Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 2 Aprile 2023

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Cammino di libertà

Con la domenica delle Palme il cammino quaresimale si volge decisamente verso la Pasqua introducendo il credente alla settimana santa. Al cuore delle letture bibliche odierne vi è proprio l’immagine del cammino: il cammino di Gesù su un asino verso Gerusalemme (Mt 21,1-11), ma anche il cammino del re inerme nel testo di Zaccaria (9,9) citato nel passo evangelico (Mt 21,5); il cammino del Figlio di Dio che si abbassa fino alla morte di croce (Fil 2,6-11); infine, Is 50,4-7 presenta quello che possiamo definire un cammino non nello spazio ma nel tempo: il cammino del servo del Signore, quotidiano (“ogni mattina fa attento il mio orecchio”: Is 50,4), sofferto e perseverante (“non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro, ho presentato il mio dorso ai flagellatori … non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”: Is 50,5-6). Tutti questi testi ci presentano dei cammini paradossali, con tratti incomprensibili, assurdi, folli e comici. 

Incomprensibili: come è incomprensibile l’atteggiamento del servo nella sua passività di fronte alle violenze, passività che in realtà dice la sua forza e il radicamento profondo delle sue motivazioni e della sua fede. Assurdi: come è assurdo il comportamento del re immaginato da Zaccaria, senza esercito e che disarma il suo popolo creando un popolo indifeso. Folli: la follia del Figlio di Dio che si distanzia dalle prerogative divine, abbandona la forma Dei e si mescola all’umanità. Comici: la comicità di un Gesù che entra come re in Gerusalemme su un asino e la città che reagisce a tale evento chiedendosi: “Chi è costui?” (Mt 21,10). Più che l’ingresso di un re, sembra l’ingresso di uno sconosciuto. Ma questi tratti di incomprensibilità, assurdità, follia e comicità rientrano in quella paradossalità costitutiva del cammino umano e cristiano il cui frutto più maturo è la libertà. Le letture di oggi (a cui possiamo aggiungere il testo di Zc 9,9-10 per il ruolo decisivo che Matteo vi attribuisce per illuminare l’ingresso di Gesù in Gerusalemme) ci presentano alcune significative immagini di libertà.

Il servo del Signore di cui parla la prima lettura è un discepolo che impara ascoltando dal suo maestro che è Dio stesso. Il cammino della libertà inizia dall’ascolto. Nell’ascolto ci apriamo a una parola e a una volontà altre e, liberamente, decidiamo di cambiare, accettando di pensare la nostra vita insieme a un altro: la libertà si situa nello spazio di una relazione con altri e del cambiamento di séNel nostro testo c’è la sofferta assunzione del compito che al servo deriva dall’essere uomo di ascolto della parola di Dio. Non si dice che egli abbia pronunciato un sì entusiasta, c’è invece un lasciar fare, un non opporsi, un non tirarsi indietro.

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C’è una sofferta responsabilità. Sofferta perché egli sa che nel suo andare a fondo dell’ascolto con un atto di libera e radicale responsabilità, egli incontrerà opposizioni, cattiverie, violenze. In quell’atto di ascolto e responsabilità, libertà e liberazione, c’è già il suo preveniente accogliere i colpi che gli verranno. Il fondamento interiore della sua libertà si manifesta nella sua capacità di incassare e assumere le cattiverie e le colpe altrui. Non solo egli presenta il dorso ai flagellatori e la guancia a chi gli strappa la barba, non solo non sottrae la faccia agli insulti e agli sputi, non solo non incolpa altri dei loro peccati, non solo non li giudica e non li accusa, non solo opera nonviolenza, ma in quel modo, silenzioso, che tutto vive nell’interiorità, che tutto combatte nella lotta interiore, si pone nell’atteggiamento di chi porta e sopporta i peccati degli altri, di chi assume su di sé le colpe altrui. Questo cammino avrà una singolare risonanza nel cammino di Gesù verso la passione e la morte di croce.

Il re immaginato da Zaccaria è un re umiliato, salvato, giustificato: così suonano i tre aggettivi riferiti a lui nel testo ebraico (ani, noshà, tsaddiq: Zc 9,9). È un re indifeso e che addirittura viene per disarmare il suo popolo. Ovvero, è libero dalla paura. La paura che ci porta a costruirci corazze e ad armarci sia realmente, fisicamente, che simbolicamente, psicologicamente. Non teme di essere aggredito e così è libero dalla paura che lo porterebbe a spendere energie nel difendersi, nel prevenire le mosse del nemico, non ha la paura che ci porta a chiuderci in noi stessi, ad avere sempre davanti agli occhi il nemico situandoci così nella dipendenza nei suoi confronti proprio mentre cerchiamo di difendercene.

La lettera ai Filippesi afferma che il cammino del Figlio di Dio è un cammino di perdita, di abbassamento, di spogliazione. Il testo sottolinea la dimensione interiore di tale cammino: la libertà trova nell’interiorità il suo saldo fondamento. E diviene anche libertà da eventi e persone proprio nella sottomissione a eventi e persone. La libertà si manifesta nell’obbedienza a eventi, persone, situazioni che conducono Gesù fino alla morte, anzi “alla morte di croce” (Fil 2,8). Paolo osa un’audace incursione nella vita interiore del Figlio di Dio affermando che egli non ritenne rapina o possesso geloso la sua uguaglianza con Dio; quindi svuotò se stesso (semetipsum exinanivit) e umiliò se stesso (humiliavit semetipsum), cioè agì su di sé. Ecco l’onnipotenza divina: onnipotenza nell’amore.

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Questa la potenza divina manifestata da Gesù: un agire potente, senza limiti, ma su di sé. Un’onnipotenza verso se stesso, se così si può dire. La potenza dell’agire e dell’amare di Dio è in questo operare su di sé. La libertà è questa capacità di operare su di sé fino a cambiare, a divenire. L’inno sottolinea che il Figlio “divenne” simile agli uomini, “divenne” obbediente fino alla morte. Se Cristo invita alla conversione, lo fa avendo lui stesso conosciuto in sé il divenire divino, essendo divenuto lui stesso la conversione, la via da percorrere, il cammino da seguire: “Io sono la via” (Gv 14,6). E cammino di libertà è il cammino che osa guardare in faccia la morte. Il Figlio si fece obbediente fino alla morte: usque ad mortem (Fil 2,8).

Anche il cammino di Gesù che entra in Gerusalemme è un cammino di libertà che prelude all’atto profetico più potente che Gesù abbia compiuto: la cacciata dei venditori del tempio (Mt 21,12-17). Chi entra in Gerusalemme sull’asino è un profeta. Alla domanda “Chi è costui?” della città, la folla rispose: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea” (Mt 21,11). Gesù che entra in Gerusalemme vi entra dando compimento alla Scrittura. Nella pericope di Mt 21,1-17 ci sono ben quattro citazioni esplicite dell’AT, che dicono come Gesù stia compiendo le Scritture. Gesù sta obbedendo alle Scritture: la sua libertà avviene nell’obbedienza alle Scritture. L’incipit del testo di Zaccaria, citato da Matteo per descrivere l’ingresso di Gesù nella città santa, incipit che invitava alla gioia la città, è sostituito da una citazione di Is 62,11: “Dite alla figlia di Sion”. Così il cammino di Gesù verso la città diventa una parola rivolta alla città stessa e che la interpella.

Quel cammino è una parola. Gesù stesso è ormai solo parola, è realizzazione della parola della Scrittura nella sua persona, nei suoi gesti, gesti semplici come avere bisogno di un asino, farlo mandare a prendere, promettere di restituirlo, cavalcarlo entrando in Gerusalemme, nella coscienza di compiere un mimo profetico, un gesto che è una parola. Il Gesù che entra in Gerusalemme e si avvia alla passione, dove sprofonderà sempre più nel silenzio, è ormai l’uomo divenuto parola di Dio. Gesù è parola infinitamente libera, che interpella, come apparirà dalle parole che dirà e dai gesti che compirà nel tempio, e che solo i bambini sapranno riconoscere e accogliere (Mt 21,15-16). E la libertà si esprime anche nella coscienza che proprio quel gesto che egli compie con audacia, scatenerà il precipitare degli eventi che lo porteranno alla morte. Il segreto di trovare e perfino di dilatare la libertà nella sottomissione a eventi, persone, situazioni, è il segreto dell’amore. Un amore che trova la sua misura più alta nel non esitare a spingersi usque ad mortem.

Nel testo evangelico Gesù ordina, comanda, dispone (Mt 21,1-3), ma questa autorevolezza è a servizio di un sentire e pensare che presiede al suo agire a che lo porta a scegliere consapevolmente la via della mitezza come sigillo caratterizzante il suo mimo profetico di ingresso regale in Gerusalemme. Il cammino che Gesù percorre indica la via ai suoi discepoli: la via della mitezza, della rinuncia consapevole a una forza che potrebbe schiacciare o limitare gli altri e che deve essere arginata per far loro spazio. Gesù compie un mimo profetico usando la scenografia dell’ingresso di un re nella sua città per dire altro. La signoria che Gesù dimostra è legata alla signoria su di sé che l’ha portato a essenzializzare nella mitezza la qualità messianica. Il vero re è l’uomo mite. Ma l’uomo mite è quello che sa frenare le sue parole e abitare il silenzio. Questa signoria interiore porta Gesù a compiere gesti presenti nelle Scritture, ma che prendono un significato nuovo quando divengono carne in lui. Gesù sta compiendo la Scrittura, cioè sta dando la sua carne, la sua voce, i suoi gesti, la sua intelligenza e le sue energie alla parola di Dio. Gesù sta parlando con la sua vita. E la vita parla con autorevolezza la parola di Dio quando obbedisce a tale parola. L’autorevolezza è manifestata dall’obbedienza. E in tale obbedienza si trova anche l’infinita libertà di Gesù.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose