Storie di amore e di riconoscimento, queste sono quelle che la prima lettura e il Vangelo della II domenica del Tempo Ordinario ci raccontano. E come in ogni storia d’amore c’è ricerca, scoperta, sguardo, voce, fiducia, passaggio.
Sono ingredienti di base che ritroviamo sempre e ritroviamo anche ora in Samuele, in Giovanni e nei suoi due discepoli, in Andrea, in Pietro, e sì, decisamente anche in Gesù. È significativo che ad aprirci la porta del Tempo Ordinario siano queste chiavi di accesso: rendono autenticamente umana anche la nostra storia con Dio, rendono la nostra relazione con lui una relazione incarnata. Perché in fondo che cos’è il Tempo Ordinario se non un’ordinaria riscoperta di una straordinaria autentica relazione?
Rileggere l’esperienza di Samuele, lasciarsi interpellare dal mettersi in discussione di Eli non possono lasciarci indifferenti. Siamo in un momento, dicono le Scritture, in cui le visioni non erano frequenti e la parola del Signore era rara. L’arca c’è, quindi Dio c’è. Ma è come se nessuno riuscisse più a sentirne la voce, ad ascoltarne il cuore, a sintonizzarsi sulle stesse onde. Eppure Eli, proprio nella notte e nel sonno, comprende che sta succedendo qualcosa… che Dio è all’opera, che qualcosa di nuovo sta accadendo. E pur senza sapere come e dove condurrà quella voce apre a Samuele nuovi orizzonti, gli insegna ad aprirsi all’indeterminato di Dio.
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Esattamente come farà Giovanni, uomo e profeta dallo sguardo penetrante che sa indicare ai propri discepoli chi è il maestro. Quello con la M maiuscola. O meglio, in questo preciso brano evangelico, chi è l’Agnello di Dio. E quest’attributo, che per noi è ovvio e scontato, questo riconoscimento da parte di Giovanni Battista in realtà apre un mondo.
Quel Verbo fatto carne, quel Dio fatto uomo, si è fatto talmente carne da diventare, fuori da ogni poesia, carne da macello. Giovanni e i suoi discepoli erano Ebrei, cresciuti alla scuola della Torah, impregnati dell’attesa del Messia. L’immagine dell’agnello rimandava direttamente all’agnello immolato e significava una e una sola cosa: la Pasqua, la liberazione, l’uscita dalla schiavitù, la salvezza, il riscoprirsi popolo amato, ascoltato e salvato.
L’agnello significava alleanza e fedeltà. Ma anche sacrificio, immolazione. È il sangue dell’agnello sugli stipiti di ogni porta a fare da scudo nella notte della liberazione, a permettere a famiglie in fuga di nutrirsi per affrontare un’altra lunghissima notte. Quella della liberazione, ma anche quella dei quarant’anni nel deserto…
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A loro, a quei discepoli che di tutto questo erano impastati fin dal grembo materno, il Battista indica il nuovo agnello, quello che ancora una volta avrebbe liberato, e questa volta per sempre, quello che ancora una volta avrebbe radunato famiglie di popoli per innalzarle allo status di figli, ed eredi.
Con questo riconoscimento si apre il vangelo di Giovanni. E con questa certezza si chiude: nel vangelo secondo Giovanni, infatti, Gesù viene ucciso proprio nel giorno in cui si preparano, cioè si immolano, gli agnelli per la celebrazione della Pasqua ebraica. È come se l’evangelista chiudesse il cerchio: in Gesù morto e risorto Dio stesso ci offre un nuovo e definitivo agnello, se stesso, suo figlio, la sua vita.
Per questo quel Gesù di Nazaret può cambiarci in profondità se accettiamo di seguirne le orme, di abitare la sua casa, di dimorare nella sua parola: perché lui ha amato e salvato riscattando con la sua stessa vita la nostra vita.
Vi auguro e mi auguro di incontrarlo, anche oggi, lungo i sentieri quotidiani e ordinari di ogni giorno, di sentirne la voce, di seguirlo, di decidere di restare nella sua casa.
Per gentile concessione di Sr. Mariangela, dal suo sito cantalavita.com