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Sabino Chialà – Commento al Vangelo di domenica 7 Aprile 2024

Commento al brano del Vangelo di: Gv 20, 19-31

Una comunità chiamata a rivivere

Domenica scorsa abbiamo rivissuto la Pasqua del Signore, attraverso l’esperienza delle prime destinatarie di quell’annuncio nuovo e stupefacente: tre donne, recatesi al sepolcro, hanno visto la pietra dell’ingresso del sepolcro rotolata via, un uomo in bianche vesti con un messaggio inaudito, e il luogo dove era stato deposto il corpo del loro Maestro, vuoto.

La loro reazione era stata di paura, fuga e silenzio. Nella sua redazione primitiva il vangelo secondo Marco si concludeva probabilmente in questa atmosfera (cf. Mc 16,8). Ma altro era accaduto in seguito: dopo la prima reazione, le donne avevano parlato, i discepoli si erano lasciati conquistare da quell’annuncio, altri avevano creduto. Tutto però lentamente e faticosamente.

Perché la fede richiede tempo e soprattutto richiede l’azione dello Spirito santo. Quello Spirito che il Signore Gesù infonderà ripetutamente sulla comunità disorientata, nello spazio dei quaranta giorni che precedono la sua ascensione al cielo. Il tempo della resurrezione della comunità.

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Gesù era risorto il terzo giorno. La comunità ha avuto bisogno di più tempo e soprattutto di cura. Di questa lenta resurrezione ci parlano gli episodi narrati negli ultimi capitoli dei vangeli, tra cui la vicenda di Tommaso, dalla quale questa domenica prende anche il nome: domenica “in albis” o “di Tommaso”.

Le manifestazioni del Risorto non sono dimostrazioni spettacolari di un morto che si mostra ancora vivo, ma azioni terapeutiche di un Maestro che si prende cura di una comunità morta, che è chiamata alla vita. Nella scena qui narrata, infatti, non si parla tanto del Risorto, quanto piuttosto del cammino della comunità verso la fede nel Risorto, attraverso una serie di tratti che descrivono lo stato della comunità e di azioni con cui Gesù se ne prende cura.

Il primo tratto che caratterizza la comunità è la chiusura. Il testo dice per due volte che le porte del luogo in cui si trovavano i discepoli erano chiuse (v. 19 e 26). Eppure era il primo giorno della settimana. Erano appena accaduti eventi importanti: due discepoli erano stati al sepolcro, avevano visto e uno di loro aveva anche creduto (vv. 6-8); Maria di Magdala aveva incontrato il Risorto e aveva riferito agli altri del suo incontro (vv. 11-18). Ma questo non aveva provocato alcun movimento. Il secondo tratto è quello della paura: avevano “paura dei giudei” (v. 19).

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Una paura difficile da comprendere, visto che ormai il Maestro, colui che era sentito come una minaccia, era stato tolto di mezzo. Una paura istintiva, forse, di scenari non chiaramente identificabili. Il terzo tratto è quello della gioia: “Gioirono al vedere il Signore” (v. 20). Si tratta però di una gioia effimera, che non smuove, se otto giorni dopo Gesù troverà quei discepoli ancora rinchiusi, come alla sua prima manifestazione. Infine il quarto tratto è quello di una comunità che fatica a ritrovare coesione: nella prima scena c’è il gruppo dei discepoli ma manca Tommaso, nella seconda Tommaso è presente ma non crede alla testimonianza degli altri.

Questa è la comunità alla quale il Risorto si rivela: rinchiusa, paurosa, capace di una gioia superficiale, sfilacciata. Ha poco di post-pasquale, ma si tratta di un quadro molto realistico. Lì il Risorto interviene, con azioni precise volte a fare di quella realtà la comunità del Risorto, risorta anch’essa.

Innanzitutto entra attraverso porte che sono ancora chiuse. Agisce così non per dimostrare i suoi poteri speciali, né per suggerire l’idea che il suo corpo sia ormai altro. Intende invece affermare che la forza della resurrezione agisce anche nelle nostre durezze e lentezze. Viene così il secondo momento: “Stette in mezzo a loro” (v. 19 e poi 26). Si ferma in mezzo. Non ha fretta, ma dimora in quello spazio angusto e incupito dalle nostre paure. Le abita e le condivide, come aveva fatto sulla via di Emmaus, allorché aveva provocato quel lungo racconto di delusioni e attese tradite.

Gesù libera dal basso, mai dall’alto; dal basso della condivisione, non dall’alto dell’intervento magico. E stando in mezzo alle paure dei discepoli, mostra loro i segni della sua passione e del suo amore: “Mostrò loro le mani e il fianco” (v. 20). Quindi – e siamo al terzo momento – inizia a parlare donando la pace e invitandoli a uscire: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (v. 21).

A quei discepoli preda della paura, Gesù comunica la pace, primo dono del Risorto, e li invia. Proprio loro, segregati dalla paura, sono invitati a uscire! Giunge così il quarto momento, in cui Gesù alita su loro lo Spirito: “Soffiò e disse loro: ‘Ricevete lo Spirito santo’” (v. 22). Lo Spirito, che era già stato effuso dalla croce (Gv 19,30), è qui nuovamente donato e si trasforma in fonte di comunione, mediante il perdono dei peccati: “Coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (v. 23).

La storia avrebbe dovuto concludersi qui. Ma il racconto prosegue con un’aggiunta dissonante: la vicenda di Tommaso, che è “gemello” di ciascuno di noi. Attraverso di lui è narrata la nostra fatica a credere nel Risorto, e attraverso di lui anche la cura che Gesù usa nei confronti della nostra incredulità.

Innanzitutto egli ritorna in quella comunità, per un atto di condiscendenza, trovando una situazione non molto diversa dalla volta precedente, come se quel primo passaggio fosse stato inutile. Unica novità è che ora Tommaso è presente, benché distaccato dagli altri.

Gesù lo ascolta e si fa prossimo anche a lui e ai suoi dubbi. Ne riprende le recriminazioni non per rinfacciargli la sua incredulità, ma per aiutarlo a comprenderne la portata, a ripensare a quei possessivi che egli ripete: “il mio dito”, la “mia mano”. Gesù li riprende, coniugandoli con altri possessivi: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco” (v. 27).

È come se gli dicesse: smetti di guardare te stesso! Lascia perdere la “tua” mano e guarda le “mie” mani! Lascia perdere il “tuo” dito e guarda il “mio” fianco! Abbandona le tue pretese e guarda i segni dell’amore! I segni che ti hanno salvato, facendo di te un discepolo. Gesù tenta di rompere il cerchio autoreferenziale che avvolge Tommaso, che gli impedisce la comunione con gli altri, alla cui testimonianza si rifiuta di credere, e con il Signore risorto.

Guardare non a se stessi ma al Signore è la via che il Risorto indica a Tommaso per ritrovare la fede, e anche la via per ritrovare la comunione con i suoi fratelli. È la via per superare ogni divisione, che è sempre effetto di mancanza di fede, ancora per noi oggi: la comunione non ha bisogno di strategie, accordi o compromessi, ma di riorientare lo sguardo al Cristo risorto, distogliendolo da se stessi e dalle proprie pretese.

Al termine del racconto Tommaso utilizza ancora gli aggettivi possessivi, ma in modo nuovo. Li usa per riconoscere la sua relazione con il Signore risorto: “Mio Signore e mio Dio” (v. 28). In un medesimo istante, rinasce alla fede nel Risorto e alla comunione con i fratelli e le sorelle.

Per gentile concessione del Monastero di Bose

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