“Che sarà mai questo bambino?”
Giovanni il Battista, cammina davanti a Gesù, per nascita, per vita, per morte. Dalla danza nel grembo di sua madre Elisabetta all’arrivo di Maria che porta nel grembo Gesù, fino all’incontro al Giordano, le strade di Giovanni e Gesù si susseguono e si intrecciano in un reciproco riconoscimento l’uno dell’altro. Non a caso la liturgia pone questo vangelo che ne narra la nascita appena prima della festa del giorno Natale di Gesù.
Luca ci accompagna a comprendere che la nascita di Giovanni è la «prova» che Dio è ancora in mezzo al suo popolo e il segno troverà compimento nella nascita di Gesù: l’Emmanuele, il “Dio con noi”.
Il passaggio tra i due testamenti è un tempo di silenzio: la parola, tolta al sacerdozio, volata via dal tempio, si sta intessendo nel ventre di due madri, Elisabetta e Maria. Dio scrive la sua storia dentro il calendario della vita, fuori dai recinti del sacro (E. Ronchi).
La nascita di Giovanni è immersa in un’atmosfera di gioia e di stupore, preceduta dall’incontro tra una donna sterile e una donna vergine entrambe incinte e sancisce che l’umanamente impossibile diviene il possibile nei pensieri di Dio.
Zaccaria ha dubitato della parola dell’angelo, ha chiuso l’orecchio del cuore alla Parola di Dio e da quel momento ha perso la parola: non ha saputo ascoltare e ora non può più dire nulla.
A volte anche noi che molte volte parliamo e scriviamo della Parola di Dio, quando smarriamo il riferimento che essa ha per la nostra stessa vita, diventiamo afoni, insignificanti e le nostre parole diventano stanche e vacue, prive di qualsiasi messaggio che sia buona notizia.
Nonostante il dubitare dell’anziano sacerdote, l’agire di Dio non si ferma. Ciò può essere di grande consolazione: le nostre parole disincarnate dalla storia e lontane dalla fede non arrestano lo scorrere del fiume di Dio.
Elisabetta concepisce, giunge il tempo del parto e da luce un figlio: i vicini e i parenti si rallegrano con lei. Il bambino nasce come lieta trasgressione, viene alla luce come parola felice, vertice di tutte le natività del mondo: ogni nascita è profezia, ogni bambino è profeta, portatore di una parola di Dio ogni volta nuova e pronunciata una volta sola.
Al momento della scelta del nome, accade un’ulteriore trasgressione della prassi: è Elisabetta, la madre a dare il nome al bambino. Sa bene che l’identità del suo bambino sarà di essere dono, la sua vita è scritta in quel nome al cui interno vi è il nome di Dio e che potremmo tradurre come “dono di Dio”, “essere misericordioso”
Zaccaria deve solo sottoscrivere la scelta già fatta da Elisabetta e incide sulla tavoletta «Giovanni è il suo nome» (Lc 1,63) e nel momento in cui accoglie il nome si scioglie la lingua e ritrova la parola per nominare Dio e benedirlo. E benedire è vivere la vita come un dono: “la vita che mi hai ridato/ ora te la rendo/ nel canto” (D.M. Turoldo).
«Che sarà mai questo bambino?» (Lc 1,66) Domanda fondamentale, da ripetere, con trepidazione, davanti al mistero di ogni creatura che nasce, ovunque nel mondo. Sarà dono che viene dall’alto unico e irripetibile: lo spazio della profezia e di una parola unica che Dio ha pronunciato e che non ripeterà mai più (G. Vannucci). E sarà «voce» che annuncia e attende ma solo voce, la Parola sarà un Altro: il Verbo di Dio: Gesù.
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fratel Michele
Per gentile concessione del Monastero di Bose.
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