Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 19 Febbraio 2023

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La risposta dell’amore

La prima lettura (Lv 19,1-2.17-18) afferma che dalla santità di Dio discende il comando di amare il prossimo come se stessi: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo … Amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lv 19,2.18). Il vangelo afferma che dalla perfezione di Dio sgorga il comando di amare il nemico e che in questo amore il credente partecipa della perfezione di Dio: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste … amate i vostri nemici” (Mt 5,48.44). Cercando di vivere quell’incredibile e quell’inaudito che è l’amore per il nemico, il credente trova la sua maturità, la sua teleiosis, la sua compiutezza e pienezza (perfezione in questo senso) cristiana. I testi propongono un’etica teologale, un’etica che trova il suo fondamento nell’agire di Dio in favore dell’uomo. Il criterio etico che orienta l’agire umano può essere espresso così: “Come Dio ha agito verso di te, agisci anche tu verso gli altri”. In questo modo, non solo viene superato il livello della vendetta, del “fai anche tu all’altro ciò che egli ha fatto a te”, ma viene fondato e reso praticabile l’amore del nemico grazie alla fede in Cristo che ha amato anche i nemici (cf. Rm 5,10).

L’amore richiesto dall’AT come dal vangelo comporta un lavoro della persona su di sé. È così che l’“amore” si arricchisce di un contenuto e riceve una forma. Il realismo biblico dice che amare non è immediato né naturale: non è affatto vero che amare sia per ciascuno una realtà immediatamente disponibile e praticabile. Il passo del Levitico esorta a non covare odio nel cuore contro il fratello (Lv 19,17), a non serbare rancore contro di lui e ad astenersi dalla vendetta (Lv 19,18). Per dare una realizzazione pratica all’amore occorre prendere una distanza da sé, ascoltare e leggere se stessi, il proprio cuore e decidersi in un senso invece che in un altro. Maturità è dare ordini a se stessi e obbedirvi. Ovvero, essere capaci di determinarsi a volere il bene e non il male. Il vangelo sa che ci è più facile amare chi ci ama, stare insieme alle persone con cui stiamo bene, salutare solo chi ci piace e ci è simpatico, sa che noi tendiamo a scegliere coloro con cui stare escludendo altri (Mt 5,46-47), e il vangelo annovera questi comportamenti, ai nostri occhi così naturali, giusti, sensati, indiscutibili (e infatti li pratichiamo quotidianamente) in quella giustizia di scribi e farisei che egli esorta a superare (Mt 5,20). Gesù definisce questi atteggiamenti come un comportamento pagano, non evangelizzato: “Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,47). Soprattutto questo significa attenersi a un piano di naturalità nei rapporti con gli altri che esime dal lavorare su di sé e fa prevalere la dimensione carnale, come direbbe Paolo.

Dalle letture emerge anche il confronto con la possibilità della violenza. La Bibbia, specchio dell’umano, sa che anche il credente è capace di odiare e che spesso cela l’odio nel proprio cuore e lo dissimula (Lv 19,17-18). Gesù riconosce che esistono comportamenti malvagi e violenti che abitano i rapporti quotidiani tra conoscenti, amici, famigliari: dare uno schiaffo non è certo uccidere una persona, ma che cosa abita nel cuore di colui che dà lo schiaffo? Il quotidiano è attraversato dalla violenza che si esprime in scatti d’ira incontrollati e che può condurre a picchiare l’altro (Mt 5,39). Nel quotidiano c’è la violenza di chi vuole sottrarre all’altro ciò che è suo (v. 40). C’è la violenza dell’abuso, della manipolazione e della coercizione, la violenza di chi conduce l’altro a fare ciò che si pretende da lui (v. 41); c’è la violenza dell’insistenza, della pressione, dell’assillare l’altro, di pretendere (v. 42). L’amore maturo è realistico e sa di essere un’opzione, una decisione, non un fato; sa di essere debole, minacciato da una naturalità di odio e avversione che può sempre esplodere. Maturità di amore implica il riconoscimento della violenza di cui siamo capaci per vederne le radici in noi e superarle in Cristo. E implica la capacità di vedere la violenza degli altri senza opporle una risposta analoga e contraria (“Non rendete a nessuno male per male … Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene”: Rm 12,17.21): cedere alla tentazione di rispondere al male con il male sarebbe dichiararsi vinti dalla logica potente del male e lasciarsi trascinare nella spirale della violenza. La compiutezza di amore a cui Gesù invita, prevede che uno riconosca il male che gli viene inferto ma che questo non lo conduca a rompere la relazione. Opponendo una logica “altra” a quella del male, il credente mostra la sua libertà e offre un’alternativa anche a colui che l’ha offeso e ferito. Gli mostra una possibilità altra di vivere e agire. La vendetta per il male subito sarebbe solo una reazione, mentre una risposta altra, dell’ordine della mitezza e del bene, è un’azione, è una parola altra che non imita l’agire del malvagio divenendone succube, ma pone un’alternativa. Analogamente una risposta cattiva a un agire cattivo sarebbe meramente speculare: il male dimostrerebbe di essere più forte del bene. Che fare dunque del male ricevuto? Il male ricevuto può divenire occasione di conoscenza del proprio cuore, dei sentimenti tutt’altro che nobili che spesso vi albergano e riconoscimento del profondo bisogno di evangelizzazione del proprio cuore. E allo stesso tempo può diventare occasione di presa di coscienza delle meschinità e miserie che abitano il cuore di tanti, delle sofferenze non curate e delle ferite non rimarginate che sono all’origine di tanti comportamenti violenti e distruttivi. Sappiamo bene come comportamenti aggressivi possano nascere da traumi subiti e da dolori non addomesticati. Di fronte al male ricevuto, Gesù chiede di agire altrimenti, di decidere se stessi in maniera evangelica, di agire avendo davanti agli occhi non il principio della ripicca e della ritorsione, ma di scegliere come proprio habitat il vangelo. Non si tratta di prendere alla lettera le indicazioni di Gesù che sono espresse nel modo del paradosso: porgere l’altra guancia a chi ti percuote con uno schiaffo, lasciare anche il mantello a chi vuole sottrarti la tunica, fare liberamente due miglia con colui che ti obbliga a farne uno (Mt 5,39-41). Nel primo caso abbiamo il superamento della mentalità giuridica espressa nella legge del taglione; nel secondo caso siamo di fronte a una lite giudiziaria; infine, il terzo caso presenta una corvée che normalmente i soldati occupanti romani imponevano ai locali (si pensi a Simone di Cirene costretto a portare la croce di Gesù: Mt 27,32). L’invito di Gesù è a entrare nella volontà del violento con linguaggio e atteggiamento pratico assolutamente non violento. È una risposta che apre un’alternativa, che spezza logiche che potrebbero sembrare ferree e inaggirabili. L’amore dei nemici chiesto da Gesù afferma che non l’odio e la violenza hanno l’ultima parola, ma che è possibile vincere la potenza della nostra istintualità, così come della nostra banalità che ci spinge a urlare per aver ragione, a non ascoltare per non essere infastiditi, a troncare le relazioni con gli altri per farla loro pagare, a reagire con il male al male che ci è stato fatto. Tutto questo rientra nell’impegnativo programma che va sotto il titolo: amare il nemico.

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Anzi possiamo aggiungere ancora qualche altro elemento che rientra nell’articolato lavoro su di sé che l’amore per il nemico comporta. Anzitutto: rinunciare alla vendetta. Quindi riconoscere che si sta soffrendo la situazione di inimicizia. Il famigliare o l’amico che diventa nemico è un dolore lancinante e spesso anche un enigma (Sal 55,13-15; Sir 6,1.9). La sofferenza che si patisce è preludio alla possibilità di un cambio di atteggiamento verso di lui: un atteggiamento non dipendente e improntato a rivalsa, ma libero e improntato a benevolenza. Occorre anche riconoscere la collera che ci abita e che si manifesta in pulsioni e sentimenti, discorsi e pensieri interiori contro colui che si è fatto nostro nemico. La collera è rivelazione di noi, non solo denuncia dell’altro. Ascoltarla ci aiuta a cogliere le nostre zone di maggiore vulnerabilità e può portarci ad addomesticarla e a volgerla in energia positiva e vitale. Poter parlare con qualcuno della situazione dolorosa di inimicizia che si sta vivendo è importante per prendere un certo potere su una situazione che rischia di sfuggirci di mano. E può aiutare il faticoso percorso verso la comprensione dell’altro e della sua inimicizia. Comprensione che non significa giustificazione, ma cambiamento del nostro sguardo su di lui per coglierlo non solo come colui che mi ha fatto del male, ma come un figlio di Dio e un fratello che il male ha allontanato da me.

Questa base di dialogo interiore, di fatica profonda, di sofferenza intima, costituisce il fondamento dell’amore per il nemico. Cioè, del convincimento che ci porta a compiere gesti di apertura e di “bene” per l’altro. Purtroppo la realtà presenta una quantità di situazioni infinitamente più articolate e complesse in cui oltre ai due entrano un terzo, un quarto, o altri ancora, o gruppi umani, e in cui si manifestano atteggiamenti di rifiuto, di non trasparenza, di menzogna che rendono quasi impossibile percorrere una via di comprensione. Perché si possa arrivare a dare una qualche forma di praticabilità al dettato evangelico dell’amare il nemico, occorre che esista una base, pur minima, di fiducia. Ma spesso l’inimicizia esprime proprio la morte della fiducia. E allora, la scalata verso la vetta dell’amore per il nemico si fa ancora più improba.

A cura di: Luciano Manicardi

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Per gentile concessione del Monastero di Bose