don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 29 Maggio 2022

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Di passaggio, come le nuvole

(Luca 24,46-53)

Ascensione

Alla fine avevo capito che mi aveva portato fuori da me stesso. Tre anni e mille resistenze, tre anni e la paura di perdersi. Ma alla fine aveva vinto lui, o avevo ceduto io, non lo so, ma alla fine tutta quella cosa della fede io la vedevo come un cammino di liberazione, di Esodo.

Che la vita andava liberata, ogni vita, questo sentivi chiaramente stando al suo fianco. Questo era il suo sogno su ognuno di noi. Come fossimo tutti imprigionati, come se nascere servisse solo ad individuare la massa pesante che andava rimossa, staccata, magari con dolore, ma andava tirata via. Ne andava della nostra vita. Per i malati e per i peccatori era facile, farsi liberare dico, portare via tutto quello che ingombrava, per i poveri e per i disperati non era difficile farsi liberare dal peso di una vita insostenibile…io, io invece ho fatto molta fatica ad abbandonare quello che avevo costruito e che banalmente mi bastava. Non ha avuto vita facile Cristo con me, non è facile liberare chi si sente libero, costringere al viaggio chi si crede arrivato, spingere in esodo chi sente bastare la propria terra. Così scrissi: “poi li condusse fuori…”, perché questo era ed è il suo desiderio.

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“Verso Betania”. Non ebbi il minimo dubbio, sapevo bene quello che volevo dire, che la liberazione avviene solo in un contesto di fiducia e di amicizia. Lazzaro era suo amico, per questo riuscì a liberarsi dalla morte. E Marta e Maria erano affetti sinceri, per questo furono trasfigurate dalle loro vite. Prima di credere, prima di pretendere qualsiasi liberazione, serve un luogo buono, una casa a cui tornare e legami che siano significativi e cari. Nessuno crederà mai al Risorto grazie a prediche o riflessioni, ci si fida solo del sapore buono del pane, delle lacrime degli amici, dei sorrisi e della nostalgia di chi non c’è più. Serve una Betania buona per iniziare a credere. Servono sapori di casa e di amicizia. Non basta, certo, ma trovo impossibile credere per astrazione di pensiero. Così scrissi, alla fine, che per essere liberati, bisognava passare da Betania.

E poi le mani. Non avevo parole nuove da dire, tutto era già stato scritto, le sue ultime parole erano già consegnate alla memoria e al rito, avevo bisogno di un gesto capace di piegarsi dentro l’ombra del silenzio, avevo bisogno di un gesto divino capace di abitare anche le persone più semplici, avevo bisogno di un gesto definitivo per dire che Lui, il vivente, non sceglie solo i sapienti, avevo bisogno di un gesto minimo e insieme solenne. Che tutti potessero replicare, che tutti potessero sentire come buono e promettente per la propria vita. Avevo bisogno di un gesto che non andasse spiegato. Un rito minimo e definitivo, una carezza, una benedizione. Così usai le mani. Alzate, aperte, dolci e decise. Nient’altro che mani alzate, libere dai chiodi ma ancora trafitte da una incontenibile misericordia. Come se il legno della croce fosse stato bruciato, come se la preghiera dei patriarchi trovasse in Lui l’approdo, come se il primo segno della libertà, il primo a essere “portato fuori” fosse proprio lui. Un gesto che ricordasse le carezze di Betania. Che poi, alla fine, si crede solo alle persone che benedicono le nostre miserie. Così pensai che anche Lui, alla fine, non aveva fatto altro che benedire, sempre. E alzai le sue mani in un gesto che immaginai definitivo e infinito.

Poi avevo bisogno di creare uno spazio, una distanza, perché fino a quel momento avevamo vissuto come in simbiosi, eravamo stati risucchiati da un’esperienza totalizzante, ma ora, ora era il tempo della decisione, della presa di posizione, ora lui non era a spezzare il pane con noi, ora lui non era il maestro da seguire, ora eravamo soli e in quella nostra solitudine stavamo decidendo di noi, se diventare padri benedicenti a sua immagine e somiglianza oppure archiviare ogni frammento di lui, ridurlo a ricordo buono per riempire le sere di malinconia. Così lo distanziai, dissi proprio che si distanziò da noi.  C’era anche un secondo motivo, lo distanziai da noi discepoli per evitare che qualcuno potesse credere di possederlo, per evitare i deliri di esclusività. Lo distanziai per dire che ognuno di noi deve fare i conti tra ciò che crede di lui e la Verità. Metterlo a distanza fu salvarlo da noi, lui ora era distante, potevamo dire solo qualcosa, ognuno di noi poteva parlare solo di sé stesso e di come era cambiata la vita dopo l’incontro con lui. Niente di più. Che ogni testimone confessasse senza problemi la propria distanza e il quasi niente che sapeva di lui.

Alla fine, alla fine volevo mostrare una traiettoria che riassumesse tutto e tutti. Alla fine io ci credo, ci credo davvero, che saremo ricapitolati in Lui, e così scelsi il cielo, perché lo vedo infinito, perché immediatamente pensiamo che Dio lo abiti, alla fine io volevo solo dire che tutto, proprio ogni cosa che vedo, anche i ricordi, anche il volo di un passero o lo strisciare di un lombrico, tutto approderà alla vita eterna, e così scelsi il cielo, tracciai questa traiettoria benedicente verso l’alto e la lasciai lì, alla fine, per tutti, per dire che io ci voglio davvero credere che quando Lui mi avrà portato fuori da questa vita, da questo mondo, da questa terra, che quando lui si sarà fatto incontrare nei profumi di mille Betanie, io ci credo, ci credo davvero, che tutte le distanze che mi ora fanno piangere, quelle distanze che si chiamano morte, io ci credo, ci credo davvero che tutto sarà benedetto e raccolto in un approdo. Che qui siamo solo di passaggio, come le nuvole.

Così scrissi…

“poi li condusse fuori,
verso Betania,
alzate le mani li benedisse.
Mentre li benediceva si staccava da loro
e veniva portato su,
in cielo”.


AUTORE: don Alessandro DehòSITO WEB Leggi altri commenti al Vangelo della domenica