don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 17 Luglio 2022

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Maria mi fa paura

Maria è mezza morta, come il tale che domenica scorsa giaceva ai bordi della strada. Il samaritano oggi è Gesù, lui si avvicina a Maria, lui si prende cura. Insieme sono bellissimo ma io muoio di paura. Perché io, in verità, non voglio morire.

Maria non dice una parola, Maria non si muove, sta seduta ai piedi di Gesù e ascolta, perché una sola è la cosa che conta e adesso che è come morta è libera di unificarsi con Lui. Così più rimango su queste poche righe del Vangelo e più mi convinco che Maria è il punto di arrivo, la vita senza più distrazioni, la liberazione ultima da tutte le paure. Maria è il compimento, Maria è Marta finalmente liberata da Marta. E così capisco il perché mi faccia così paura questo testo, perché nonostante tre anni di vita quasi eremitica io non riesco o non voglio liberarmi di me stesso. Io sono in ostaggio di Marta. So che devo liberarmi ma non riesco, paura di morire, bisogno di fare, o forse più semplicemente mancanza di fede. Mi fa paura arrivare a perdere tutto per diventare uno con l’Unico.

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Così ecco che Marta rimane la parte di me che non riesco a domare, Maria sorride sullo sfondo, non dice nulla e mi innervosisce, dove trova la forza di restare, di resistere ai commenti di chi dice che “non serve a nulla”? Che poi alla fine è la Marta che è in me a dare voce a quel rimprovero, sono io ad accusarmi: “Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?”. Sono io che lo dico perché questa è la mia maledizione, quello che io penso che la gente abbia in testa quando vede come vivo. Così ogni volta mi ritrovo a giustificarmi, a dire quello che faccio, a sottolineare la fatica di una vita come la mia. In verità ho solo tanta paura e non riesco a tenere a bada il senso di colpa strisciante e continuo: te ne sei andato e avevano bisogno di te, ecco quello che mi dico. Hai tradito, inutile che tu ti nasconda.

A cosa servi amico mio nella tua casa sul monte? Con tutto il bisogno che c’è, con i poveri, con le parrocchie che non hanno più preti…? In me rimbomba questa accusa, e così degli altri vedo il lavoro, le preoccupazioni, le corse, e mi sento in colpa di non essere più come loro. Guardo a Maria e mi chiedo come faccia a resistere, a semplicemente stare, guardo a Maria ma io non riesco a credere come crede lei, è una fatica mia, intima, sento che è lo spazio della mia vocazione, il territorio vero della mia nuova tentazione, la pesantezza della conversione. Come fare a credere che stare e ascoltare sia un fare che rende piena la vita?

Così al senso di colpa si aggiunge la frustrazione di sentire di non aver abbastanza fede. Imploro che la vita mi cerchi, mi interpelli, spero che qualcuno mi chieda una mano per qualsiasi cosa. E fare di tutto per non dire di “no”, perché cosa diranno di me se non li esaudisco? E comunque se nessuno mi chiede qualcosa (grande crisi questa: ma si ricordano ancora che io esisto?) ecco la moltiplicazione delle “cose da fare”, che ci sono sempre, e il lavoro fisico diventa riempitivo, e scrivere libri o sistemare la legna, poco importa il cosa, tutto serve a sottrarre spazio al Vuoto, al Nulla, all’Ascolto. Mi brucia ammetterlo: tutto serve a sottrarre spazio a Dio. Tutto serve pur di resistere aggrappati a qualsiasi aspetto della vita, per la paura di morire. Di diventare come Maria.

Marta è distratta dai molti servizi, io ad alta voce incolpo il mio essere bergamasco (ma ne sono fiero invece e poi è un alibi che regge, gente poco avvezza alla meditazione ma instancabili lavoratori) poi penso a chi si annienta davvero di lavoro, penso alle fabbriche, penso ai cantieri, penso che non dovrei più permettermi di confrontarmi con chi si ammazza di lavoro e insieme non riesco a non invidiarli, quando facevo i turni, quando in parrocchia non avevo una serata libera, quando l’estate mi travolgeva e io, come Marta, non avevo respiro, in fondo ero contento di poter incolpare qualcuno per quella situazione e intanto di non aver tempo di fermarmi, di riflettere, di pregare. Felice di non avere tempo. Un paradosso. Marta la sento vicina perché nel suo lamentarsi è felice di avere cose da fare, così può evitare di sedersi ed ascoltare. Perché è pericoloso ascoltare davvero. Perché magari Lui ti chiede di diventare Maria, di lasciare la tua vita, di non cercare alibi. Perché poi magari un giorno decidi davvero di sederti. E inizia la fatica.

Sedersi ed ascoltare, fare null’altro che stare, smettere di farsi distogliere dalle cose, saper dire di no e non aver vergogna. Ecco, la vergogna, Marta incolpa Maria e incolpa anche Gesù, ma è un meccanismo di difesa il suo. Meccanismo che anche io conosco bene: aver paura di cosa dice la gente. La paura che altri dicano che non serviamo a niente, la paura che ci trattino come quelli che sono scappati, la paura di non essere vicino a chi ha bisogno, la paura di aver lasciato la parte faticosa sulle spalle di altri, la paura di chi accusa di egoismo, la paura di chi non sa come rispondere alla domanda terribile sul “cosa fai?”, la paura di chi vorrebbe avere un lavoro capace di definirlo, la paura di non lasciare segno su questa terra, la paura di non aver resistito alle pressioni della vita, la paura di non aver preso decisioni più radicali, la paura di aver tradito la chiesa militante e impegnata che aveva nutrito la vocazione degli inizi, la paura che si fa vergogna davanti a chi si massacra di lavoro. E il bisogno di dire che anche io sono così, che anche a me piacerebbe e che sarebbe tutto più facile, che lo è stato. Che sarebbe più facile tornare indietro. Riprendere un posto da titolare. E che neanche io capisco il perché di questo Vangelo, di questa vita, e che a me Maria non piace, mi fa paura, e la chiamata di Cristo a diventare come lei mi sfianca.

Io non voglio ancora morire, io vorrei contare per qualcuno, io vorrei fare, ma non posso più. Io odio Maria perché non riesco ancora ad essere come lei. Io vorrei che questa pagina non fosse mai stata scritta per non dover ammettere che stavolta la chiamata che mi è toccata (ma che tocca tutti, vi avviso) è scomoda, scandalosa, dura, incomprensibile. Smettere di giudicare, lasciar andare le paure, liberarsi dal giudizio della gente, cambiare il modo di interpretare il mondo. Convertirsi, iniziare a credere davvero. Come Marta mi ribello ancora e mi chiedo se mai sarò capace di sedermi, un giorno, e di smettere tutto per mettermi in mano Sua.

AUTORE: don Alessandro Dehò

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