto della Parola.

C’è bisogno poi di spazio: i terreni su cui la Parola è abbondantemente sparsa. Ogni momento, ogni istante della nostra vita può essere attraversato dalla Parola, ma noi possiamo non essere recettivi. Se non prestiamo ascolto alla Parola, il nostro cuore diventa duro come la strada e la Parola non riesce a mettere radici. È il dramma vissuto anche dal profeta Isaia, in quel difficile inciso che sta al centro del nostro testo (v. 10-12). Se il nostro cuore non è sgombrato dai sassi la Parola non può scendere in profondità e il rammarico è grande tanto quanto l’entusiasmo iniziale. Se la Parola cresce insieme ad altre cose, queste possono soffocare la Parola e prendere il suo posto.

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Qual è dunque la qualità del terreno buono? L’essere sgombro dai sassi e da altre erbe. Come i campi di questa stagione invernale, il terreno buono è tale perché non è calpestato e non vi cresce ancora nulla. Il terreno buono è simbolo di un cuore semplice, un cuore recettivo perché povero di tutto, un cuore pronto a mettersi totalmente in gioco.

L’efficacia dell’immagine agricola usata da Gesù, dagli evangelisti e da Paolo, sta nel fatto che alla fine il frutto ottenuto è il risultato omogeneo di diversi fattori. Anche il contadino più orgoglioso sa infatti che, nonostante il suo lavoro, quel frutto non gli appartiene: è un dono di grazia, una speranza esaudita, coltivata con il sudore della fronte, in cui la fatica è solo fede e mai certezza. E deve essere così anche per noi, che nonostante le nostre mancanze, il nostro non essere terreno buono, caparbiamente, con fatica e speranza perseveriamo nell’ascolto della Parola di Dio, credendo che possa far breccia poco alla volta anche nel cuore più indurito per portare un frutto che sarà sempre rivestito di un’intima meraviglia.

fratel Raffaele

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Per gentile concessione del Monastero di Bose

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