don Alessandro Dehò – Poesia al Vangelo del 16 Agosto 2020

Un grido gridato per amore

Bisogna solo aver pazienza, e tanta fede, purtroppo c’è ancora troppa resistenza, resistono le antiche barricate e qualcuno, con ingenua pericolosità, ne costruisce di nuove, eppure cadrà, è già caduta, ma quando ce ne accorgeremo davvero, quando la accoglieremo con gratitudine sarà tutto diverso, ci vuole tanta fede e tanta pazienza ma finalmente arriverà il giorno in cui riusciremo a scegliere di abitare il mondo, di vivere la fede come stranieri in terra straniera, senza rancore, con gratitudine, con tutta la necessaria umiltà, con il crollo delle pretese che l’essere stranieri comporta, camminando in punta di piedi e stando attenti a non urtare l’altrui sensibilità. Solo così potrà rifiorire la vita. Solo così il Vangelo potrà risintonizzarsi al mondo.

Ma ci fanno paura gli stranieri, figurarsi arrivare a comprendere che solo loro possono convertirci…

Fino a quando ci sentiremo “padroni a casa nostra” fino a quando difenderemo ogni forma delle antiche tradizioni, fino a quando crederemo che il futuro passi per una traduzione nuova del lezionario… non ci sarà la fede della pagina evangelica di oggi.

Solo quando riusciremo a convertirci in madri straniere affamate di vita e smetteremo di  rincorrere il maestro cercando di zittire chi importuna il nostro silenzio noi scopriremo la forza risanatrice dell’Incontro.

La donna Cananea non solo è straniera ma è straniera in terra straniera. Come Gesù. Occorre andare sinceramente lì, in un luogo dove ognuno è costretto a convertire il proprio sguardo, le proprie convinzioni. La terra straniera converte anche Gesù.

In terra straniera ci si deve spogliare di tutto, non c’è più nulla di scontato. In terra straniera, al crollo delle consuetudini, cosa rimane? Un grido gridato per amore.

Sfido chiunque a trovare oggi, nelle nostre comunità, dei pianti materni per le sofferenze altrui. Ci siamo incartati, stiamo bruciando un sacco di energie solo per conservarci in vita, quando la logica del seme dice esattamente il contrario. Cosa mi importa delle strutture del passato se non sanno più intercettare e farsi convertire dall’urgenza della vita? Cosa mi importa di voler conservare a tutti i costi le forme di un cristianesimo di appartenenza (penso alle processioni ma, in egual modo, a quelle esperienze che si definiscono “progressiste” ed ecumeniche che non riescono proprio a morire lasciandoci in pace)? Cosa mi importa di veder cambiare il volto della parrocchia? Cosa mi importa di partecipare a riunioni infinite che puntano solo a una riorganizzazione territoriale per non perdere posizione come se si trattasse di una guerra? Cosa mi importa di dover per forza colonizzare l’estate per non perdere il diritto acquisito in anni di “volontariato”? Cosa mi importa di una chiesa non solo che non ascolta più il grido gridato per amore dagli uomini e dalle donne che stanno cercano un modo per vivere il più degnamente possibile ma, e questo è quello che mi preme di più, cosa me ne faccio di una chiesa che moltiplica le strategie di sopravvivenza pur di non diventare come la madre cananea, pur di soffocare l’umiliante grido gridato per amore che dice: “Signore, aiutami!” E nient’altro.

Perché moltiplicare le forze per ribadire la nostra legittimità in questo mondo e non preoccuparsi affatto del silenzio, dell’incapacità di gridare il nostro essere bisognosi di essere salvati? Come si declina oggi il grido della donna Cananea? Perché non riusciamo ad aggrapparci con forza a quel “pietà di me, Signore, figlio di Davide!”? Pietà di noi perché siamo poveri martiri impauriti e smarriti. Pietà dei tuoi preti che non trovano ancora il coraggio di gridare il bisogno di essere amati. Pietà delle tue comunità così aggrovigliate sulle loro paure. Pietà per il nostro colonialismo culturale, per la nostra incapacità di riconoscere il vangelo, più vivo che mai, dentro forme e modalità che non capiamo, che ci mettono in discussione che, semplicemente, ci chiedono conversione.

“Mia figlia è molto tormentata da un demonio”, perché non riusciamo a trovare nuove traduzioni per questa frase che è una porta aperta su un modo nuovo di stare al mondo? Dare voce alla preoccupazione di sentirci svuotati e posseduti e usati e resi schiavi da qualcosa che magari osiamo pure definire amore ma che non è, perché non libera più?

Non è facile convertire le proprie attese, non è stato facile neppure per Gesù. Questa pagina è coraggiosa. Come se Gesù avesse paura di arrivare fino a una visione così straniera e liberante della vita. Gesù sta in silenzio, non rivolge alla donna nessuna parola, come se non ne avesse, come se non comprendesse la grammatica di questa richiesta. Come se fosse spaesato. Silenzio. Come per ricordarsi di essere straniero in terra straniera.

E poi sembra spaventarsi, i suoi discepoli, così duri nella comprensione della fede, alla visione di quella madre bisognosa di vita, “si avvicinarono e lo implorarono”, la donna straniera converte pure i discepoli! Il grido d’amore converte più di una catechesi.

E Gesù però le spiega che è sempre stato così, che da che mondo è mondo la conversione passa attraverso l’elezione divina che sceglie un popolo per convertire, poi, il mondo intero. Ma qui eletta è la donna. Eletta è la madre. Elezione divina è gridare d’amore per un altro. Questo apre i confini.

E lei poi è bella, la madre dico, è bella perché sa tenere insieme due estremi che la rendono irresistibile: grida sì, ma senza pretesa. Grida il suo amore e si accontenta delle briciole.

Io non so ma credo che la conversione passi forzatamente da qui: imparare a gridare il nostro bisogno d’amore, ma da stranieri in terra straniera, che sanno di non poter pretendere, e che sanno ringraziare per ogni briciola di vita caduta a terra.

Come ringrazia un cane quando ritorni, quando ti accorgi di lui, lui che non ha vergogna di mostrarti che è contento di avere bisogno di te.


AUTORE: don Alessandro Dehò
FONTE: Sito personale
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