Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 14 Ottobre 2020

Parole dure quelle del vangelo di oggi, parole che Gesù rivolge a farisei e dottori della legge, ovvero agli uomini religiosi del suo tempo e quindi a ciascuno di noi che vorremmo vivere alla sua sequela ma che spesso e volentieri facciamo delle nostre pratiche religiose un fine in sé, un mezzo per auto-giustificarci invece che un esercizio per umanizzarci, per ritrovare quell’immagine e somiglianza che il creatore ha inscritto in ciascuno di noi ma che noi abbiamo smarrito con la nostra pretesa di bastare a noi stessi.

Al centro dei rimproveri di Gesù c’è l’ipocrisia, la doppiezza di chi dietro a una bella apparenza maschera ciò che in realtà è, di chi non accoglie di essere salvato da un Altro ma vuole darsi da sé la vita, di chi crea divisioni nel popolo di Dio giudicando gli altri senza vedere (o voler vedere) il male che lo abita, di chi confonde l’accessorio con l’essenziale.

Innanzitutto questo si manifesta in quell’essere scrupolosi e minuziosi osservanti della legge perdendo di vista però il fine per cui la Legge è stata data: predisporre tutto perché le nostre relazioni con gli altri siano improntate a giustizia (e questo significa saper discernere l’indifeso, il povero e il misero, e soccorrerli nel loro bisogno) e esercitarsi a una relazione con Dio che sia intessuta di amore e di fiducioso abbandono alla sua misericordia.

L’altra forma di ipocrisia denunciata in questi versetti da Gesù è quella di chi ama i primi posti, di chi vuole apparire, essere visto, riconosciuto ma nasconde (a se stesso ancor prima che agli altri) l’ombra che lo abita, il peccato e la miseria a cui nessun umano sfugge: a questo allude Gesù quando usa l’immagine dei sepolcri che la gente non vede e quindi calpesta contraendo, secondo la legge, una contaminazione (cf. Nm 19,16) . Detto in altre parole: ipocrisia di chi vuol apparire giusto mentre giusto non lo è, di chi esibisce una facciata che non corrisponde all’interno.

E infine l’ipocrisia di chi “dice e non fa” (cf. Mt 23,3), di chi è esigente all’eccesso con gli altri per poi esentare se stesso da ogni sforzo, da ogni forma di lotta spirituale, spezzando quella comunione che si vive nel sostenere tutti insieme la fatica di cercare e fare la volontà del Padre che è nei cieli.

Il Signore ci insegni a discernere la nostra colpa e il nostro peccato, a non ergerci a maestri degli altri ma piuttosto a intraprendere “la buona battaglia della fede” (1Tim  6,12) che consiste in una rinnovata decisione di conversione, di ritorno a Dio per ritrovare anche la comunione con i nostri fratelli e le sorelle in umanità.

sorella Ilaria


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