Luigino Bruni – Commento al Vangelo di domenica 25 Aprile 2021

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La diversa leadership del buon pastore

Chi conosce più il duro lavoro del pastore? La Palestina di Gesù lo conosceva bene, era uno dei lavori più comuni, era lavoro popolare. Quindi evocare il nome e i gesti del pastore signicava entrare immediatamente dentro il linguaggio della gente normale ed essere capiti. Gesù era così, i profeti erano così, i salmi erano così. In questa immagine del buon pastore rivivono infatti Ezechiele (cap. 34) e il grande Salmo 23 del buon pastore: «Il signore è mio pastore, non manco di nulla…».

Il mestiere del pastore era, ed è, un’arte complessa. Il pastore vive in un rapporto di reciprocità con il gregge, che è un insieme variegato. Accanto alle pecore grasse e sane, ci sono diverse categorie di animali fragili. La gran parte del gregge è dunque costituito da pecore bisognose di una cura speciale e specifica da parte del pastore. Ci sono quelle deboli, magari perché ancora agnellini, quelle permanentemente inferme a causa di menomazioni e incidenti, altre ferite dall’attacco di lupi o cinghiali, alcune smarritesi in seguito a un forte temporale o a un assalto, e qualche pecora che non ha più trovato la strada durante un difficile attraversamento notturno.

Il buon pastore è colui che ha sviluppato la capacità di custodire l’intero gregge, che ha allargato il suo sguardo fino a includere tutte, a cominciare dalle ultime, fino a proteggere anche pecore di altri greggi, fuori dal recinto. Il mercenario, invece, cura solo le forti e le grasse, e non protegge l’intero gregge. Il primo indicatore di bontà di un pastore non è il latte o la lana che ricava dalle pecore, ma l’equilibrio e l’armonia del gregge nel suo insieme, e quindi la cura degli ovini più vulnerabili: il numero di ferite che ha sanate, di disperse che ha ritrovate, di deboli irrobustite. [… continua a leggere il commento su Famiglia Cristiana …]

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