Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 3 Settembre 2023

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Il Signore come passione

Le letture bibliche della XXII domenica dell’Ordinario dell’annata A presentano un annuncio centrato sulle sofferenze che la vocazione profetica comporta, che il Messia stesso, Gesù, incontra nel suo cammino e a cui non potranno sfuggire i suoi discepoli, ieri come oggi. Nella prima lettura (Ger 20,7-9) vediamo come l’obbedienza alla Parola di Dio conduce il profeta a denunciare le ingiustizie e le violenze che si commettono all’interno del popolo di Dio e a incontrare così opposizione, emarginazione, derisione da parte di coloro a cui profetizza; nel vangelo (Mt 16,21-27) Gesù annuncia apertamente ai suoi discepoli il suo destino di sofferenza fino alla morte violenta e alla resurrezione. Di fronte alla reazione di opposizione di Pietro a quelle parole (Mt 16,22), Gesù potremmo dire che “rincara la dose” annunciando che la sua sequela immette anche il discepolo in un cammino segnato dall’assunzione della croce e il cui orizzonte è la perdita della vita.

La prima lettura apre uno squarcio drammatico sull’esperienza spirituale di Geremia: il profeta arriva a conoscere la radicale messa in discussione della sua vocazione, dunque della sua intera vita e dell’immagine stessa di Dio. Tratta da uno di quei brani racchiusi nei capitoli 10-20 del suo libro e che, per il contenuto autobiografico, vengono chiamati “confessioni” (Ger 11,18-12,6; 15,10-21; 17,14-18; 18,18-23; 20,7-18), il passo di Geremia testimonia la disillusione e il disincanto a cui l’esercizio responsabile e serio del suo mandato profetico l’ha condotto. Dopo l’entusiasmo dell’adesione al Signore e la dolcezza e la bellezza sperimentate nei momenti iniziali della chiamata, quando la Parola del Signore fu per lui “la gioia e la letizia del suo cuore” (cf. Ger 15,16), questa stessa parola è divenuta, col passare degli anni e lo svolgersi del suo ministero profetico, esperienza di amarezza e di sofferenza. Il profeta si sente ingannato da Dio: come se Dio lo avesse adescato e usato per poi abbandonarlo.

Per Geremia le domande si affastellano: fu vera vocazione? O si trattò di un abbaglio? Di un inganno? Dio lo ha chiamato o violentato? Il testo è un lamento che si apre con le parole per niente dolci, ma di accusa rancorosa contro Dio: “Tu mi hai sedotto” (20,7). In realtà, in questo caso, il verbo ebraico non indica un momento romantico o comunque consolante e positivo (come p. es., in Os 2,16), ma un crimine. La Traduction oecuménique de la Bible traduce “tu hai abusato della mia ingenuità” (tu as abusé de ma naïveté). In Gdc 14,15 e 16,5 lo stesso verbo indica le azioni da porre in atto per indurre una persona (in questo caso, Sansone) ad agire in un determinato modo, secondo un disegno prefissato. Si tratta dunque di un inganno, di una manipolazione. In Es 22,15 quel verbo indica la violenza usata da un uomo nei confronti di una ragazza: uno stupro. Nella rilettura che il profeta fa della sua vocazione alla luce di ciò che la sua onestà verso Dio e la sua coerenza con il ministero ricevuto lo ha portato a conoscere, ovvero dileggio, emarginazione, disprezzo, inimicizia e violenza, egli vede Dio come colui che lo ha ingannato. Già in 15,18 Geremia si era sfogato davanti a Dio gridandogli la sua inaffidabilità: “Tu sei per me un miraggio, come acqua in cui non si può aver fiducia”. Geremia vede scossa in radice la sua fiducia in Dio.

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Nessuna storia d’amore tra Dio e lui, anzi una storia di prevaricazione in cui i rapporti di forza hanno determinato l’esito che ha visto Geremia soccombere: “Mi hai fatto violenza e hai prevalso” (20,7). Geremia si trova nello smarrimento: come se guardasse a ritroso la sua vita e scoprisse di essere stato condotto sull’orlo di un precipizio. Chi è ora Geremia? Un profeta? Un falso profeta? Un uomo ingannato da Dio? E Dio chi è? Ed è diventato ora un nemico astuto o lo è sempre stato? “Soffrire è non sapere più dove si è; jn particolare, da quale parte della barricata ci si trova. Soffrire è perdere la traccia di quel che si sa e non poter riconoscere il volto di Colui per il quale si è combattuto. Angelo o demonio? Dio riconosciuto chiaramente o Dio che viene ad ottenebrare l’intelligenza nel buio dell’illusione? Dio o le sue apparenze?” (Henry Mottu). Geremia spiega il senso delle sue accuse: quando parla, Geremia deve denunciare la violenza, la menzogna, la doppiezza, l’oppressione che imperversano in Israele. Geremia ha chiamato per nome i delitti, le ipocrisie, le menzogne che si commettevano all’ombra del tempio di Gerusalemme (cf. Ger 7,1ss.), ha stigmatizzato le colpe delle classi dirigenti, si è anche scontrato con chi egli denunciava come profeta di menzogne (cf. Ger 19,1-20,6).

La sua profezia gli ha procurato sofferenze proprio perché non si è sottratta al compito di parlare male del male, di svelare l’abominio là dove abitava, con precisione, non con discorsi vaghi e generali che non scomodano nessuno e che anzi si risolvono in complicità con i potenti e malvagi. E ne ha pagato il carissimo prezzo. “Tutto il giorno” (Ger 20,8) egli, per onorare il suo mandato profetico, per responsabilità verso il popolo di Dio e per fedeltà al Dio che l’ha mandato, deve gridare “Violenza! Oppressione!” e per questo egli deve pagarla: la sua vita ormai Geremia la sente schiacciata dal peso delle sue parole che ha pronunciato, che ha dovuto pronunciare per obbedienza alla parola di Dio. Ed ecco che, al cuore del suo dramma, della sua crisi, il profeta è tentato di abbandonare il ministero ricevuto: “Non parlerò più in suo nome”: Ger 20,9. Geremia vorrebbe abbandonare la lotta, dimenticare Dio (“Non penserò più a lui” o “Non mi ricorderò più di lui”: Ger 20,9), abbandonare il ministero profetico, ma, anche in questo caso, non ce la fa. Il verbo usato al v. 7 per dire che Dio ha “prevalso” su di lui, ora, nel v. 9, viene usato per dire che lui, Geremia, non è riuscito a spegnere il fuoco che lo animava e bruciava nel cuore (“non potevo”).

Geremia trova il rinnovamento e la conferma della vocazione nel più profondo di sé stesso, nel cuore ancora infiammato dalla Parola di Dio (“Non è forse la mi parola come fuoco? – oracolo del Signore -”: Ger 23,29). La volontà di Geremia cerca di spegnere e soffocare la parola che però abita il suo corpo, è incarnata in lui fino ad abitare nelle sue ossa e nel suo cuore (Ger 20,9). La parola di Dio è divenuta quasi una realtà fisica nel profeta. Ecco dunque di cosa è capace un corpo abitato dalla potenza della parola di Dio: esso rende Dio una passione. E se il Signore è una passione, allora anche la crisi sarà un momento di verità della fede e della vocazione. Il Signore come passione: questo vive Geremia, e questa è la sfida per i cristiani e per le chiese oggi, che conoscono scoraggiamento, stanchezza, smarrimento, grigiore, nella coscienza che una forma di chiesa è ormai morta e occorre inventarne un’altra.

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Il brano evangelico inizia con una notazione temporale, “Da allora” (Mt 16,21), che si riferisce alla confessione messianica di Pietro. Da quel momento Gesù specifica il senso di tale affermazione: il Messia a cui Gesù dà vita e che incarna è segnato da un destino di sofferenza, di morte violenta e di resurrezione (16,21). La reazione di rifiuto categorico da parte di Pietro (16,22) dice l’irricevibilità di tale via dolorosa, ma di fatto rifiuta anche la prospettiva della resurrezione: morte e resurrezione sono un unico mistero e un medesimo scandalo. Gesù ribatte a Pietro con parole che contrastano violentemente con la beatitudine che su di lui ha appena pronunciato. Dal “Beato” (16,17) perché destinatario della rivelazione dall’alto, al “Satana” (16,23) perché non pensa secondo Dio, ma in modo mondano. E questo contrasto così stridente nella medesima persona così sottolineato da Matteo, dice come i credenti possano albergare in sé fede e mondanità e far convivere in sé atteggiamenti schizofrenici. Atteggiamenti “secondo Dio” e atteggiamenti “satanici”. A volte anzi, l’equilibrio personale si regge esattamente – paradossalmente e scandalosamente – su questa convivenza di opposti.

Ma ecco che all’annuncio della sua passione seguono le parole sulla passione del discepolo. Queste parole di Gesù al discepolo affermano la perdita di sé necessaria per essere in contatto con il proprio vero sé (16,24-26). C’è un rinnegamento di sé, cioè un uscire da una vita autocentrata, dal meccanismo dell’autogiustificazione, dall’autoreferenzialità egoista, che consente al discepolo di trovare, come dono, la vera vita e di esserne raggiunto per grazia. Si tratta del passaggio pasquale dalla vita come possesso e come potere alla vita come dono e come grazia. È la vita vissuta in Cristo e per Cristo, è la vita di Cristo in noi: “Chi perderà la sua vita per causa mia, la troverà” (16,25).

Infatti, “Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la sua vita?” (16,26). Il testo intravede la situazione di uomini tesi a possedere, a proiettare il proprio agire e ad estendere il proprio accumulare al di fuori di sé, di fatto fallendo la propria vita, perdendo se stessi. Uomini estroversi per non incontrare se stessi, per non entrare nel doloroso faccia a faccia con se stessi. Seguire Cristo, invece, significa porre la propria vita nella sua vita per amore. Ciò che per amore si perde, in realtà non è perso, ma donato. E ciò che è donato per amore, è ritrovato nella relazione.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose