Lectio Divina di domenica 5 novembre 2017 – Comunità di Pulsano

Lectio Divina di domenica 5 novembre 2017, XXX domenica del Tempo Ordinario dell’anno A, a cura della Comunità monastica di Pulsano.

Domenica «DELL’UNICO PADRE E MAESTRO»

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Antifona d’Ingresso Sal 37,22-23

Non abbandonarmi, Signore mio Dio,
da me non star lontano;
vieni presto in mio aiuto,
Signore, mia salvezza.

L’antifona d’ingresso è dal Sal 37,22-23, SI. Nella parte ormai terminale dell’Anno liturgico, la tensione cresce sensibilmente. La scelta dei versetti qui è felice, indicativa della situazione: l’attesa della Venuta finale, che sarà il tema dell’ultima Domenica. Per questo l’Orante innalza, in modo serrato, ben 3 suppliche epicletiche al suo Signore e Dio, al quale è vincolato dall’alleanza. Sono epiclesi «per la Presenza». La prima, in senso negativo, chiede che il Signore non lo abbandoni mai, neppure per un istante, e la seconda che mai si allontani da lui, neppure per poco (v. 22). Al contrario, la terza epiclesi chiede al Signore che si affretti a venire in aiuto del suo fedele; che questi senta la sua Presenza, l’unica Forza sua che lo porta alla salvezza

Canto all’Evangelo Mt 23,9.10

Alleluia, alleluia.
Uno solo è il Padre vostro, quello celeste
e uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Alleluia.

Il versetto dell’Alleluia all’Evangelo come anche la colletta II indirizza la proclamazione evangelica e quindi la comprensione nostra e dell’assemblea verso il suo centro: l’unicità di Dio come Padre e del Figlio come Maestro.

Il centro dunque rimane sempre il Signore Dio, il Risorto, che venuto in mezzo agli uomini annuncia le realtà del Regno e con le opere del Regno conduce tutti gli uomini all’incontro con il Padre, l’unico Padre di tutti.

In questo riconoscimento che è la nostra continua conversione, la nostra fede in Dio, nel Figlio e nello Spirito Santo, convergono tutte le letture e i testi eucologici (ant. Ingresso, collette, canto dell’alleluia, ant. Comunione…).

Il ruolo delle guide e dei responsabili nel popolo di Dio è chiamata che viene dal Padre, vissuta nella sequela del Figlio in obbedienza e sostenuti dalla forza dello Spirito Santo. Ovviamente la Parola dopo averci portato sulla permanente attualità e necessità della nostra fede in Dio ci invita a riflettere ed esaminarci anche sull’adempimento fedele e costruttivo di ogni forma di presidenza e di guida di comunità religiose o civili. Questa è infatti anche la preoccupazione di Gesù che si dedicherà poi presto e prioritariamente alla formazione dei dodici. Comprendiamo forse meglio le reprimenda di Gesù verso gli scribi e i farisei e le sgridate del profeta ai sacerdoti dell’Israele post-esilico per le inadempienze nel loro ufficio e le loro scelte tutt’altro che esemplari mentre l’apostolo Paolo rievoca il suo appassionato impegno di evangelizzazione a Tessalonica, allorchè guidò alla fede in Cristo il primo nucleo cristiano di quella città. Già nel quinto secolo avanti Cristo, il profeta Malachia rimproverava aspramente i sacerdoti del suo tempo, che eludevano la legge di Dio ed erano occasione di caduta per il popolo. Anche Gesù mette in guardia i suoi discepoli contro gli scribi e i farisei, che sono molto bravi nell’insegnare agli altri quello che si deve fare, ma personalmente non lo fanno. La loro preoccupazione è di essere ammirati e considerati dalla gente: si fanno chiamare «maestri» e vogliono essere trattati con deferenza. Il loro atteggiamento non è di servizio, ma di dominio sugli altri. I discepoli devono evitare di comportasi in questo modo, se non vogliono snaturare profondamente il tipo di rapporto che deve esserci all’interno della comunità dei credenti. Uno solo è il maestro, il Cristo, e uno solo è il Padre, Dio. I cristiani sono tutti fratelli, radicalmente uguali fra di loro. Nessuno può cercare di dominare gli altri, anzi, ciascuno deve mettersi al servizio di tutti. E soprattutto coloro che, all’interno della comunità, hanno una responsabilità che è essenzialmente ministero, cioè servizio, di comunione.

È stato possibile scrivere un libro sulla «vanità nella chiesa». Ma l’insegnamento di Gesù non si riferisce soltanto ai titoli onorifici che vengono dati ad alcuni responsabili, o che questi addirittura esigono. Quello che è in gioco è la testimoniaza stessa della nostra fede, perché dalla fede scaturiscono i rapporti che devono esserci fra di noi, basati sulla nostra qualità di figli del medesimo Padre e di discepoli dell’unico Signore. Nessuno può mettere avanti se stesso, ma ciascuno deve farsi da parte di fronte a colui a cui non possiamo fare schermo, e che ispira il nostro desiderio di servire umilmente la Chiesa. Nelle comunità di oggi, il fariseismo rimane un pericolo permanente. Forse Paolo lo prevedeva, quando tracciava nella lettera ai Tessalonicesi il ritratto e il modello di chi occupa un posto di responsabilità nella chiesa.

                        La pericope evangelica di oggi appartiene all’ultimo insegnamento pubblico del Signore a Gerusalemme prima della passione; poi l’insegnamento sarà rivolto solo ai discepoli (cfr. lo schema di Matteo).

Il cap. 23 è una composizione di Matteo (ritenuto il 5° grande discorso) come i discorsi precedentemente segnalati; nella sua attuale collocazione esso serve da conclusione alle narrazioni delle controversie e da introduzione al discorso escatologico che segue (cc. 24-25).

In Matteo il discorso si divide chiaramente in tre parti:

1)  un’introduzione contenente l’accusa d’ipocrisia (vv. 2-7) e una digressione sulla comunità cristiana ideale (vv. 8-12);

2)  le sette maledizioni (vv. 13-32), di inaudita asprezza che richiamano le parole più violente e roventi dei profeti;

3)  una conclusione contenente il giudizio di condanna (vv. 33-38) che si chiude tuttavia con uno spiraglio di salvezza (v. 39).

Gli altri due evangeli sinottici riferiscono soltanto il primo brano riguardante la «ipocrisia» degli scribi (Mc 12,37-40; Lc 20,45-46), mentre Luca riporta uno stralcio della dura requisitoria contro i farisei (sei invettive in 11,39-52 e un’apostrofe alla città di Gerusalemme in 13,34-35) nella cornice di un pranzo offerto a Gesù da un fariseo.

Tutti e tre hanno come fonte comune la famosa fonte Q, a cui hanno poi aggiunto materiale proprio, seguendo un criterio di fedele ma anche libera trasmissione.

Matteo in particolare ha disposto i detti in modo tanto abile da creare un’unità tematica; ne è risultato il discorso antifarisaico del c. 23. Per le tecniche usate e il risultato ottenuto è possibile paragonarlo al discorso della montagna (cfr evangelo della solennità di Tutti i Santi).

Senza entrare ora nei dettagli, si può dire che il discorso come tale non risale certamente a Gesù; mentre i singoli detti riportati possono a buon diritto pretendere la paternità di Cristo. L’evangelista Matteo non ha creato il discorso dal nulla; suo è stato il lavorio di composizione unitaria. Come tale, il discorso, opera di mosaico di Matteo, fa riferimento alla situazione della Chiesa di Siria degli anni 80, travagliata dalla penosa rottura con il giudaismo, ma anche da un fariseismo strisciante e subdolo, infiltratosi tra le file dei credenti.

Matteo persegue così due scopi:

a)          bollare la sinagoga del tempo con il marchio infamante dell’ipocrisia[1];

b)          fare opera costruttiva di maturazione della sua comunità, chiamata a una fedeltà di vita senza confronto.

Allo stesso modo a lui si deve se maestri della legge e farisei appaiono nel discorso in modo indifferenziato e uniti tra di loro. Il che corrisponde bene alla situazione del giudaismo del suo tempo, meno a quella dell’epoca di Gesù.

A causa della sua forza polemica non si può pretendere di trovare nel discorso una presentazione che renda giustizia al movimento storico del fariseismo. Sono assenti del tutto sfumature, attenuazioni, eccezioni, gli avversari risultano un’unica massa di uomini perfidi e perduti; nulla di buono si vede in loro.

In realtà, non tutti i farisei, e neppure tutta la pratica farisaica, sono rappresentati fedelmente in questa pagina evangelica; in essa si fa giustizia sommaria di un movimento e di persone che, a diritto, possono pretendere un giudizio storico meno demolitore e più sfumato.

I lettura: Mal l,14b-2,2b.8-10

Questo violento messaggio riguarda la liturgia e si rivolge specialmente ai sacerdoti. Un tempio nuovo è sorto sulle rovine della guerra; ma le offerte portate in sacrificio sono oggetti di scarto; i sacerdoti si riducono al ruolo di funzionari di un culto formale e senz’anima. Come riconoscere la liturgia dell’alleanza in mezzo a tutte queste «stregonerie»? Nel culto i sacerdoti trovano un rifugio per sfuggire all’ardore ispirato delle profezie e al realismo dei saggi, ma non sono più dei messaggeri: sono soltanto gli antenati di Caifa; e il profeta smaschera la loro impostura.

                La sezione di Malachia che da 1,6 termina in 2,9, è dunque una requisitoria implacabile del Signore contro i suoi sacerdoti, con i quali contrasse l’alleanza speciale detta sacerdotale, gli addetti alle Realtà santissime. Essi via via prevaricarono dalla purezza della Legge e seguitarono nella loro corruzione a corrompere tutto e tutti.

Ora, il Signore si presenta anzitutto con alcuni titoli della sua Maestà divina: il Re Grande (Zac 14,9; Sal 47,3), il Sovrano divino infinitamente trascendente ogni miseria. Insieme però è anche il Signore delle Šeba’ôt, i Turni angelici, Colui che, adorato nel cielo inaccessibile, si fa presente sulla terra in mezzo ai turni sacerdotali del suo popolo, composti di sacerdoti e di fedeli, che dovrebbero adorarlo senza interruzione. Infine, Egli è anche Colui il cui Nome è terribile, davanti a cui si deve tremare in ogni parte, in specie tra i pagani; forse si può interpretare anche «il cui Nome è: “il Terribile”», il che non muta molto il significato (v. 14b).

Dopo la presentazione, si comprende che il Signore viene ora in specie come Giudice e instaura subito il processo. Chiama per adesso come imputati i suoi sacerdoti; ma poi in 2,10-16 verrà anche la volta del suo popolo, che non è affatto innocente. Certo, «i buoni sacerdoti fanno un buon popolo, e il buon popolo fa buoni sacerdoti»; tuttavia vale anche la reciproca, i cattivi sacerdoti fanno un cattivo popolo, e un popolo cattivo fa cattivi sacerdoti. La formula introduttoria (2,1) è la contestazione giudiziaria, su un precetto che spettava ai sacerdoti eseguire, e che adesso fa scaturire la minaccia giustificata, poiché tra il Signore e Levi fu contratta in eterno l’alleanza della vita, a condizione di totale dedizione dei sacerdoti al loro Signore (vv. 4-5). Ora, il primo precetto sacerdotale è dare gloria al Nome divino, e questo nel cuore dei sacerdoti deve stare sopra a qualsiasi altra preoccupazione (v. 2,2). Di qui viene che per gli antichi monaci «all’opera di Dio nulla sia preposto», ossia nessun’altra opera deve ostacolare la liturgia divina laudativa (Regola di S. Benedetto 43,3). Mentre proprio i sacerdoti con il loro comportamento disprezzano questo Nome adorabile (1,6-8); allora il contenuto dell’alleanza sacerdotale è vanificato. Il Signore non è più trattenuto dall’inviare la sua punizione (v. 2,2a; Lv 26,14-16; Dt 28,15),

E poiché i sacerdoti custodiscono la conoscenza di Dio e la debbono insegnare, in quanto il sacerdote è «l’angelo del Signore», il suo più diretto messaggero (v. 7, fuori lettura liturgica!), il loro comportamento di guide del popolo santo è deviato, essi sono stati pietra di scandalo, di caduta per molti, per troppi fedeli sulla via della Legge (Ez 22,26), e così hanno reso invalido il contenuto dell’alleanza sacerdotale di Levi. È la sentenza, con la formula: «Parla il Signore!» (v. 2,8).

La punizione è tenibile. Il Signore li rende spregevoli e abietti nella considerazione del popolo suo (Os 4,7; Nah 3,6), e, secondo la Volgata, davanti a tutti i popoli, poiché, deviando dalle vie del Signore, con il pretesto della Legge si sono fatti accettori di persone, preferendo quello e rigettando gli altri (v. 2,9; Dt 1,17; 16,9).

Il v. 2,10 per sé fa parte del processo che si dirige anche verso il popolo. Le parole qui vanno intese come interrogatorio in vista dei giudizio. La prima domanda è se si nega che esista l’unico Padre di tutto il popolo, il Signore. La seconda è se si nega che esista l’Unico Signore, l’Unico Creatore di tutto e di tutti (Gb 31,15; 34,19; Prov 22,2; e At 17,26). Egli stabilì l’alleanza di pace e di bene con i Padri, i Patriarchi, e quando nel popolo si agisce con violenza e disprezzo (Lv 19,12-18), l’alleanza è violata, con conseguenze dirompenti per la vita del popolo stesso diventato prevaricatore (v. 2,10).

La vita del popolo santo infatti è fondata solo sulla fede dell’Unico Signore, il Padre Buono, il Creatore e remuneratore di tutti.

Il salmo responsoriale: 130,1.2,3, SFI (salmo fiducia individuale)

Con il Versetto responsorio: «Custodiscimi, Signore, nella pace» qui una composizione, i fedeli chiedono che il Signore li custodisca accanto a sé nella sua pace, come si prega nella Compieta (Sal 4,9).

Come uomo di fede profonda, che chiama a raccolta le sue facoltà per esaminarsi davanti al suo Signore nella propria pochezza, il Salmista raggiunge qui le note di filialità e di abbandono in Dio, per cui si trova ad essere uno dei “piccoli” del Signore. E poiché il Signore ama i suoi piccoli, e glielo manifesta, l’Orante si sente molto amato.

Così può dichiarare di avere il cuore, ossia la mente e la volontà, non travolto dalla superbia (137,6; Is 57,15). In parallelismo, i suoi occhi, il suo intendimento, non appetiscono alle grandezze (Sal 100,5; Tb 4,14), le sue vie, il suo comportamento, non furono dirette a mete umanamente grandiose (Ger 45,5; Rom 12,16), a raggiungere progetti impossibili (Gb 42,3), Egli ha compreso le Vie di Dio per gli uomini, che portano al bene e alla sicurezza, non con i progetti superbi e non con le attuazioni ambiziose e spregiudicate che invece vede intomo a lui (v. 1).

Quando esamina se stesso, al contrario, e traccia un bilancio della sua esistenza, può concludere di essere giunto a risultati benefici. Anzitutto è riuscito a rendere umile e calma, mite e pacata la sua anima. Di più, è riuscito a restare bambino, quello appena svezzato che si affida per tutto alle braccia della madre (Mt 18,3; 1 Cor 14,20), dove trova quiete, serenità, pace, intensità di sentimenti. Questo si sente nell’anima, nella sua interiorità, nella sfera della sua esistenza. E chiara la trasposizione della madre con l’abbandono e la fiducia in Dio (v. 2).

Lo conferma il versetto che segue. È l’augurio che Israele, il popolo dell’Orante, in un certo modo diventi come lui, e riponga la sua speranza solo affidandosi al Signore, non per un momento о per una necessità che passa, bensì nell’oggi dell’esistenza, e nel domani che si presenta da vivere, e così in eterno. Qui il Salmista esprime l’altro atteggiamento, dell’implorazione umile, «dal profondo» (Sal 129), che giunge alla totale speranza (129,6). L’Orante non lo dice, ma lascia comprendere che solo presso il Signore sta la misericordia e la redenzione abbondante, per cui occorre abbandonare ogni altra illusione della vita. La sua esortazione a Israele così è piena di sentimento ben fondato (v. 3).

Esaminiamo il brano

v. l «alle folle e ai suoi discepoli»: in tutti e tre gli evangeli il discorso è indirizzato a una folla; Mt e Lc fanno menzione esplicita dei discepoli.

In realtà le parole di Gesù sono rivolte ai discepoli e alle folle solo nel primo brano (vv. 2-7), mentre i vv. 8-12 riguardano unicamente la comunità cristiana.

Il resto costituisce la invettiva contro i farisei e scribi che non suppone necessariamente la presenza della folla.

La diversità degli interlocutori: folla, discepoli, maestri della legge e farisei, la città di Gerusalemme (v. 37 ss) testimonia ulteriormente il carattere compilativo del discorso.

vv. 2-3 «cattedra di Mose»: si allude probabilmente ai particolari seggi d’onore, in pietra, che nelle sinagoghe erano riservati ai dottori della Legge.

Tali seggi venivano chiamati «cattedre di Mose», perché da essi gli scribi, impartendo al popolo le loro sentenze interpretative della Legge, continuavano in Israele l’opera del grande legislatore (cfr. Dt 17,10-11; Mal 2,7-8, la 1alett; Esr 7,10. 25; Ne 8,8-9).

Ai tempi di Gesù e di Matteo la maggior parte delle sinagoghe probabilmente non erano strutture riservate a un unico scopo. Perciò «la cattedra di Mose» deve più probabilmente essere intesa come una comune metafora che sta per l’autorità didattica e direttiva degli scribi e dei farisei nella comunità giudaica. In seguito è stata tradotta anche in forme architettoniche.

«fate e osservate quanto vi dicono» è un riconoscimento del valore del loro insegnamento; la loro dottrina è giusta e deve essere seguita e custodita.

Altro è quando poi la applicano personalmente.

L’esortazione a seguire l’insegnamento dei maestri della Legge e dei farisei, ma a dissociarsi dalla loro condotta sorprende non poco.

C’è una certa mancanza di coerenza tra questa affermazione generale e alcune interpretazioni particolari della Legge che sono discusse in Mt (cfr. 5,17-42; 12,1-14; 15,1-20; 19,1-12).

Per di più  questo discorso mette sotto processo anche l’interpretazione della Legge data dai maestri giudaici e dai farisei (vv. 4.16-23).

La posizione di Gesù nei confronti della Legge fu interpretata in modi diversi nella Chiesa apostolica, e per questa ragione la posizione della Chiesa stessa non fu chiara e salda sin dall’inizio. I due vv. assenti in Mc e Lc di indubbia provenienza giudeo-cristiana, riflettono a puntino la mentalità dei convertiti ligi alle tradizioni e agli usi giudaici e riuniti attorno all’autorità di Giacomo. E noi sappiamo che nella chiesa di Mt l’elemento giudeo-cristiano svolgeva un ruolo importante.

Anche Pietro, intervenendo al concilio di Gerusalemme (nell’anno 48-49, cfr. At 15; Gal 2,1-14) nel dibattito sulla obbligatorietà della legge mosaica, confessa: «Perché tentate Dio, volendo imporre sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati capaci di portare?».

Frequenti sono stati gli ammonimenti e i richiami profetici a scuotersi dal peccato e ritornare all’originaria fedeltà a Dio, in specie verso coloro che avrebbero dovuto guidare il popolo (cfr. I lett.).

Matteo dunque presenta il tema e la critica principale alla dirigenza della comunità giudaica: l’ipocrisia. In effetti, la letteratura giudaica del Secondo Tempio e la successiva letteratura rabbinica insistono sulla necessità di far collimare l’insegnamento con il comportamento. L’ipocrisia è un’accusa rivolta di frequente all’autorità stabilita da parte di sette e gruppi contestatori.

vv. 4-7 Segue una spiegazione in termini duri, notando sempre che Gesù non colpisce qualcuno per nome, ma denuncia una tendenza. In questi vv. sono bollati come esempio da non seguire 3 principali gruppi di azioni reprensibili:

1)    fare la legge per gli altri: sono i precetti numerosi, al limite dell’impossibilità. Gesù aveva avuto pietà delle vittime di tale angheria: «Venite a me voi tutti che faticate e vi piegate sotto un pesante fardello, e io vi libererò da quel peso (11,28).

2)    l’esibizionismo religioso: portare filatteri[2], allungare frange. Gesù non condanna espressamente tali usanze, ma solo lo spirito di ostentazione con cui venivano praticate; la loro è osservanza non obbedienza.

Non è difficile trovare paralleli nelle pratiche devozionali cristiane.

3) la popolarità cercata e gli onori ambiti: primi posti, saluti (il galateo del Medio Oriente esigeva che la prolissità del saluto fosse in proporzione alla dignità della persona, e così il tipo di saluto era un simbolo dello status).

«posti d’onore»: Il termine greco protoklisia («primo posto a tavola») significa il posto più ambito a un banchetto, accanto al padrone di casa. I «primi seggi» nella sinagoga sono i posti migliori, quelli preferiti. In entrambi i casi gli scribi e i farisei sono accusati di una eccessiva ricerca degli onori e di mettersi in mostra.

«Rabbi»: lett. «mio Signore»; è il titolo onorifico che alla fine del sec. Id.C. fu riservato in Palestina ai dottori della Legge; da esso deriva il nostro termine «rabbino».

vv. 8-12 Il brano, data la sua intonazione palesemente «cristiana », non sembra trovarsi nel suo contesto originario; è riportato qui solo dal richiamo della parola rabbi del versetto precedente.

In questa digressione Mt traccia a grandi linee la figura della Chiesa ideale.

Sono qui rigettati tre titoli scribali onorifici: maestro, padre e dottore.

«maestro»:(aramaico rabbi) nessuno si faccia chiamare maestro, lo ribadisce anche Giac 3,1;

«il Maestro»: ho Didàskalos , è uno solo, gli altri sono fratelli.

Chi nella comunità ha il dovere riconosciuto di insegnare, è solo fratello, neppure maggiore, e non fa altro che ripetere pazientemente quanto gli altri già sanno dalla fede, offrendo loro solo un ordine alle idee.

Il vero insegnamento spetta al Padre mediante il Figlio e si attua nello Spirito Santo.

«Padre»: (aramaico ‘abbà) significa chi dona la vita al figlio. Il titolo aramaico «Abbà», padre, era usato per gli anziani e anche per i defunti in segno di rispetto. Vedi il trattato rabbinico ‘Abot («detti dei Padri»). In senso «spirituale», simbolico, non significa nulla; è un abuso portare questo titolo sublime. Nessuno è «padre»  sulla terra, poiché il Padre è unico, di Gesù Cristo e dunque nostro (cfr. 6,9, la preghiera del Pater).

«dottore»: (eb. mòreh) non chiamatevi neppure professori, cattedratici (alcune trad. portano leader, precettori). Gesù torna al magistero: esiste una sola Cattedra divina, il seno del Padre, da cui insegna solo il Verbo Monogenito (Gv 1,18), l’unico Cristo» (v. 10). Chi usurpa «è un ladro che viene per uccidere e distruggere» (Gv 10,10).

«servo»: (diàkonos) chi è legittimamente delegato a queste funzioni, che per sé sarebbe un «maggiore»rispetto agli altri «minori» che hanno bisogno di lui, bene, proprio lui sia diàkonos, servo (cfr. esempio di Paolo nella 2a lett.).

Cristo venne per servire non per essere servito (Mc 10,45) e cfr. 20,26-28, la risposta alla richiesta dei figli di Zebedeo.

«chi si innalza…»: la conclusione è un ammonimento escatologico durissimo.

Il capovolgimento delle situazioni terrene, segue un cliché biblico abituale: l’inno di Anna, madre di Samuele (l sam 2,7); Giob 22,29; Prov 29,23; il Magnificat di Maria (Luca 1,48-52); Lc 14,11 e 18,14; Giac 4,6.10; l Pt 5,5-6.

Magnifico è l’inno cristologico della lettera ai Filippesi 2,5-11.

In Mt 18,4 farsi umili è tornare bambini, prima di essere corrotti dai grandi.

Le preghiere di colletta affermano entrambe la Paternità di Dio e la necessità del dono del Padre perché possiamo prestargli culto in modo degno e lodevole e procedere senza ostacoli verso le sue promesse:

Dio onnipotente e misericordioso,
tu solo puoi dare ai tuoi fedeli
il dono di servirti in modo lodevole e degno;
fa’ che camminiamo senza ostacoli verso i beni da te promessi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio ..

                                                                                     (Colletta)

O Dio, creatore e Padre di tutti,
donaci la luce del tuo Spirito,
perché nessuno di noi ardisca usurpare la tua gloria,
ma riconoscendo in ogni uomo la dignità dei tuoi figli,
non solo a parole, ma con le opere,
ci dimostriamo discepoli dell’unico Maestro
che si è fatto uomo per amore,
Gesù Cristo nostro Signore.
Egli è Dio, e vive e regna con te…

(Colletta A)

[1] – In Mt il termine ipocrisia non deve essere preso in senso troppo ristretto. In pratica esso qualifica l’atteggiamento religioso globale del fariseismo nei confronti della legge, antitetico a quell’obbedienza alla volontà divina che Gesù aveva rivelato nel discorso della montagna (5,20 «…se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei…).
[2] – Filatteri: lett. «custodie ». Sono delle borsette di cuoio contenenti frammenti di pergamena su cui erano riportati in ebraico testi biblici di particolare importanza. Tali custodie erano assicurate al braccio sinistro e alla fronte con strisce, per cui vennero chiamate in aramaico tafillin, « (strisce di) preghiera ». Questa strana usanza proveniva da un’interpretazione letterale di Dt 6,6-8 (cfr. anche Es 13,9; Dt 11,18). – frange: analoga funzione avevano «le frange di pregherà »(in eb. zizit) che ogni Israelita, in ossequio a quanto indicato in Nm 15,37-41 (anche Dt 22,12), portava ai quattro capi del mantello (in eb. tallit ). La loro particolare lunghezza era ovviamente un segno di grande devozione.

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XXXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Mt 23, 1-12
Dal Vangelo secondo  Matteo

1Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli 2dicendo: «Sulla cattedra di Mosé si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. 8Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato.

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 05 – 11 Novembre 2017
  • Tempo Ordinario XXXI
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo A
  • Salterio: sett. 3

Fonte: LaSacraBibbia.net

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