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Commento al Vangelo di domenica 19 Luglio 2020 – Comunità di Pulsano

Domenica “della parabola della zizania”

Continuiamo la lettura del discorso parabolico di Gesù nell’evangelo secondo Matteo. Dopo la parabola del seminatore e la sua spiegazione, eccone un’altra riguardante sempre la semina. Ma se nella prima l’accento cadeva sui diversi terreni nei quali cadeva il buon grano, qui invece l’attenzione va all’oggetto della semina: buon seme o cattivo seme.

Nella narrazione il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo ma mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Così accade nella vita degli uomini e nella storia del mondo. C’è una semina di grano buono, che viene fatta di giorno dal contadino nel suo campo per ottenere frutto, un frutto abbondante e buono. A volte però accade che qualcuno faccia un’altra semina: la fa di notte, di nascosto, perché sa di compiere un’azione malefica. Egli semina zizzania, erba che non dà frutto ma sfrutta il terreno e finisce per soffocare il buon seme. Così, a un certo momento della crescita del grano, appare anche quest’erba infestante. Allora il campo non è più una speranza di buon raccolto, ma appare minacciato, sicché il faticoso lavoro non darà il frutto previsto. Questa scoperta sorprende e rattrista il contadino: Come mai? Perché? Sono domande che riguardano il male presente accanto al bene. A un certo punto della nostra esistenza anche noi scopriamo la presenza del male: chi lo ha introdotto in noi e intorno a noi? È un’esperienza anche dolorosa, che richiede un discernimento su di noi e sulla nostra vita: abbiamo accolto la parola di Dio, l’abbiamo meditata e custodita, abbiamo anche tentato di realizzarla (cf. Mt 13,22-23), ma ecco apparire il male come opera delle nostre mani.

È anche l’esperienza della comunità cristiana, della chiesa poiché di essa fanno parte forti e deboli, giusti e peccatori, fedeli e infedeli. Non è stata così anche la piccola comunità di Gesù? Al suo interno vi è chi ha tradito, chi ha rinnegato, chi era pauroso e vile, chi è fuggito. Una chiesa di «puri», una chiesa settaria: è la tentazione ricorrente di ogni comunità animata da un grande desiderio di perfezione. Già ai tempi di Gesù, Giacomo e Giovanni avrebbero voluto far discendere un fuoco dal cielo per distruggere i  samaritani inospitali (Lc 9,54). Nella parabola della zizzania emerge un atteggiamento analogo: «Vuoi che andiamo a strapparla via?». «No, dice Gesù, perché non succeda che sradichiate con essa anche il grano…». Il padrone del campo, dunque, si preoccupa soprattutto della salvezza del grano: si oppone all’iniziativa dei suoi servi perché vuol dare al buon seme tutte le possibilità di crescere. Essi sono colpiti dall’abbondanza della zizzania, mentre lui vede in primo luogo le promesse del grano. Quaggiù, nessuno può avanzare la pretesa manichea di classificare tutte le cose in due categorie ben distinte: bene e male, verità ed errore. L’eresia stessa può portare in sé una parte di verità e la buona dottrina può contenere qualche errore. Si può sentire la presenza dell’angelo e nello stesso tempo subodorare quella del demonio.

Con le sue ambiguità e il suo carattere composito, la situazione presente è il campo della libertà dei cristiani, in cui si compie il difficile esercizio del discernimento. Si tratta dunque di congiungere, con un grande ottimismo spirituale, due atteggiamenti apparentemente contraddittori. La decisione: voler essere buon grano, con tutte le proprie forze, e quindi prendere le distanze dal «mondo» e dalle sue seduzioni, e la pazienza: sapere che è meglio una Chiesa che sa essere lievito nella pasta, che non teme di sporcarsi le mani lavando i panni dei suoi figli, piuttosto che una chiesa di «puri», che pretende di compiere prima del tempo una scelta fra i chiamati al regno. Se bisogna odiare i vizi, bisogna farlo amando sempre le persone. Allora il piccolo seme perduto nel campo del mondo germoglierà e crescerà a poco a poco, fino a diventare l’albero immenso, frusciante di uccelli, del regno. Solo nel Signore possiamo conoscere e crescere secondo la Sua volontà. La pagina evangelica è decisamente contro una lettura superficiale della Bibbia (dei salmi specialmente) dove alcuni potrebbero ricavare, forse, l’impressione di un Dio impaziente, che «brucia le tappe». Gli appelli alla vendetta sono assai frequenti (1 Re 18,40: «40Elia disse loro: “Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!”. Li afferrarono. Elia li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò»; Sal 82 e 108). Ma i passi più notevoli della Bibbia smentiscono questa impressione. Elia, pieno di zelo geloso, comprende, a sue spese, che Dio non sta nell’uragano o nel terremoto, ma «nel rumore di silenzio sottile» (trad. letterale), o comunemente tradotto nel soffio del vento più delicato (1 Re 19,9.13). Giacomo e Giovanni si sentono rimproverare per il loro desiderio di far cadere la folgore sui Samaritani che non accolgono Gesù (Lc 9,51.55; Mt 26,51).

La Scrittura è il libro della pazienza divina che sempre differisce il castigo del suo popolo (Es 32,7-14). I profeti parlano di collera di Dio. Ma la collera non è l’ultimo e definitivo momento della manifestazione divina: il perdono vince sempre. Dio è ricco di grazia e di fedeltà ed è sempre sollecito a ritirare le sue minacce quando Israele si incammina nuovamente sulla via della conversione (prima lettura). Chi legge dunque le situazioni come queste narrate nell’evangelo, assomiglia ai servi della parabola. i quali, vista la situazione del campo, interrogano il padrone sul grano seminato; e saputo che un nemico ha compiuto l’operazione di semina della zizzania, propongono di estirpare quest’erba infestante. Ai loro occhi tale separazione è necessaria affinché il grano possa crescere senza venire privato di sostanze vitali e di spazio. Ma il padrone ha un’altra ottica: quella della pazienza, dell’attesa paziente di un tempo in cui si possa separare l’erbaccia dal buon grano senza nuocere a quest’ultimo. Egli sa che nel desiderio di sradicare il male c’è il rischio di sradicare, o per lo meno di destabilizzare, anche il bene. Occorre da parte del padrone pazienza e da parte del grano buono un esercizio di mitezza, che accetta accanto a sé la presenza di piante cattive. Certo, verrà l’ora della mietitura, del giudizio – come Gesù chiarisce meglio nella spiegazione della parabola richiestagli dai discepoli –, e allora vi sarà la separazione, perché il pane sarà prodotto con il buon grano, mentre la zizzania sarà bruciata: ma nel frattempo c’è bisogno di attesa paziente e di mitezza. L’intransigenza, il cercare la purezza a tutti i costi, la rigidità di volere una comunità composta tutta di giusti è pericolosa, perché i confini tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia a volte non sono così netti. Questa prima parabola è un ammonimento sul nostro stile di vita ecclesiale, chiedendo quella pazienza che sa rinviare un atto legittimo anche da parte di chi ne è competente, come i mietitori, e rinviarlo all’ora che non ci appartiene, quella del giudizio. Sì, per i credenti ci sono tentazioni al male proprio quando “vedono” il bene: intolleranza, partigianeria, integralismi, militanza contro… È la tentazione del catarismo: solo puri! Poi Gesù propone un’altra piccola parabola: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo”. Qui egli richiama l’attenzione sulla piccolezza del seme di senape: una pianta dell’orto, un arbusto il cui seme è piccolissimo, minuscolo. Eppure, se è seminato nel campo, esso cresce, cresce fino a diventare una pianta con rami sui quali gli uccelli possono fare i loro nidi. L’attenzione è posta sul momento iniziale e su quello finale, e dunque il messaggio va colto nell’opposizione “il più piccolo/il più grande”. È sorprendente, in un certo senso anche scandaloso, ma è così: il regno dei cieli appartiene a realtà che non s’impongono per grandezza, quasi non si vedono, come il seme di senape. All’inizio la realtà è veramente piccola, e gli uomini non sembrano tenerne conto né avere la possibilità di apprezzarla. Eppure piccole realtà hanno inscritta dentro di loro la capacità di essere una forza, di instaurare una dinamica che si manifesta in una crescita apparentemente prodigiosa, soprattutto se si considera la piccolezza iniziale del seme. Gesù mostra di essere consapevole che quell’inizio della predicazione del Regno quasi non era osservabile, ma sa anche che ci sarà una crescita e la presenza del Regno si farà sentire quando, cresciuto come un albero, offrirà i suoi rami alle genti, ai non ebrei, ai pagani, perché anch’essi possano dimorare sui rami del Regno. E si faccia attenzione: la dýnamis (cf. Rm 1,16), la potenza impercettibile del seme di senape, che lo fa diventare un albero, non si identifica con i cristiani, ma con il Regno, sicché l’albero non è la chiesa ma il Regno. E ancora, non è l’albero che dà la forza al seme, ma è il seme che con la sua forza si sviluppa in albero! Così accade per il regno dei cieli: nell’oggi dei credenti appare sempre una realtà piccola, ma nel futuro sarà manifestata la sua grandezza. Il discepolo deve guardare al contrasto tra l’oggi e il futuro, ma deve anche capire che il futuro dipende proprio dalla piccolezza dell’oggi. La parabola è dunque rivelazione, alza il velo sulla vicenda del Regno e dichiara che i criteri di grandezza e dell’apparire, criteri mondani, non devono essere applicati alla storia del regno di Dio: la forza del Regno non va confusa con il fascino della grandezza, declinabile volta per volta come numero, prestigio, potere. Nella stessa prospettiva segue la parabola, o meglio la similitudine del lievito, tesa nuovamente a mostrare il rapporto piccolo/grande: un pizzico di lievito fa gonfiare “tre misure”, cioè circa quaranta chilogrammi di pasta! Nelle lettere paoline c’è un’immagine negativa del lievito (cf. 1Cor 5,6-8; Gal 5,9), ma qui la similitudine rovescia, capovolge tale concezione, e così l’attenzione del discepolo è catturata ancor più efficacemente: anche il bene è contagioso, non solo il male. D’altra parte, se nella parabola precedente l’albero cresciuto a partire dal seme era visibile, qui il lievito scompare nella farina, quasi a dire che quella forza entrata nella pasta la fa lievitare proprio scomparendo in essa. Conosciamo bene questa immagine, sovente citata anche nelle omelie e nella catechesi, ma occorre essere vigilanti e intelligenti: non si ceda alla facile metafora dei cristiani come lievito del mondo, perché il lievito è il Regno, è lui la forza che fa fermentare il mondo, non i cristiani. Questi non sono né il lievito né la pasta, ma sono quelli che il lievito ha già fatto fermentare per essere “pane cotto”, spezzato per il mondo e offerto al Signore.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 53,6.8

Ecco, Dio viene in mio aiuto,

il Signore sostiene l’anima mia.

A te con gioia offrirò sacrifici

e loderò il tuo nome, Signore, perché sei buono.

Nell’antifona d’Ingresso (Sal 53,6.8, SI) con l’Orante i fedeli all’inizio della celebrazione riconoscono che il loro unico aiuto sta nel Signore (Sal 117,7), sempre operante, che li accoglie sempre e li difende (v. 6). Perciò con animo devoto vogliono offrirgli il sacrificio divino, e confessare al mondo il Nome suo, nel quale si trova l’unico bene (51,11), poiché è l’unico Nome che salva (v. 8).

Canto all’Evangelo Cf Mt 11,25

Alleluia, alleluia.

Ti rendo lode, Padre,

Signore del cielo e della terra,

perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.

Alleluia.

L’alleluia all’Evangelo è Mt 11,25, adattato e già usato all’Evangelo della Domenica XIV. È la benedizione del Figlio al Padre per aver rivelato i Misteri del Regno solo ai piccoli. Il testo ovviamente va riletto nel contesto della pericope evangelica: la parabola del seminatore (letta domenica scorsa) introduce il discorso centrale dell’evangelo di Matteo, mettendo in evidenza il tema della rivelazione dei misteri del Regno dei cieli (cfr. Mt 13,11), ovvero la presentazione della realtà nascosta dell’intervento divino in Gesù di Nazaret e la dinamica storica della sua crescita. Le tre parabole che seguono, infatti, sono abitualmente chiamate «parabole della crescita», in quanto presentano il mistero del Regno con immagini che presentano fenomeni naturali di crescita; tuttavia l’elemento che caratterizza le parabole di questa domenica è il contrasto. L’alleluia all’Evangelo richiama l’intermezzo redazionale (vv. 34-35) che può diventare la chiave di lettura di tutta la costruzione:

  1. viene dunque sottolineato che l’uditorio è la folla;
  2. che con essa Gesù non usa altro mezzo comunicativo che non sia parabolico;
  3. tale metodo trova riscontro in un versetto di un salmo [Sal 77 (78),2] che Matteo cita come detto profetico, per sottolinearne il valore di parola ispirata e relativa al Cristo.

Prosegue il paradosso di una salvezza nascosta agli scribi e ai farisei, ma rivelata agli umili che seguono Gesù, il Figlio eterno del Padre. L’intento di queste parabole è dunque una rivelazione e i destinatari privilegiati sono i discepoli: al v. 36a, infatti, la scena cambia, Gesù lascia la folla e si ritira in casa, solo con i suoi discepoli e a loro in privato «spiega». Il contrasto che noteremo nei racconti parabolici è già presente nella cornice narrativa che inquadra l’evento storico di Gesù.

Nel grande «discorso di parabole», dopo quella del seme della Parola, viene la parabola relativa al seme buono ed alla zizania, intervallata da altre due, del granello di senape e del lievito. Per la struttura e il contesto del brano evangelico si veda la Dom. XV. Tuttavia la seconda parte del «giorno delle parabole» di Matteo è una combinazione di materiale tratto da Marco, dalla speciale tradizione matteana e dallo stesso Matteo: la parabola del grano e della zizzania (13,24-30), la parabola del seme di senape (13,31-32), la parabola del lievito (13,33), i motivi per cui Gesù parla in parabole (13,34-35), la spiegazione della parabola del grano e della zizzania (13,36-43), la parabola del tesoro nascosto (13,44) e della perla (13,45-46), la parabola della rete da pesca (13,47-50), e la parabola del padrone di casa (13,51-52). Matteo ha utilizzato Marco per 13,31-32.34-35. Probabilmente ha composto personalmente le due spiegazioni (13,36-43.49-50). Il resto (13,24-30.33.44-48) è molto probabilmente da attribuire alla speciale tradizione che si trova solo in Matteo.

La parabola della zizania, ossia: il mistero della convivenza nel mondo dei buoni e dei cattivi. Questa parabola, di cui sarà data una esplicita interpretazione dal Signore in questo stesso «discorso» (vv. 36-43), ha per scopo principale di inculcare nei «figli del Regno» (v. 38a) la necessaria pazienza nel sopportare la presenza e la convivenza dei «figli del male» (v. 38c), e allo stesso tempo, la fede nel giudizio finale di Dio che assegnerà a ciascuno la sorte che si sarà meritata. La parabola è propria di Matteo: ad essa si avvicina in parecchi punti la parabola, propria di Marco, del seme che cresce senza che il contadino sappia come (4,26-29); ma il suo insegnamento specifico è diverso.

La lettura del libro della Sapienza ci offre un corposo contributo per inquadrare la pericope evangelica.

I lettura: Sap 12,13.16-19

Il libro della Sapienza, tardivo (tra il 50 ed il 30 a. C.) è prezioso, in quanto riflette e rilegge l’antica tradizione ebraica, e ne offre dense dottrine. Il cap. 12 esordisce con la dichiarazione che lo Spirito del Signore sta in ogni realtà, Spirito di bontà, per cui con giudizio giusto, infallibile, il Signore punisce in modo lieve, a poco a poco (vv. 1-2), dando luogo alla conversione del cuore sincera (v. 10) (v. 12). Poiché al Signore solo (Dt 32,39) stanno a cuore tutte le realtà create, di cui si cura assiduamente (6,8; 1 Pt 5,7), mostrando che tutti i suoi giudizi, ossia gli interventi operativi e soccorrevoli, sono assolutamente giusti (v. 13). Tale Giustizia proviene dalla stessa onnipotenza divina, e il Sovrano di tutto e di tutti nella sua immensità è per sua natura indulgente con tutti (cfr 11,24.27), è longanime senza limite (v. 16). Al contrario, a quanti restano increduli di fronte alla sua onnipotenza, mostra tutta la sua forza irresistibile (Es 5,2; 2 Re 18,35). Mentre a quelli che la riconoscono ma poi non seguono le sue vie, manifesta e rimprovera la loro temerarietà (v. 17). Nell’immensità della sua Potenza, pur potendo annullare chiunque, tuttavia emette giudizi miti, e il suo governo si attiene a molta moderazione. Egli guida i suoi figli con enorme rispetto, benché disponga di ogni potere su essi e su tutto (v. 18; Sal 113,10; 134,6; Dan 4,32). Così operando, ha voluto insegnare al suo popolo (Mt 5,44-45) che occorre essere giusti ed umani. Perciò si creò figli che vivano della buona speranza, la viva fede in Lui e nel giudicare e intervenire nella loro vita lascia sempre largo spazio alla conversione del cuore (v. 19; 11,24), il sincero ritorno a Lui che attende tutti.

II Salmo responsoriale: 85,5-6.9-10.15-16a, SI col Versetto responsorio (v. 5a): «Tu sei buono, Signore, e perdoni» ci fa invocare litanicamente il Signore soave e mite. L’Orante proclama al Signore e professa che Egli è per sua essenza soave e mite (v. 15; Es 34,6; Gioele 2,13; Sal 102,8; 144,8-9) e si comporta sempre con immensa misericordia verso quanti si rivolgono a Lui e Lo invocano (v. 5). Perciò ancora una volta l’Orante osa ricorrere a Lui con due suppliche epicletiche, per l’ascolto della sua preghiera insistente, a cui il Signore deve tendere i suoi orecchi (v. 6; 5,2; 129,2; 54,2-3). Per la sua soavità, il Signore è la meta di tutte le nazioni che ha creato (65,4; 64,3; Is 66,23; Zacc 14,26; Ap 15,4), e così esse verranno alla sua presenza per adorarlo e invocheranno il Nome divino per glorificarlo (v. 9). Infatti solo Lui è grande (76,14) e compie gesta mirabili (Dt 6,4; Is 37,16; 44,6-8; 45,5; 1 Cor 8,4-6) solo Lui (71,18). In nessun altro perciò le nazioni riconoscono il loro Signore (v. 10). Perciò l’Orante osa ancora supplicare il Signore con i titoli della sua Bontà: Gratificante e Tenero, Longanime e Multimisericorde (v. 15; vedi A.T., Domenica della SS. Trinità: Es 34, 4b-6. 8-9), affinché riguardi il suo fedele e mostri ancora una volta la sua misericordia infinita (v. 16; 24,19).

Esaminiamo il testo

24-30 Mentre il racconto parabolico risale sostanzialmente a Gesù di Nazaret, la spiegazione che viene dopo è considerata una creazione della comunità cristiana primitiva. La parabola si basa su una serie di contrapposizioni o antitesi tra il proprietario del campo e il suo avversario, tra il grano e la gramigna, tra il tempo presente della semina e della crescita e il tempo futuro della mietitura, tra il granaio dove finisce il grano e il fuoco dove è bruciata la zizania. Il motivo centrale del racconto sembra essere il dialogo tra il proprietario e servi, più esattamente l’impazienza di questi e l’atteggiamento paziente di quello. La parabola vuol evidenziare l’imprevidenza dei primi e la saggezza del secondo, che comprende come sia impossibile estirpare subito la zizania senza danneggiare anche il grano. Che cosa intendeva dire Gesù? Per trovare una risposta cerchiamo di ricostruire la specifica situazione della sua esistenza, nella quale collocare il racconto parabolico:

  1. Cristo aveva annunciato la venuta del regno di Dio;
  2. aveva anche compiuto i segni miracolosi che lo rendevano presente;
  3. l’ora decisiva della salvezza era risuonata nella sua attività messianica;
  4. una febbrile attesa aveva contagiato gli ascoltatori.

Secondo la parola dei profeti il messia avrebbe riunito intorno a sé una comunità di puri e di santi, dopo aver condannato i peccatori alla perdizione ultima. Un esempio è dato da Is 60,21-22: «21Il tuo popolo sarà tutto di giusti, per sempre avranno in eredità la terra, germogli delle piantagioni del Signore, lavoro delle sue mani per mostrare la sua gloria. 22Il più piccolo diventerà un migliaio, il più insignificante un’immensa nazione; io sono il Signore: a suo tempo, lo farò rapidamente». Al contrario tuttavia nessuna comunità di santi era stata da lui costituita; né egli aveva condannato al fuoco eterno i peccatori, anzi li accoglieva con misericordia, rifiutandosi di fare il giudice definitivo separatore dei buoni dai malvagi. La crisi del Battista (cfr. 11,2-6) era causata appunto da questo suo sorprendente atteggiamento; lo stesso Giovanni Battista annunciava un Messia col ventilabro in mano per pulire la sua aia, raccogliere il grano e bruciare la pula (cfr. 3,12). Di fronte invece al ministero di Gesù, mite e umile di cuore (11,29), che non spezza la canna incrinata e non spegne il lucignolo fumigante (Is 42,3 applicato a Gesù in Mt 12,20), si poneva il problema della sua messianicità e la continuata presenza dei cattivi rendeva dubbia la presenza del Regno di Dio. Questa parabola dunque risponde a tali obiezioni sommerse e con un linguaggio apocalittico presenta l’imminenza della mietitura e l’inevitabile separazione e diversità di sorte; ma tutto questo è prospettato come evento futuro, fa parte del discorso che il padrone rivolge ai servi sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’erbaccia. La separazione finale è chiaramente annunciata, ma l’attenzione è posta sul presente: «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura».

La pazienza è la nota che emerge dai contrasti fra il padrone e il nemico, il buon seme e la zizzania, la mentalità dei servitori e quella del padrone: ecco un mistero del Regno di Dio rivelato ai discepoli. L’umile presenza di Gesù, il seme della sua parola è in realtà l’intervento decisivo di Dio e la separazione è determinata dall’accoglienza o dal rifiuto di questa presenza, ma sarà palese, e drammatica, solo in futuro. La parabola di Gesù raccontata dalle prime generazioni cristiane trovò nell’ambiente ecclesiale il terreno adatto per una interpretazione di attualità, ma ancora oggi la Chiesa continua a sentire come uno scandalo la presenza al suo interno di buoni e di cattivi e corre sempre il rischio di un integralismo fanatico o di un qualunquismo disimpegnato. Gesù dovette fronteggiare dunque l’impazienza messianica dei suoi e lo fece con questa parabola, distinguendo fra il tempo presente, in cui buoni e cattivi vivono gomito a gomito nel mondo e il tempo futuro, l’ultimo, della separazione definitiva. Gesù rivela ai suoi «il mistero della pazienza», lasciando a Dio il compito del giudizio, senza dimenticare che tale giudizio sarà decisivo.

«Un’altra parabola»: con questa formula sono introdotte le tre parabole del primo gruppo (cfr. vv. 31 e 33) indirizzate alle folle, mentre le altre tre del secondo gruppo (del tesoro, della perla e della rete) che hanno per uditori i soli discepoli sono prive di ogni formula introduttiva.

«espose loro»: Dopo aver insistito all’inizio sul carattere pubblico dell’insegnamento di Gesù (vedi Mt 13,l-3a), la parte principale delle istruzioni di Gesù fino a questo punto (13,10-23) è stato un insegnamento privato ai discepoli. Dal punto di vista narrativo, il «loro» dovrebbe riferirsi ai discepoli di Gesù. Ma Mt 13,34 («Tutte queste cose Gesù disse alla folla con parabole») presuppone che il pubblico di Mt 13,24-33 sia appunto la folla.

«Il regno dei cieli è…»: con questa frase hanno inizio tutte e sei le parabole che, perciò, sono chiamate «del Regno». Naturalmente il paragone del «regno dei cieli» con una data realtà o situazione della vita di quaggiù tocca via via dei singoli aspetti della complessa realtà del Regno.

«è simile a un uomo che»: Il regno dei cieli è simile al quadro complessivo tracciato in Mt 13,24b-30, non al solo seminatore. Come in Mt 13,3b-9, il seme e il ciclo di crescita vengono usati per illustrare la natura del regno di Dio. L’espressione tipicamente matteana «il regno dei cieli» sta per «il regno di Dio».

25 «mentre tutti dormivano»: Dato che un motivo analogo si trova nella parabola del seme che cresce da solo (Mc 4,26-29), molti vedono in questa parabola di Matteo uno sviluppo o un sostituto della parabola di Marco. Le due parabole però danno ciascuna un quadro diverso del presente in attesa della pienezza del regno: crescita senza intoppi (Mc 4,26-29) e un misto di bene e di male (Mt 13,24-30).

«la zizania»: zizania è un vocabolo greco plurale che ha dato origine al nostro “zizzania”. È una graminacea i cui semi si coprono di una specie di muffa lievemente inebriante, donde il nome latino “ebriacum“.; i suoi chicchi, se misti al grano, ne rendono amara e malsana la farina. Il termine ebraico è zùn e quello aramaico zuna, che i rabbini associavano alla radice znh («commettere fornicazione») alla quale attribuivano gli eccessi sessuali nel mondo vegetale prima del diluvio. Il termine italiano più specifico è “loglio” e deriva dal latino, ma è stata la parola “zizzania” a vincere proprio sulla base dell’odierna parabola di Gesù. Si pensi all’espressione “seminare zizzania” da noi usata per definire l’opera di chi genera discordia e odio. Come in molte altre occasioni, Gesù attinge alla vita quotidiana dei suoi ascoltatori ai quali fa balenare il mistero di Dio attraverso paragoni, immagini e simboli desunti dalla loro esperienza. In questo caso rievoca un dato ben noto ai contadini: il loglio, in primavera, non si distingue dal frumento o dall’orzo; al tempo della mietitura, invece, diventa più riconoscibile perché più corto, sgraziato e senza spighe. La parabola diventa, così, facilmente trasparente. Il grano e la zizania, cioè il bene e il male, crescono insieme in un intreccio che l’uomo non è in grado di districare: è solo il Signore che lo potrà fare a suo tempo. Il bene e il male, i santi e i peccatori nella storia convivono gli uni accanto agli altri.

«Vuoi che andiamo ad estirparla»: C’è lo zelo ardente di chi vorrebbe fare giustizia da solo; non è diffìcile nello zelo di questi servi riconoscere l’attesa impaziente del giudizio escatologico, dominante in molti gruppi religiosi del giudaismo del tempo. Attesa che si faceva sentire sempre più forte alla vista del male trionfante nel «secolo» presente e spingeva i «giusti» a separarsene; tale il caso, almeno di nome, dei Farisei (= separati), tale in modo particolare il caso degli Esseni di Qumran che si erano rifugiati nel deserto e avevano intrapreso, quali «figli della luce», la loro «guerra» ai «figli delle tenebre» con il segreto intento di affrettare il «giorno» dell’ira purificatrice di Jahavè. Segni di tale impazienza non mancano né nella storia evangelica (cfr. Lc 9,54-55), né in quella della Chiesa primitiva (cfr. 2 Ts 2,2; 2 Pt 3,8-9; Ap 6,10).

Gesù, invece, invita a condividere la pazienza e l’attesa di Dio, a non essere fanatici giustizieri, invita a imparare dalla tolleranza divina che lascia al peccatore fino all’ultimo la possibilità della conversione (cfr. I lett. v. 19; Is 11,23). «C’è una tolleranza che è sinonimo di indifferenza; non è certo il caso della parabola, che parla di una tolleranza generata dall’amore» (di B. Maggioni, biblista).

«al tempo della mietitura»: La mietitura era un simbolo usuale nell’A.T. per indicare il giorno del giudizio ultimo: cfr. Is 17,4-6; 27,12; Os 6,11; Gl 4,13; ripreso anche dagli evangelisti: Mt 3,12; Mr 4,29; Ap 14,14-20.

31-32 La parabola del granello si senape, comune a tutti e tre i Sinottici, è riferita da Luca, insieme all’altra del lievito, nella sezione del «grande inciso».

Il concetto base della parabola sta nel contrasto; il grano di senape deve essere stato proverbialmente piccolo (v. 17,20), ma non è il più piccolo dei semi, nè la pianta (più propriamente un cespuglio che cresce fino all’altezza di 3-4 m) è particolarmente alta. È una parabola profetica, che rimanda a testi molto densi. Anzitutto a due parabole di Ezechiele: la prima 17,1-10 sulla deportazione di Joiachìn e l’incoronazione di Sedecia da parte di Nabucodònosor nel 597; a cui segue, dopo la spiegazione in prosa, l’annunzio della restaurazione futura relativa al Re messianico. Questi sarà come una piccola cima di cedro che il Signore pianterà e diverrà un albero imponente, in cui verranno gli uccelli a porre il loro nido, così che tutti gli alberi della foresta conosceranno il Signore, che abbatte i superbi ed innalza gli umili. La seconda (31,1-18) è simile, di segno contrario e conclusione analoga. Questa volta l’albero maestoso è il faraone re d’Egitto (sicuramente dal v. 10 in poi) che esagerando nella sua spropositata superbia fu abbattuto dal Signore per mezzo di Nabucodònosor.

Una terza parabola profetica che si può richiamare è quella di Dan 4,7-24. dove l’albero in cui vengono gli uccelli a fare il nido per la sua maestà è Nabucodònosor, anche lui abbattuto per la sua superbia. Altri esempi li troviamo nella profezia messianica di Is 10,33-11,1; Gdc 9,15; Bar 1,12.

33 Questa parabola, più domestica, si trova in Qumràn ed è narrata anche da Luca; come la parabola del grano di senapa illustra la crescita irresistibile del regno da modesti inizi. La similitudine è ripresa da Gen 18,6, dove Sara prepara il pane (impasta 3 sea di fior di farina circa 45 Kg!) per i Tre Personaggi che visitano Abramo. Il tema del lievito è ripreso diverse volte nel N.T. (cfr. Lc 13,20-21; 1 Cor 5,6; Gal 5,9), per la sua familiarità e per il suo facile significato.

«in tre misure di farina»: la quantità di farina impastata (circa 45 Kg) è esagerata per far risaltare meglio il concetto. La piccola quantità di lievito fermenta con potenza tutta la farina (leggi omelia 46. 2-3 di San Giovanni Crisostomo, vescovo).

34-35 In Marco questi versetti concludono la raccolta delle parabole, mentre Matteo pur seguendo l’ordinamento generale vi aggiunge altre parabole. Le parabole sono una forma di rivelazione, non di occultamento. Il concetto è ulteriormente sviluppato da una citazione di compimento (come ad esempio in 1,22-23). Il testo citato è indicato come parola di un profeta, mentre la fonte è il Sal 77(78),2, il cui autore è Asaf, chiamato il «profeta» che dichiara di voler comporre un mashal (un racconto, una parabola appunto), cioè un poema didattico allo scopo di narrare e spiegare l’azione misteriosa di Dio lungo il corso della storia del suo popolo: il sapiente salmista inizia la lezione chiedendo l’ascolto attento del popolo e annunciando la presentazione delle antiche vicende, eventi lontani e sepolti nella memoria. Proprio questo interessa l’evangelista: l’oggetto dell’annuncio è presentato col participio greco «kekrymména», cioè «cose nascoste» ed in queste cose Matteo vede adombrati i «misteri del Regno», rivelati ai piccoli-discepoli e tenuti nascosti agli intelligenti-farisei.

36-43 L’evangelista in questi versetti (propri di Matteo) dà alla parabola una spiegazione marcatamente allegorizzante, che fa pensare a una data di composizione posteriore e sembra rispondere ad un problema fortemente sentito nella Chiesa primitiva. Gesù lascia le folle, entra in casa e la sua parola è riservata ai discepoli. Il brano si divide in due parti: i vv. 37-39 sono una specie di arido vocabolario che identifica sette elementi della parabola; la seconda parte invece (vv. 40-43) è una sintetica descrizione di carattere apocalittico del giudizio ultimo. Matteo in tutto il suo evangelo mostra uno speciale interesse per il tema del giudizio.

La parabola della zizania, che in origine contraddiceva l’impazienza messianica del popolo e dei discepoli, diventa ora una presentazione del giudizio nel suo esito opposto di condanna e glorificazione, descritto con immagini stereotipate di marca veterotestamentaria (cfr. Dan 12,3).

Il centro di interesse viene spostato dal presente, che il racconto di Gesù intendeva come tempo di coesistenza tra buoni e malvagi, al futuro.

L’evangelista è proteso a scuotere i credenti della sua comunità dal torpore e dalla tiepidezza, invitandoli a vivere secondo la volontà del Padre espressa nel comandamento dell’amore del prossimo. L’appartenenza alla comunità non garantisce infatti la salvezza finale; l’evangelista combatte la falsa sicurezza dei cristiani che, fiduciosi negli elementi istituzionali e sacramentali della chiesa, trascurano concretamente la legge rivelata dal Signore.

Inglobate da questa «duplice» parabola, le immagini della senape e del lievito vengono poi ad aggiungere una nota particolare alla rivelazione del Regno: c’è un enorme contrasto fra il punto di partenza e quello di arrivo, cioè fra la piccolezza del seme e la grandezza dell’albero, fra la pochezza del lievito e la massa trionfante della pasta lievitata. Il mistero della crescita del Regno è segnato da questo contrasto, ovvero dalla imprevedibilità dei suoi sviluppi. Quello che i discepoli vedono è piccola cosa rispetto alle grandi aspettative; eppure è già tutto lì, come nella potenzialità del seme e del lievito, la gloria del Regno che deve manifestarsi, superiore ad ogni desiderio o attesa.

43 – «Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!»: Ed ecco finalmente la gloria dei beati. I giusti, i figli del Regno, il seme buono, brilleranno come il sole nel Regno (Dan 12,3). Essi sono trasformati dalla Luce divina increata, e la loro sorte annunciata (Sap 3,7; Pr 4,18), adesso avverata (1 Cor 15,41-42). E questa è la divinizzazione dei giusti, in uno dei suoi aspetti maggiori. La clausola finale, che ripete il v. 9 (ma anche 11,15), è: «L’avente orecchi, ascolti». Di più non è da dire se non lodare e adorare.

 

Antifona alla Comunione Sal 110,4-5

Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi:

buono è il Signore e misericordioso,

egli dà cibo a coloro che lo temono.

 

Nell’antifona alla comunione: (Sal 110,4-5a, I) ci viene ricordato che il Signore va glorificato e magnificato sempre, poiché stabilì il memoriale perenne delle sue «gesta mirabili» (Es 12,14; 13, 9). Queste proseguono nel loro effetto, essendo Egli Gratificante e Tenero (Es 34,6; A. T., Domenica della SS. Trinità). Tra queste gesta, la prima è il Cibo divino della Parola e del Convito, donato ai fedeli, i suoi timorati, che vogliono eseguire la sua Volontà, per essere con il Figlio i «figli del Regno» nella Grazia dello Spirito Santo, la Chiesa comunità di amore e seme di bene.

«La zizzania di oggi può domani trasformarsi in grano; l’eretico di oggi può diventare un fedele; chi è stato fino a questo momento un peccatore può unirsi ai giusti. Se la pazienza di Dio non venisse in aiuto alla zizzania, la Chiesa non avrebbe né l’evangelista Matteo — preso fra i pubblicani — né l’apostolo Paolo — preso fra i persecutori. Il discepolo Ananìa di cui parla il libro degli Atti cercava di strappare il buon grano quando, inviato da Dio a Saulo, accusava san Paolo dicendo: «Ho udito tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli». Il che significava: strappa la zizzania!

Perché mandare la pecora che io sono al lupo, l’uomo pio che io sono al maledetto? perché indirizzare un missionario della mia statura al persecutore? Ananìa vedeva Saulo, mentre il Signore vedeva già Paolo; Ananìa parlava del persecutore, mentre il Signore sapeva che si trattava di un missionario; l’uomo lo giudicava zizzania destinata all’inferno, mentre il Cristo vedeva in lui l’apostolo scelto da Dio, e già lo collocava nel granaio celeste».

(S. Pietro Crisologo, Sermone 97)

 

II Colletta

Ci sostenga sempre, o Padre,

la forza e la pazienza del tuo amore;

fruttifichi in noi la tua parola,

seme e lievito della tua Chiesa,

perché si ravvivi la speranza

di veder crescere l’umanità nuova,

che il Signore al suo ritorno

farà splendere come il sole nel tuo regno.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

Esegesi e meditazione alle letture di domenica 19 Luglio 2020 – don Jesús GARCÍA Manuel

Prima lettura: Sapienza 12,13.16-19

Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono.

Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.

Questo brano della Sapienza ci orienta a vedere anche l’elemento negativo della zizzania nell’orizzonte positivo della misericordia di Dio, che si specifica qui come sua «indulgenza». In questo libro, il più recente degli scritti dell’AT, si rievoca la storia dell’esodo e della conquista del Canaan, ma rileggendo, a distanza di tempo, gli antichi racconti bellici in chiave più «pacifista». In questo cambio di atteggiamento si osserva l’influsso culturale dell’ellenismo cosmopolita e fin troppo aperto alle diverse tradizioni religiose. L’autore, forzando a senso unico l’antico racconto delle spietate battaglie di Giosuè, le interpreta come un atto di indulgenza di Dio verso i cananei, che non vennero distrutti tutti imme-diatamente ma con una certa gradualità: «anche con loro, perché uomini, fosti indulgente, mandando loro le vespe come avanguardia del tuo esercito, perché li distruggessero a poco a poco… colpendoli a poco a poco, lasciavi posto al pentimento, sebbene tu non ignorassi che la loro razza era perversa» (Sap 12,8.10). Su questo esempio immediatamente precedente si basa poi la considerazione di carattere generale contenuta nella pericope liturgica, che culmina nella bella confessione di fede «ci governi con molta indulgenza» (v. 18b). E subito dopo, nel v. seguente, si sottolinea il doppio fine pedagogico di questa indulgenza divina. In primo luogo, c’è in vista l’educazione dello stesso popolo di Dio che deve imparare ad «amare gli uomini» (lett. «ad essere fìlanthropos); ma in secondo luogo c’è pure l’intenzione di provocare al pentimento (metanoia) lo stesso popolo cananeo del quale si sono ricordati prima i vizi, che rendevano impura la terra santa (Sap 12,3-6.11).

Seconda lettura: Romani 8,26-27

 

 Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.

Paolo parla qui della condizione dei cristiani, che pur godendo ancora soltanto degli inizi della redenzione, hanno tuttavia in sé il dono dello Spirito, che rende i credenti capaci di adeguare i loro desideri ai disegni di Dio. Il dono dello Spirito è il vero inizio del regno di Dio nel cuore degli uomini, di cui i credenti costituiscono una parte che anticipa il suo allargamento al resto dell’umanità. Noi stessi, come credenti, siamo consapevoli della nostra debolezza, che viene soccorsa sì dallo Spirito, ma solo attraverso i suoi «gemiti», che segnalano una situazione non ancora soddisfacente né pervenuta al suo compimento. Così ci ritroviamo nella prospettiva dell’attesa e della pazienza propria del brano evangelico.

Vangelo: Matteo 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».

  Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».

  Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

Esegesi

Questo brano evangelico è aperto e chiuso dalla parabola del grano e della zizzania, prima con la sua esposizione, e poi con la sua spiegazione aggiunta alla fine. In tutto possiamo distinguervi cinque parti.

1) Il grano e la zizzania (vv. 24-30)

Ancora una volta, come abbiamo visto per la parabola del seminatore domenica scorsa, si deve fare attenzione a quale sia il particolare più saliente attorno a cui ruota tutta la parabola. Dobbiamo escludere che si voglia mettere sullo stesso piano, a parità d’importanza, il grano e la zizzania. Questo secondo elemento negativo ha un valore secondario, in quanto serve solo a far emergere una circostanza che consiglia di attendere sino al tempo della mietitura per raggiungere in forma ottimale il fine desiderato di riporre il raccolto nel granaio. La presenza della zizzania non può ostacolare la maturazione del grano seminato nel campo.

Questa parabola è esclusiva di Mt. Il termine zizzania (plur. da zizanion) da cui deriva l’italiano «zizzania», è noto nella grecità solo dal Vangelo di Matteo, che lo usa soltanto in questa parabola. Si traduce anche con «loglio» ed è simile alla spiga di grano finché questa è verde. Usando lo stesso simbolo, Gesù dirà ancora in 15,13: «Ogni pianta che non è stata piantata dal Padre mio celeste sarà sradicata». Da parte sua Paolo inviterà a rimettersi al futuro giudizio del Signore: «Non vogliate giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1Cor 4,5).

2) Il granello di senape (vv. 31-32)

A differenza della parabola precedente, che ci potrebbe fuorviare nel dare un peso eccessivo all’aspetto negativo che può ostacolare lo sviluppo del regno di Dio nel cuore dell’umanità, questa del granello di senape presenta soltanto l’aspetto positivo di questa realtà misteriosa. Bisogna soltanto sottolineare che il dinamismo di questa crescita non è autonomo da Dio, ma dipende sempre dalla sua grazia, che lui lascia agire in modo discreto ed imprevedibile al centro della storia.

3) Il lievito (v. 33)

Questa parabola, anche se si passa dall’attività agricola all’ambiente domestico, è simile alla precedente, in quanto si parla ancora dello sviluppo del regno di Dio, che permea gradualmente la pasta dell’umanità. Ma tenendo conto che una parabola evidenzia solo un aspetto del regno di Dio, forse vale la pena di sottolineare più l’aspetto della profonda penetrazione di questo dono nella storia che non la progressione quasi scontata e naturale del suo avanzamento. Il dono di Dio deve essere sempre rinnovato, e dobbiamo avere la consapevolezza di ricominciare ogni giorno daccapo nell’accoglierlo di nuovo, senza troppe illusioni sul nostro passato che ce ne possa garantire il possesso. Che la senape diventi un grande albero è un’espressione iperbolica che rientra nello stile parabolico, mentre il riferimento agli uccelli si riferisce alla visione di Dan 4,9, dove essi rappresentano i popoli sottomessi dell’impero di Nabucodònosor. Ma qui l’immagine ha un carattere più familiare, e non politico, in quanto indica l’accoglienza generosa di cui anche i piccoli possono dar prova.

4) Perché Gesù parla in parabole (vv. 34-35)

La motivazione data qui sull’uso del discorso parabolico sembra diversa da quella, negativa, fornita sopra, nei vv. 13-15 (vedi: domenica XV). Anche se ci si rapporta ancora alla folla, in quanto distinta dai discepoli, il ricorso alle parabole non è più per nascondere la rivelazione del regno di Dio di fronte agli estranei, ma per manifestarla anche a loro, oltre che ai discepoli. Infatti si cita il Sal 78,2, dove questo passo introduce una rievocazione della storia nazionale rivolta ad Israele, invitato a saper trarre le dovute lezioni dal suo passato. Il testo del passo è un po’ trasformato, per passare da un orizzonte nazionale a quello più universale indicato con la «fondazione del mondo». In realtà gli elementi naturali che costituiscono l’ordinamento del mondo si prestano a servire, attraverso le immagini utilizzate nelle parabole, come veicolo di una verità superiore, qual è il regno di Dio rivelato da Gesù.

5) Spiegazione della parabola della zizzania (vv. 36-43)

Un esame attento di Mt 13 ci rivela un testo non omogeneo che ha avuto una sua lunga gestazione nella tradizione orale e poi nella stessa redazione di ogni evangelista. Ancora una volta, come abbiamo visto per l’altro caso della spiegazione della parabola del seminatore (vedi: domenica XV), ci troviamo di fronte ad una composizione della comunità cristiana, che attualizza per se stessa la parabola di Gesù, forzando un po’ il suo significato iniziale per adattarle alle sue condizioni più recenti. Ora si vuole raccomandare di avere pazienza con il miscuglio di buoni e cattivi che si trova a convivere nella stessa comunità cristiana o anche, per la comunità di Matteo, con i problemi derivanti dalla coesistenza della Chiesa con Israele. Così l’accento si sposta, dalla certezza dell’esito finale che sarà per volere di Dio, certamente positivo, all’esortazione morale di vivere con pazienza e indulgenza le difficoltà della vita presente.

Meditazione

La mitezza di Dio nel suo agire con gli uomini (prima lettura), mitezza narrata dal padrone del campo nella parabola della zizzania (vangelo), costituisce un elemento unificante prima lettura e vangelo.

Costitutiva dell’agire di Dio, la mitezza è essenziale anche agli uomini e all’agire ecclesiale. Essa non appare tanto come debolezza o impotenza, ma come volontà e capacità di dominare la propria forza, di governarla, di addomesticarla, di orientarla. La mitezza di Dio appare come pazienza, attesa dei tempi dell’uomo, fiducia accordata all’uomo: «Dopo i peccati, tu concedi il pentimento» (Sap 12,19). La mitezza appare ancora come non esclusione, non estirpazione, capacità di non dare giudizi ultimativi e senza scampo, ma come capacità di convivere con il negativo (parabola della zizzania). La mitezza, come capacità di mettere limiti alla propria forza, appare metodo di convivenza che si oppone alla logica della società tecnologica che ha come fine il proprio accrescimento e autopotenziamento e che ritiene ammissibile e perfino doveroso tutto ciò che è tecnicamente fattibile.

La parabola della zizzania ha una dimensione ecclesiologica. La chiesa di Matteo è un corpus mixtum, nel senso che vi fanno parte dei cristiani provenienti dal giudaismo e dal paganesimo, ma anche nel senso che in essa vi sono forti e deboli, semplici e istruiti, persone maggiormente sante e altri che più facilmente cadono preda del peccato e del vizio. E questa, in verità, è la realtà di ogni comunità cristiana. Come già del gruppo dei Do-dici riunito attorno a Gesù. Così, la chiesa appare una scuola di pazienza e un’occasione di esercizio della mitezza.

Gesù proclama «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35), e nel far questo enuncia il necessario scandalo che resterà fino alla fine del mondo: la presenza della zizzania accanto e in mezzo al buon grano; la presenza della divisione e dell’inimicizia che traversa il campo che è il mondo, ma che traversa anche le chiese, le comunità cristiane, e il cuore di ogni uomo. E accanto a questo c’è anche lo scandalo della pazienza di Dio che lascia che il male cresca insieme al bene, che l’empio prosperi accanto al giusto. Gesù non strappa la zizzania, non recide il fico improduttivo (Lc 13,8-9), non caccia Giuda dal gruppo dei Dodici, anzi, egli si inchina, si prostra davanti a colui che si è fatto suo nemico personale, si fa suo servo lavandogli i piedi, non interviene trattenendolo dal suo peccato, ma lo lascia fare, continuando a chiamarlo amico. Ed ecco che le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, cioè il segreto della storia umana agli occhi di Dio, diviene rivelazione nella croce di Cristo. Scandalo del male nella storia e scandalo della pazienza di Dio si sintetizzano nell’ingiusta morte di croce del Figlio di Dio. Ecco il mistero del Regno, le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo: la croce divina, quella croce che l’apologeta Giustino vedeva già inscritta nella creazione.

L’annuncio del giudizio, presente nella spiegazione della parabola della zizzania (Mt 13,39-43), è ancorato su una predicazione che proclama la misericordia e propugna una prassi ecclesiale quotidiana di pazienza verso i peccatori. L’orizzonte del giudizio escatologico, che incombe sul singolo credente e sulla chiesa nel suo insieme, è ciò che consente al cristiano e alla chiesa di mettere in pratica nell’oggi la pazienza che il vangelo richiede. E di lottare contro la tentazione dell’impazienza di anticipare il giudizio già nell’oggi. L’impazienza consiste nel presumere di sapere già oggi chi è il cattivo e chi il buono, qual è il grano e quale la zizzania (piante che si assomigliano molto), e nel pretendere di eliminare questa per lasciare solo quello.

Le parabole del grano di senape e del lievito (Mt 13,31-33) presentano lo sviluppo vitale straordinario che sgorga da un seme minuscolo seminato per terra (e per gli antichi il seme seminato muore) e da un po’ di lievito che, nascosto nella pasta, la fa fermentare tutta. Siamo di fronte al mistero pasquale, al mistero della morte feconda di Cristo.

Commento a cura di don Jesús Manuel García

don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020

Dovremmo averlo capito: con il Signore, nulla è davvero come sembra.

Chi non lo riterrebbe sprovveduto perché sparge semi in ogni dove? E, invece, ostinato com’è, è convinto che persino la strada possa ancora fiorire.

Perché non estirpare quell’erba che rischia di soffocare la semente buona? E, invece, paziente com’è, sa che i giochi non sono ancora fatti.

Di certo, assai discutibile il suo approccio alla botanica. D’altronde, tutta discutibile la sua stessa vicenda. Dall’inizio alla fine lo si trova là dove non avresti scommesso: si comincia con i pastori e si finisce con due malfattori. E in mezzo non è che sia diverso: lo trovi con peccatori, con pubblicani, scommette su Zaccheo, si rivela alla Samaritana, offre la sua amicizia fino alla fine a chi era animato da tutt’altre intenzioni e incassa, invece, la tristezza per quel giovane che aveva amato e che, poi, non aveva accolto il suo invito.

Forse è poco, davvero poco quel che c’è nel cuore dell’uomo, ma quel poco vale la non estirpazione del male.

La parabola del buon grano e della zizzania, perciò, parla di come Dio stia di fronte all’uomo e di fronte a quel mistero che è il suo cuore. Nel cuore di ognuno è stato seminato del buon grano. Penso alla mia, alla nostra vita che è stata corredata di ogni dono di grazia.

Quante le occasioni mediante le quali, esplicitamente, Dio stesso si è preso cura di me!

Quante le esistenze a cui non mancava proprio nulla e che sono precipitate nel baratro del vuoto, del disordine! Per tutta una serie di motivazioni, a volte sembra che il buon seme sia come impedito di germogliare e portare frutto. Qualcos’altro finisce per avere il sopravvento.

Più che essere preoccupato del grano, a Dio starà a cuore che la zizzania abbia ancora l’opportunità di trasformarsi. Fino alla fine. Egli crede, infatti, che fino all’ultimo e persino nella condizione peggiore, ci sia ancora la possibilità di portare il frutto atteso: ne è un esempio il ladrone dell’ultima ora. Per questo chiede di diventare discepoli di quello strano verbo che, immediatamente, può sembrare una debolezza mentre, invece, è il verbo delle occasioni non più attese: lasciare. Era accaduto già col fico: lascialo ancora un anno. Accade con me. Quando tutto è lì ad attestare che non si riuscirà a cavare qualcosa di buono dalla mia esistenza, egli ripete: lasciate che crescano insieme. Chissà quante volte è già accaduto e quante altre accadrà ancora! Anche Dio spera, spera che io fiorisca, spera che io mi esprima per ciò per cui sono stato pensato e voluto. Capisco, così, perché l’apostolo Paolo mi ripeta: “e non vogliate giudicare nulla prima del tempo” (1Cor 4,5).

Gli impazienti, gli sradicatori sono uomini e donne dallo sguardo ristretto. Per loro esiste solo l’attimo presente e non riescono a cogliere il prima e il dopo di ciò che sta sotto i loro occhi. Non così Dio che manifesta la sua onnipotenza soprattutto nella grazia del perdono.

Il modo di agire di Dio non è solo qualcosa da ammirare ma insegnamento: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento”. Figli di Dio, sono secondo la Parola di Dio, coloro che sono pieni di dolce speranza, coloro che concedono all’altro, come Dio, una nuova possibilità, una nuova carta da giocare.

Perché mai? Perché la linea di confine del male non passa attraverso individui o gruppi, ma passa in mezzo al cuore di ogni uomo, per cui nessuno di noi può illudersi di essere totalmente al di qua o al di là di quella linea. Quanto avremmo bisogno di diventarne sempre più consapevoli allorquando siamo attraversati da mire giustizialiste! Ci attraversa tutti il bisogno di separare, distinguere, dichiarare, condannare, protestare, giudicare. Quanto zelo religioso, forse, ma nient’affatto evangelico anima non pochi credenti! Non poche volte, infatti, proprio questa nostra irruenza nel perseguire una giustizia implacabile, finisce per nascondere dei mali segreti che ci portiamo dentro senza volerli riconoscere. Se Dio che è l’unico a poter dire con esattezza chi è frumento e chi zizzania non lo fa, quanto più noi!

Non preoccuparti, perciò, della zizzania, occupati del buon grano che è in te. Imparare a guardare tutto con l’ottica del buon grano, liberandoci dai falsi esami di coscienza che vorrebbero solo limitarsi a quantificare il male. La nostra coscienza è chiamata a scoprire prima di tutto ciò che di vitale e di promettente Dio ha seminato in noi e fare in modo che porti frutto. Il giudizio sulla nostra vita non sarà l’indagine sul male fatto, ma sul bene compiuto o omesso. Il bene possibile, d’ora in avanti, è più importante del tuo male passato o presente.


AUTORE: don Antonio Savone
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Giovani di Parola – Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020

Mai come nel precedente periodo passato in casa per via delle quarantena abbiamo sperimentato la preziosità del lievito. Tutti lo andavo a ricercare e solo pochi erano i fortunati che riuscivano a trovarlo e conservavano con cura come un tesoro prezioso.

E’ strano che un qualcosa così piccolo e poco costoso possa diventare così importante, eppure è proprio grazie al lievito che noi possiamo mettere sulle nostre tavole il buon pane profumato. Cosa è in grado di fare il lievito? Trasforma della semplice farina e acqua in un impasto che cresce e diventa morbido e fragrante.

Il lievito, il chicco di senape sono forse le cose più piccole e apparentemente insignificanti che esistono, ma grazie alla mano del seminatore e del panettiere assumono significato e sono destinati a crescere. Il regno di Dio mira a farci crescere e diventare buoni come il pane e imponenti come i rami di un albero in cui anche altri possono trovare ristoro, dobbiamo solo dare a Gesù la possibilità di farlo.


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Don Antonio Mancuso – Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020

Oggi mi piace leggere questa pagina del vangelo con la chiave di lettura della santità! Penso, infatti, che meditare queste parabole ci possa fare capire in maniera chiara in cosa consista la santità.

Dalla prima parabola impariamo che…

attorno a noi ma anche dentro di noi convivono buon seme e zizzania… e questo, se siamo corretti e sinceri lo vediamo e lo dobbiamo ammettere.

Incoerenze… pensieri contrastanti… contraddizioni… dentro di noi, a volte evidenti… a volte rimangono solo a livello di pensiero… a volte diventano parole… azioni… che fanno soffrire… e che ci fanno soffrire e, purtroppo, spesso, alimentano (per uno strano meccanismo) o un lassismo (sono fatto così!) o un eccessivo stile rigido e intransigente che vorrebbe contrastare e compensare i pensieri, le parole, le azioni “zizzaniose” che a volte emergono!

Contro la mentalità e lo stile di questo mondo che ci impone il “tutto e subito”, la parabola di Gesù ci invita alla pazienza e alla tolleranza con noi stessi e con gli altri.
La santità non è il risultato di un bilancio ma il frutto del rapporto con il Signore.

Contro la mentalità lassista del “non c’è niente da fare” e contro il rigidismo dello “sforzati e fallo subito altrimenti… ”, il Signore chiede di aspettare e di amare. Non si tratta di non agire ma di agire subito attendendo (anche l’attesa è un’azione), amando e aspettando il momento propizio che solo Lui può disporre.

La vita allora è un’attesa, non inerte, ma un’amorosa attesa in amoroso combattimento. Nulla è perduto… nulla è per sempre se non l’amore di Dio!
E Dio vince sempre!

In continuità con quanto detto… dalla seconda e dalla terza parabola apprendiamo, infatti, che…

la santità non è questione di apparenza: il seme di senapa è il più piccolo di tutti i semi… e il lievito è in quantità decisamente inferiore rispetto alla farina… eppure, ancora una volta attendendo con pazienza e perseveranza… i risultati si vedranno…

Apprendiamo infatti anche che… la santità si vede… concretamente è visibile (albero grande) e, un altro elemento fondamentale è che coinvolge gli altri… è di supporto (gli uccelli si rifugiano) e non è mai escludente… non è giudicante… non ha la puzza sotto al naso (si mescola con la farina)!

Insomma… tre parabole che hanno tanto da insegnarci… non ci accada di rimanere sordi a questa bella e abbondante Parola di Gesù!

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AUTORE: Don Antonio Mancuso
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Piotr Zygulski – Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020

Le tre parabole – zizzania, senape, lievito – possono essere rilette nei postulati di papa Francesco: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte.

Soprattutto è decisivo il primo, che ricorda quanto sia indispensabile generare processi di crescita insieme a chi è diverso da noi, anziché dominare spazi di potere pensandoci migliori degli altri; invita alla pazienza, alla fiducia, alla misericordia, senza sostituirsi all’Unico che ha il potere di giudicare, senza voler risolvere tutto ora e da soli. Il secondo ci esorta ad ammirare il campo nella sua unità, senza preoccuparci di contrapporre prima del tempo grano e zizzania; il conflitto esiste, ma esiste anche una via d’uscita per generare nuovi processi.

Il terzo ci invita a non partire con schemi precostituiti, perché anche dalla piccolezza del seme più microscopico può sorgere la pianta più alta; inoltre ciò che ora ci sembra zizzania potrebbe invece rivelarsi finalmente fruttuoso, oppure così intrecciato al bene che altrimenti si finirebbe per gettare via il bambino con l’acqua sporca. Il quarto, infine, allarga lo sguardo al di là delle differenze tra le singole parabole, verso una visione di insieme: ogni similitudine è solamente un aspetto del Regno, ma esso non si esaurisce totalmente in una sola immagine né tantomeno in un solo fotogramma.

Esse però, nella loro pluralità, rimandano alla pienezza di Cristo, verso la quale, nonostante le difficoltà, tutto e tutti siamo in evoluzione.


Commento a cura di:

Piotr Zygulski, nato a Genova nel 1993, dopo gli studi in Economia all’Università di Genova ha ottenuto la Laurea Magistrale in Filosofia ed Etica delle Relazioni all’Università di Perugia e in Ontologia Trinitaria all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI), dove attualmente è dottorando in studi teologici interreligiosi. Dirige la rivista di dibattito ecclesiale “Nipoti di Maritain” (sito).

Tra le pubblicazioni: Il Battesimo di Gesù. Un’immersione nella storicità dei Vangeli, Postfazione di Gérard Rossé, EDB 2019.

Arcidiocesi di Pisa – Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020

Medita

Gesù nella parabola di questa domenica ci rivela come agisce Dio e come si diffonde il Suo regno d’amore. La prima parabola rivela un Dio che ama la pazienza umile: un uomo esce a seminare del buon seme (è il seme della Parola, il seme della Verità, infatti il seminatore è Dio), ma mentre tutti dormono, e non sono vigili, ecco la mano malvagia del nemico che getta del seme di zizzania, un’erba infestante che non è altro che il male, con il quale gli uomini devono sempre saper convivere momentaneamente, e non soccombere. Il male c’è, ma noi dobbiamo sempre darci da fare ed essere operatori di bene. I servi vorrebbero sradicare la zizzania, ma il padrone dice loro di lasciarla fino al tempo della mietitura, perché sarà più facile riconoscerla e separarla. Dio ci ama e, poiché vuole la salvezza di tutti, concede un tempo di penitenza aspettando la nostra conversione con pazienza e usandoci misericordia.

Rifletti

O Gesù, che insegni la pazienza e la misericordia, aiutami a non essere duro, intransigente e chiuso nei confronti degli altri, ma a seguire il tuo esempio con amore e a non pretendere la perfezione nelle persone che mi sono vicine.

Prega

Donami pace e serenità,
donami pazienza e calma,
frena il mio istinto,
Signore Gesù.
Io ti invoco in questo momento di povertà,
perché desidero arrivare ad affrontare,
ogni imprevisto, ogni difficoltà, ogni
incontro con grande serenità che solo da
Te, Signore, può venire.
Tu sei il mare calmo nella tempesta,
tu sei la roccia salda nel cataclisma,
tu sei la vera pace.
Donami la Tua pace.


AUTORE: Claudia Lamberti e Gabriele Bolognini
FONTE: Ascolta e Medita – Centro Pastorale per l’Evangelizzazione e la Catechesi
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don Vincenzo Marinelli – Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020

“Grano e Zizzania”

Se guardiamo il nostro passato ci rendiamo conto di quante cose sono cambiate, di come siamo diversi da un tempo a causa dell’esperienza maturata dai tanti errori fatti. Forse qualcuno amaramente conclude “se lo avessi saputo prima..” Gli sbagli sono stati motivo di un cambio di rotta che ci ha riportato a guardare tutto in modo diverso. Quel bene di cui adesso siamo capaci è certamente frutto anche di tanti errori. Se adesso siamo del buon grano è perchè abbiamo conosciuto i rischi dell’essere zizzania.

Eppure quel percorso è stato necessario, ed ha portato i suoi frutti. Se Gesù permette alla zizzania di crescere con il grano è perchè attende più il frutto del grano e teme di meno gli effetti della zizzania. Tante volte vorremmo distruggere il male repentinamente, dimenticando che l’uomo non è i suoi peccati. Gesù ha sempre distinto il peccato dal peccatore, condannando il peccato, ma offrendosi per la salvezza del peccatore. E se tu hai avuto del tempo per riconoscere i tuoi errori e ravvederti, perchè non sai dare fiducia a chi vedi nell’errore? Preghi per lui o lo condanni? Sai essere riconoscente verso il Signore e coloro che ti hanno insegnato ad evitare di fare il male?

In breve

Come il tempo è stato un prezioso alleato per migliorarti imparando dal male che hai compiuto, così non privare mai della fiducia e della speranza chi sbaglia, aiutandolo a non ricadere più nelle sue fragilità e pregando per lui, senza giudicarlo.


Di don Vincenzo Marinelli anche il libretto:

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Commento a cura di don Vincenzo Marinelli

Don Cosimo Schena – Commento al Vangelo di domenica 19 Luglio 2020

Commento al brano del Vangelo di Mt 13, 24-43 a cura di don Cosimo Schena


Cosimo Schena è un sacerdote della diocesi di Brindisi-Ostuni. Laureato in filosofia presso l’Università di Verona, è attualmente dottorando in filosofia presso la Pontificia Università Lateranense, dove sta approfondendo il tema del totalitarismo e del misticismo in Simone Weil. Svolge il ministero pastorale a Mesagne. Con Diogene Multimedia ha pubblicato “La croce è la nostra patria. Simone Weil e l’enigma della croce” (2016) e “L’essere persona. Lo stato limite della persona?” (2017). Mentre, con l’editore Asterios ha dato alla stampa “Simone Weil e la questione gnostica” (2017). Ancora, con Pagine ha pubblicato delle poesie in Ispirazioni (2017) e nel 2018 diverse raccolte di versi, quali Sussurri, Sussurri di un’anima e Soffio verso il cielo. Con l’editore Bertone ha appena pubblicato la raccolta di poesie “Impronte di cuore” (2019). Tra il 2018 e il 2019 ha pubblicato diverse poesie audio che l’hanno portato ad essere conosciuto in tutto il territorio.

Fonte Linkedin

Paolo de Martino – Commento al Vangelo di domenica 19 Luglio 2020

La comunità cui Matteo scrive, si sta interrogando sull’unica domanda seria che è lecito porsi: da dove dunque questo male? Se Dio c’è, cos’ha a che fare con l’esistenza del male in me e fuori di me? Perché non lo elimina? Ma soprattutto, cosa farne ora che ho scoperto che questo male mi abita?
Ecco allora una nuova parabola.

Anche oggi c’è una affermazione di Gesù che probabilmente ha lasciato tutti a bocca aperta: “La zizzania lasciatela!”.
Zizzania: già il nome infastidisce per la sua durezza. Ma come “lasciatela”?
Il male va tolto, estirpato, cancellato, annullato! Cos’è questa storia di lasciar crescere il grano con la gramigna? Bisogna purificare, togliere la gramigna di torno, così finalmente potremo star tranquilli e beati!
Gesù non vuole una comunità ristretta di “puri e duri”.
Gesù non nega la necessità della separazione, la sua non è indifferenza al bene o al male, ci mancherebbe!

Il Rabbì di Nazareth annuncia che il tempo della separazione non è ancora arrivato e comunque non spetta agli uomini! (Per fortuna…)
Occorre partire dalla convinzione che ciascuno di noi è abitato da cielo e fango.
Questa è la nostra verità. In noi coesistono bene e male.
Non siamo né bianco, né nero.
Siamo una splendida e infinita sfumatura di grigi.
Il male ce lo portiamo dentro, lo facciamo e ci conviviamo anche abbastanza bene.
La zizzania, l’erba cattiva, infestante, velenosa è parte integrante di noi.
Gesù si premura a dire che all’origine di tutto, e quindi di me, vi è solo il bene: «Un uomo ha seminato del buon seme (lett. anche “del bel seme”) nel suo campo» (v. 24).
Dio ha posto in me solo il bene e il bello, perciò ora so che solo il bene e il bello saranno in grado di compiermi.
Il male non è, e non mi è, originario. Esso viene dopo, in seguito. Da dove? Non da Dio, perché Dio non può volere il male, e tanto meno da me.
Siamo schiavi del male, non suoi creatori.
“Pazienza”, dice il padrone, per non correre il rischio di strappare il grano buono nella foga risanatrice.

La Parola seminata domenica scorsa, il Regno di Dio cresce spartendo il campo con la tenebra, l’oscurità, la zizzania.
E’ l’esperienza che tutti fanno prima o dopo: dopo duemila anni di Vangelo, talora proprio nei paesi tradizionalmente cristiani, l’erba malvagia sembra soffocare l’annuncio di salvezza.
A parole tutto funziona, ma nei fatti dobbiamo arrenderci all’evidenza: nonostante Cristo ci abbia salvato, l’uomo stenta ad imparare.
Di più: anche nell’esperienza personale, dopo avere frequentato per anni il Signore, dopo una radicale conversione, devo fare i conti con la contraddizione che abita il mio cuore.
Gesù sa che bene e male si affrontano e che il male fa più rumore.
La Parola di Dio squarcia il male con un’idea immensa, quella della pazienza.
La pazienza richiama il dolore (il patire da cui deriva la parola) e l’attesa.
Pazientare è attendere con dolore, sapendo che il male avrà fine.

Viviamo sulla nostra pelle la contraddizione del male che coabita col bene, anche nei nostri cuori, e il Signore ci chiede di lasciar fare a lui.
Ne siamo coinvolti, ovviamente, ne soffriamo, non gettiamo le armi, continuiamo a coltivare, ma sappiamo che il mondo non può essere un bel prato all’inglese o un giardino zen.
Pazienza amici, lasciate fare a Dio il suo mestiere.
Pazienza, discepoli del Maestro, viviamo tempi bui, in cui la ragione e la fede devono farsi strada con fatica in mezzo all’indifferenza e all’insignificanza.
Pazienza, discepoli del Nazareno, la guerra è già vinta!
Io credo che il Regno avanzi.

E mi stupisco nel crederlo, mi commuovo davanti al silenzioso grano che cresce nello sguardo di chi ama, nel gioco puro del bambino, nel gesto generoso di chi pone gesti di luce nelle tenebre fitte.
Pazienza, pazienza nelle nostre povere e poco credibili comunità parrocchiali, pazienza nel vedere le fragilità dei nostri compagni di viaggio, pazienza quando un connaturale istinto di superiorità ci fa giudicare i fratelli che ancora (e sempre) misureranno la loro debolezza.
Abbi pazienza con te stesso, fratello che leggi.
Sappiamo bene che la voglia di dividere il mondo in buoni (noi) e cattivi (loro) ha portato i discepoli su orribili sentieri di violenza, in passato.
Per i cristiani il nemico non è mai l’altro, è dentro ciascuno di noi.
Senza cadere in autolesionismi, guardiamo dentro noi stessi la zizzania (e chiamiamola per nome!) e guardiamo al grano buono seminato dal Signore.
La contraddizione abita in ciascuno di noi, in me che scrivo.

E’ pericoloso pensare di strappare definitivamente la zizzania prima che il grano sia giunto alla sua piena maturazione.
Pazienza, amico che leggi, se ti sembra che troppe tenebre ancora rovinino la tua vita: abbiamo tutta la vita per imparare a vivere, pazienza se pensavi di essere un diacono migliore, un catechista migliore, un marito migliore: talvolta la bruciante esperienza del limite (Pietro insegna) ci spalanca la diga della misericordia.
Povero Giovanni Battista, pure lui, forse, si aspettava una bella pulizia generale.
Gesù, invece, fa tutto il contrario!
Non allontana i peccatori, anzi gli avvicina e per loro ha una attenzione tutta speciale.
Non punta il dito, ma allunga la mano verso chi si sente giudicato dai ben pensanti del tempo.

Non si circonda di perfettini o di primi della classe, tra i dodici, lo sappiamo, c’è gente con un passato discutibile e tra di loro c’è il traditore.
Allora coraggio, cari amici!
Superiamo la tentazione del giudizio, smettiamo di comportarci come i mietitori della parabola.
Dobbiamo amare questa Chiesa, non quella dei nostri sogni o dei nostri idealismi sfrenati ma quella in cui viviamo, quella con cui ogni domenica spezziamo il pane e ascoltiamo la sua Parola.
La bella notizia di questa Domenica? Il mondo non ha bisogno di supercristiani perfetti, ma di discepoli consapevoli del proprio limite, che attendono con passione al loro lavoro, amando questo mondo seminato a grano, consapevoli del proprio e dell’altrui limite, limite che Dio riempie di tenerezza.


AUTORE: Paolo di Martino
FONTE: Facebook
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