Esegesi e meditazione alle letture di domenica 13 Giugno 2021 – don Jesús GARCÍA Manuel

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Prima lettura: Ezechiele 17,22-24

Questo brano dallo stile poetico conclude un oracolo di minaccia rivolto contro il re Sedecia (598-587 a.C.), re di Giuda e di Gerusalemme, oracolo che risale probabilmente a epoca anteriore al 589 e spiega il motivo per cui il re, avendo infranto il suo patto, ha fatto

«bancarotta», totale fallimento nella sua politica. Ma di fatto la minaccia (17,1-21) si risolve in una prospettiva di salvezza: l’una e l’altra si corrispondono simmetricamente, come immagini speculari.

Parola di minaccia e parola di salvezza sono presentate tramite un’allegoria: l’immagine dell’albero. Simbolo antichissimo quello dell’albero: esso rappresenta il mondo (albero del mondo), le divinità (piante verdi sulle alture cultuali condannate dai profeti), la vita (vedi l’albero della vita in Gen 2), l’uomo stesso («albero piantato lungo corsi d’acque», Sal 1,3: Ger 17), il re (Dan 4), il potere (Gdc 9,7-13; 2 Re 14,9), ecc.

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Nella parola di salvezza, il Signore si comporta come un contadino o giardiniere: dalla cima di un albero molto vecchio (un cedro che simboleggia la dinastia di Davide) coglie un ramoscello e lo innesta su una pianta più giovane. Dio «giardiniere» è immagine del Dio creatore («piantò un giardino in Eden», Gen 2,8). L’allegoria esprime così la realtà della fine e della continuità: fine, in quanto l’antica dinastia non ci sarà più; continuità, in quanto essa sopravvivrà, anche se sotto altra forma, nel nuovo virgulto.

Il cedro si trova su di un alto monte, vale a dire — al tempo stesso — il mondo ed il colle di Sion, stagliandosi al di sopra di tutti gli altri alberi, nel senso che è più grande e nobile di tutte le altre famiglie regali del mondo (vv. 22-24).

Questo albero inoltre avrà dimensioni tali, da offrire spazio vitale («ombra») e alimento a molti altri esseri viventi (v. 23 ). È un bel tratto allegorico, che ritroveremo nel vangelo odierno, lì dove il Regno di Dio è paragonato al grande albero annunciato nella parola di salvezza del profeta Ezechiele. 

Seconda lettura: 2Corinzi 5,6-10

Questa lettura ha grande importanza riguardo all’esistenza cristiana, in quanto espone il rapporto tra questa vita temporale e la vita eterna presso Dio.

  • Lungi dal nostro Signore e Redentore, siamo come non «a casa» (v. 6). È il famoso tema di questa vita come esilio. Non siamo ancora nella nostra esistenza vera, piena, quella che ci conviene del tutto. Segno di ciò è la morte: un giorno dovremo lasciare questa dimora provvisoria e partire, metterci in viaggio per quella eterna. Questa situazione di esilio però non ci angoscia, ma la viviamo nella fiducia del Redentore (vv. 6-8).
  • Noi adesso viviamo nella fede, non nell’evidenza della visione (v.7). Il divario e la tensione tra il credere adesso e giungere allora alla visione presso Dio (v. 7) sono fondamentali sia per Paolo che per noi.

Siamo ancora in cammino verso la visione! Siamo orientati e guidati da un anelito verso la visione di Dio (v. 8). Il «vedere Dio» sarà come un abitare, un «essere a casa»: lì noi saremo completamente noi stessi, senza alcuna alienazione.

  • Finché ci troviamo in questo stato, siamo responsabili davanti al Cristo (vv. 9-10), giacché dovremo rendere conto della nostra vita vissuta nel tempo. Paolo ci mostra come azione e contemplazione sono tra loro indissociabili: proprio perché ci prepariamo alla visione finale di Dio, il nostro agire quaggiù sulla terra assume un grande Accederemo infatti alla presenza di Dio come coloro i quali avranno vissuto la loro vita sulla terra in conformità o in contrasto col Cristo.

Vangelo: Marco 4,26-34

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così

 

Esegesi

Fino al cap. 3, il vangelo di Marco mostra principalmente gli spostamenti continui di Gesù, caratterizzati dall’annuncio del regno di Dio (1,15) e dai molteplici prodigi che ne danno conferma. Questo ministero itinerante culmina con la dichiarazione di Gesù relativa ai suoi «parenti»: «Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre» (3,35).

Nel cap. 4 è come se Gesù si fermasse, e facesse il punto sulla sorte del suo annuncio accolto dai discepoli e dalla gente. Su questo tema vertono le parabole del seminatore (4,19) con relativa spiegazione ai discepoli (vv. 13-20), e due parabole del regno, che ne descrivono il misterioso dinamismo: il seme che cresce da solo (vv. 26-29) ed il grano di senape (vv. 30-34). Il vangelo odierno comprende appunto queste due ultime parabole.

  1. Nella prima parabola (contenuta soltanto nel vangelo di Marco) il significato centrale è costituito dal punto più impressionante, ossia dal contrasto tra la crescita incessante del piccolo seme nella terra e l’attesa «inerte» da parte dell’uomo. Ma occorre evidenziare due elementi: primo, attesa inattiva e ignara dell’uomo («come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa…», v. 26) non vuole inculcare apatia e disinteresse, ma sottolineare semplicemente la verità che la crescita del seme è dono di Dio, frutto della sua grazia, perciò non dipende dall’uomo; secondo, il riferimento alla mietitura (v. 29) evidenzia che, come per il seminatore è certo il tempo della raccolta , così Dio con certezza farà arrivare, alla fine del mondo, l’ora della pienezza del suo regno. L’avvenuto inizio rimanda con sicurezza da un compimento, progettato da Dio e non dall’uomo.
  2. Quanto alla seconda parabola (presente anche in Matteo e Luca), essa fa perno su di un altro sorprendente contrasto: il divario tra l’inizio estremamente minuscolo (proverbiale piccolezza del granello di senapa) la crescita enorme ed inattesa dello stesso, al punto da offrire nutrimento ed ombra anche a molti uccelli. Così come è espressa, la parabola potrebbe significare o che la sovranità di Gesù (inizialmente nascosta e limitata a pochi) si estenderà ad un orizzonte che abbraccia tutti gli uomini, oppure che l’attuale sparuto gruppo di discepoli alla fine dei tempi, per la potenza di Dio, si ingrandirà al punto da accogliere tutta quanta l’umanità. Anche qui l’accento cade sul fatto che i risultati non dipendono né dall’impegno né dalle capacità degli uomini, ma in definitiva sono frutto della potenza di Ezechiele parla dell’azione di Dio con linguaggio allegorico e Marco parla del Regno di Dio con linguaggio parabolico. L’azione di Dio può essere detta, o meglio, evocata, mediante un linguaggio che parla di inizi modesti, anzi, pressoché invisibili, ma destinati a uno sviluppo futuro rigoglioso e grandioso.

«Come rassomiglieremo il Regno di Dio? O In quale parabola lo metteremo?». Così, letteralmente, dice Mc 4,30. Ovvero, come parlare del Regno di Dio? Che linguaggio adottare per annunciare il Vangelo? Gesù utilizza un linguaggio parabolico, sapienziale, concreto, non astratto, non dogmatico, né teologico. Un linguaggio narrativo aderente al reale. Gesù parla di Dio narrando storie di re e di pescatori, di seminatori e di contadini. Un linguaggio profondamente umano, semplice, comprensibile, che attua una comunicazione aperta, inglobante e non escludente. Come noi, oggi, parliamo delle «cose del Padre»? Come far diventare buona comunicazione la buona notizia del Vangelo, se non lasciando alla Parola di Dio la sua forza di evocazione del mistero e di coinvolgimento del destinatario? Il Vangelo chiede di essere annunciato non come sapere chiuso che esprime la sapienza di chi lo predica o come dottrina che manifesta un Dio inaccessibile, ma come offerta di vita e di relazione per chi lo ascolta. Come benedizione. Altrimenti si rischia di soffocare la buona notizia con una cattiva comunicazione: annunciare il Vangelo «contro», piegarlo a precomprensioni parziali, edulcorarne le esigenze, dimenticarne la dimensione di perdono e di misericordia.

Alla luce della parabola del seminatore (cfr. Mc 4,1-20) in cui si afferma che «il seminatore semina la Parola» (Mc 4,14), si comprende che Gesù qui sta parlando dell’efficacia della Parola di Dio. Il seme seminato germoglia e completa la sua crescita senza intervento del seminatore (cfr. Mc 4,27-28). Ma di quale efficacia si tratta? Ora, l’efficacia della Parola, così spesso affermata nelle Scritture (cfr. Is 55,10-11; Eb 4,12), non va intesa in senso mondano e pensata come misurabile in termini quantitativi: la Parola di Dio è sempre «la parola della croce» (1Cor 1,18) e la sua efficacia è dello stesso ordine dell’efficacia salvifica della croce: potenza di vita celata nell’impotenza di un crocifisso. Esattamente come il Regno di Dio che è simile a un seme gettato e che deve essere sepolto nella terra per germinare. Del resto, il seme, simbolo della Parola di Dio e del Regno di Dio, non è anche segno di Cristo stesso e della sua Pasqua, della sua morte e della sua resurrezione? «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto» (Gv 12,24). Caduta nel cuore di un uomo, la Parola di Dio deve rimanervi, essere interiorizzata, ascoltata sempre di nuovo con perseveranza, deve essere fatta regnare sulle tante altre parole che distraggono dall’essenziale, fino a divenire principio di discernimento e di azione, dunque di carità, di misericordia, di perdono, di giustizia, di verità. E l’uomo che avrà coltivato così nel proprio cuore la Parola di Dio sarà da essa rigenerato e ne mostrerà l’efficacia nel suo stesso vivere, senza esibizionismi, «come, egli stesso non lo sa».

Spesso le parabole che Gesù narra sono seguite dall’incomprensione degli uditori e dalle spiegazioni che Gesù fornisce ai suoi discepoli (cfr. Mc 4,34). In effetti, il linguaggio semplice delle parabole rivela mentre cela, e richiede un’intelligenza umile e non arrogante, una sapienza, una capacità di cogliere in unità la terra di cui narrano le parabole e il cielo a cui alludono. L’intelligenza del mistero non va confusa con la conoscenza e ancor meno con l’informazione, ma si situa sul piano della sapienza. E la sapienza, etimologicamente, abbraccia in sé tanto il sapere, quanto il sapore, tanto la mente quanto il palato, tanto lo spirito quanto il corpo. Un’intelligenza capace di gratitudine è aperta al dono perché il mistero del Regno non è conquista degli intellettuali, ma dono accolto dai semplici e dai piccoli (cfr. Mt 11,25).

Commento a cura di don Jesús Manuel García