p. Raniero Cantalamessa – Commento al Vangelo per domenica 18 Ottobre 2020

Il Vangelo di oggi termina con una di quelle frasi lapidarie di Gesù che hanno lasciato un segno profondo nella storia:

“Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” .

Ma che cosa ha provocato questa dichiarazione? Un giorno due gruppi politici in lotta tra di loro ma uniti contro Gesù – i farisei e gli erodiani- mandano una specie delegazione a chiedere a Cristo: “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Il Vangelo nota che volevano coglierlo in fallo e Gesù, che lo ha capito, risponde: ”Ipocriti, perché mi tentate?”.
Dove si nascondeva il trabocchetto? Proprio nella composizione della delegazione. I farisei erano dei nazionalisti, segretamente ostili al potere romano; gli erodiani, cioè del partito di Erode, al contrario, erano dei collaborazionisti e appoggiavano il potere romano. Se dunque Gesù risponde “Sì, è lecito pagare il tributo”, si alienerà le folle ostili all’occupazione straniera e si ritroverà isolato; se risponderà “No, non è lecito pagare il tributo”, gli erodiani potranno accusarlo presso il procuratore romano di incitare alla ribellione.
Gesù manda all’aria il loro piano con una risposta che taglia il nodo e pone il problema a un livello infinitamente più profondo e universale. Non più: o Cesare o Dio, ma: e l’uno e l’altro, ognuno nel suo piano. Facendo tirare fuori di tasca ai suoi interlocutori una moneta con l’immagine di Cesare, Gesù li costringe ad ammettere implicitamente che anch’essi usano la moneta romana come mezzo di scambio e si avvantaggiano perciò di qualcosa che viene dal potere imperiale.

È l’inizio della separazione tra religione e politica, fino ad allora inscindibili presso tutti i popoli e i regimi. Gli ebrei erano abituati a concepire il futuro regno di Dio instaurato dal Messia come una teocrazia, cioè come un governo diretto di Dio su tutta la terra tramite il suo popolo. Ora invece la parola di Cristo rivela un regno di Dio che è in questo mondo, ma non è di questo mondo, che cammina su una lunghezza d’onda diversa e che può perciò coesistere con qualsiasi altro regime, sia esso di tipo sacrale che “laico”.
Si rivelano così due tipi qualitativamente diversi di sovranità di Dio sul mondo: la sovranità spirituale che costituisce il regno di Dio e che egli esercita direttamente in Cristo, e la sovranità temporale o politica che Dio esercita indirettamente, affidandola alla libera scelta delle persone e al gioco delle cause seconde.
Cesare e Dio non sono però messi sullo stesso piano, perché anche Cesare dipende da Dio e deve rendere conto a lui. Nella Scrittura si legge questo ammonimento ai sovrani e ai re, che vale naturalmente anche per gli uomini politici di oggi:

“Ascoltate, o re: la vostra sovranità proviene dal Signore,
il quale esaminerà le vostre opere…
Sui potenti sovrasta un’indagine rigorosa” (Sapienza 6 1 ss.).

“Date a Cesare quello che è di Cesare” significa dunque: “Date a Cesare quello che Dio stesso vuole che sia dato a Cesare”. È Dio il sovrano ultimo di tutti, Cesare compreso. Noi non siamo divisi tra due appartenenze; non siamo costretti a servire “due padroni”. Il cristiano è libero di obbedire allo stato, ma anche di resistere allo stato quando questo si mette contro Dio e la sua legge. In questo caso non vale invocare il principio dell’ordine ricevuto dai superiori, come hanno fatto in tribunale i responsabili di certi crimini di guerra. Prima che agli uomini, occorre infatti obbedire a Dio e alla propria coscienza. Non si può dare a Cesare l’anima che è di Dio.
Il primo a tirare le conclusioni pratiche di questo insegnamento di Cristo, è stato san Paolo. Egli scrive:

“Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio… Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio…Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio” (Romani 13, 1 ss.).

È da notare che l’Apostolo inculca questo lealismo non verso uno stato cristiano che favorisce la Chiesa, ma verso un potere pagano che la perseguita a morte. Pagare lealmente le tasse per un cristiano (ma penso anche per ogni persona onesta) è un dovere di giustizia e quindi un obbligo di coscienza. Garantendo l’ordine, il commercio e tutta una serie di altri servizi, lo stato dà al cittadino qualcosa per il quale ha diritto a una contropartita, proprio per poter continuare a rendere questi stessi servizi.
L’evasione fiscale, quando raggiunge certe proporzioni -ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica-, è un peccato mortale, al pari di ogni altro furto grave. È un furto fatto non allo “stato”, cioè a nessuno, ma alla comunità, cioè a tutti. Questo suppone naturalmente che anche lo stato sia giusto ed equo nell’imporre le sue tasse.

È interessante accennare come si svilupparono, sul piano storico, i rapporti tra i cristiani e la politica nei primi secoli. All’inizio, per circa tre secoli, i cristiani non presero alcuna parte attiva nella politica. Un po’ perché il loro interesse maggiore era concentrato nel costruire il regno di Dio, ma soprattutto perché lo stato non lo permetteva; erano fuori legge, perseguitati dall’impero. Vivevano in diaspora. Uno scrittore di quel periodo diceva: “Quello che è l’anima nel corpo, sono cristiani nel mondo. L’anima è disseminata (in diaspora!) in tutte le membra del corpo, i cristiani lo sono in tutte le città del mondo. Sono nel mondo, ma non sono del mondo” (Lettera a Diogneto).
Poi, nel 313, con il famoso editto di Costantino, i cristiani divennero non solo tollerati, ma in breve tempo anche detentori del potere. L’impero divenne cristiano. Questo comportò certo immensi benefici: libertà di culto, possibilità nuove di evangelizzazione, risanamento morale della famiglia, attenzione alle categorie più bisognose….Ma anche rischi gravi: compromessi con il mondo, intolleranza, abuso di potere, abbandono della semplicità e radicalità evangelica. Tanto che molti, per sottrarsi a questo stato di cose, cominciarono a fuggire dalle città e a rifugiarsi nel deserto, dando origine al monachesimo.
Sappiamo gli inconvenienti che nascono, a lungo andare, da un troppo stretto abbraccio tra Cesare e Dio, tra religione e politica, il discredito che ciò finisce per gettare sulla missione della Chiesa, il risentimento e gli ostacoli che crea all’evangelizzazione e alla riconciliazione degli animi.

Ora siamo tornati, in certo senso, nella situazione dei primi cristiani. Una situazione di diaspora in cui i cristiani sono disseminati in tutte le varie realtà e componenti politiche della società, con la possibilità di essere così, in modo diverso, più umile ma forse non meno efficace, “sale della terra” e “lievito del mondo”.
In questa situazione, la collaborazione dei cristiani alla costruzione di una società giusta e pacifica avviene soprattutto intorno a dei valori comuni, quali la famiglia, la difesa della vita, la solidarietà con i più poveri, la pace.
Ma c’è anche un altro ambito in cui i cristiani dovrebbero dare un contributo più incisivo alla politica. Non riguarda tanto i contenuti quanto i metodi, lo stile. Occorre svelenire il clima di perpetuo litigio, riportare nei rapporti sociali un maggiore rispetto, compostezza e dignità. Rispetto del prossimo, mitezza, umiltà: sono tratti che un discepolo di Cristo deve portare in tutte le cose, anche in politica. È indegno di un cristiano abbandonarsi a insulti, sarcasmo, scendere a risse con gli avversari. (Se, come diceva Gesù, chi dice al fratello ”stupido!”, è già reo della Geenna, che ne sarà di molti uomini politici?).
La grandezza di un uomo politico si misura soprattutto dalla sua capacità di far passare in second’ordine i propri interessi privati rispetto al bene pubblico. (Si chiamano “politici” perché sono a servizio della polis, dello stato, non della famiglia e neppure del partito). Che posto possono avere il problema dei milioni di disoccupati e tutti gli altri gravi problemi dei cittadini, nel cuore di uomini politici costantemente impegnati a difendere se stessi e a polemizzare dalle pagine dei giornali, su questioni sempre più o meno personali?
Ci sono, è vero, delle bellissime eccezioni, sia tra i cattolici che tra i cosiddetti “laici”; ma sono troppo poche. La colpa però è anche nostra. Non preghiamo abbastanza per i nostri uomini di governo. Ci limitiamo a criticarli e questo non cambia niente. Scriveva san Paolo al suo discepolo:

“Ti raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità” (1 Timoteo 2, 1s.).

Lo facciamo noi? Non è solo con il voto che un cristiano può contribuire al risanamento della vita politica, ma anche con la preghiera.

Fonte: il sito di p. Raniero


Fonte della fotografia: https://www.incamm.com/2019/12/padre-raniero-cantalamessa-prima.html

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