Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 5 Novembre 2023

Tutti fratelli e sorelle

All’invettiva profetica contro i sacerdoti infedeli nella prima lettura (Ml 1,14b-2,2b.8-10) risponde l’invettiva profetica di Gesù rivolta a scribi e farisei nel vangelo (Mt 23,1-12). Entrambi i testi denunciano non solo l’ipocrisia e la doppiezza, ma anche la distorsione dell’autorità in esercizio arbitrario di potere che può essere compiuto da chi detiene responsabilità in uno spazio religioso.

Ai sacerdoti il profeta rimprovera la scissione del loro insegnamento dall’ascolto della Parola di Dio, della Torah, l’unica che può dare fondamento, contenuto e autorevolezza alla loro parola. Senza la Parola di Dio, il sacerdote non ha nulla da dire, essendo il suo ministero un servizio a quella stessa Parola. Ciò che Malachia rimprovera ai sacerdoti non sono semplicemente mancanze sul piano cultuale – come pratiche rituali improprie e inadeguate o mancato rispetto delle regole di purità richieste – ma, molto più radicalmente, il tradimento del ministero di cui sono incaricati. In Ml 2,2 i sacerdoti sono accusati di non essersi dati premura di dare gloria al nome del Signore, letteralmente, di “non aver posto sul loro cuore”, cioè di non aver preso a cuore, di non aver assunto come compito basilare e centrale del loro ministero il rispetto del nome del Signore, così da poter essere degni testimoni della sua presenza e della sua azione.

Ma così facendo essi si sono estromessi dall’alleanza con il Signore tradendo la relazione con lui e venendo meno anche al loro compito di mediazione nei confronti del popolo. La trascuratezza e la scorrettezza manifestate sul piano celebrativo e cultuale (Ml 1,6-14) sono rivelative di una distanza profonda, del cuore stesso dei sacerdoti, dal compito loro affidato dal Signore. Sicché il Signore volge in maledizione le loro benedizioni: il loro mandato si stravolge nel suo contrario (Ml 2,2). Mancando verso Dio, essi sono venuti meno anche alla loro responsabilità nei confronti del popolo: “Voi avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti” (Ml 2,8). Il rischio di divenire scandalo, cioè ostacolo e inciampo alla relazione con il Signore, è particolarmente grande e grave in chi, per il ruolo autorevole e sacrale che riveste, dovrebbe invece facilitarlo e mediarlo. Divenuti funzionari negligenti, questi sacerdoti si sono mostrati pastori indegni.

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L’accusa contro “l’agire perfido” (Ml 2,10) colpisce il tradimento della fiducia. Chi riveste una responsabilità pastorale e si presenta rivestito di autorità religiosa non può non essere cosciente della valenza simbolica della sua persona: egli deve pertanto essere affidabile e credibile. Se tradisce la fiducia che altri ripongono in lui, diviene responsabile anche dell’eventuale allontanamento di alcuni da ciò egli rappresenta nel suo ministero. Venendo meno all’incarico e al compito ricevuto, essi hanno di fatto disprezzato (cf. Ml 1,6.7.12.13) il dono di cui erano stati destinatari e, in verità, hanno mostrato disprezzo per Dio stesso. Per questo, dice l’oracolo che il profeta trasmette: “Anche io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo” (Ml 2,9).

La pagina evangelica odierna – e, in realtà, l’intero capitolo 23 del primo vangelo – mentre ha di mira i comportamenti di scribi e farisei, si rivolge ai discepoli di Gesù e dunque ai membri delle comunità cristiane e, in particolare, a quanti ricoprono cariche e responsabilità pastorali e di governo. Le disfunzioni, le storture e le storpiature del ruolo di autorità rivestito da personalità religiose non sono certo appannaggio di scribi e farisei, ma sono realtà trasversali che si possono trovare in qualunque istituzione religiosa ben al di fuori del giudaismo dell’epoca di Gesù.

Matteo mette in scena un Gesù abitato da uno sguardo critico nei confronti di chi detiene autorità religiosa, ovvero quegli scribi e farisei che “si sono seduti sulla cattedra di Mosè” (Mt 23,2). Il riferimento è, forse, al seggio marmoreo presente in molte sinagoghe e su cui sedeva il dottore della legge per impartire il suo insegnamento davanti all’assemblea. O forse, si tratta di un’espressione che semplicemente indica la leadership del giudaismo che, dal 70 d.C., era in mano ai farisei. Gesù non nutre prevenzioni, ma ancor meno è abitato da un atteggiamento prono e acquiescente di fronte all’autorità. E anche se si tratta di un’autorità che si può richiamare a Mosè, e dunque a Dio stesso, egli vi rivolge uno sguardo lucido e impietoso, sulla scia dell’atteggiamento profetico.

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Così anche il suo parlare è segnato da parresía e non percorre certo i sentieri del politicamente e teologicamente corretto: le parole di Gesù sono vibranti di indignazione, ma sono meditate, frutto di lunga osservazione: i vv. 3-7 sono un precipitato di esperienza, la sintesi di un lungo lavoro di osservazione di fatti e della loro rielaborazione interiore. Gesù ha notato come questi uomini religiosi spendono le loro migliori energie per farsi notare, ammirare, riverire e omaggiare e perciò prediligono la frequentazione di spazi e occasioni pubbliche dove ci sia “gente” (Mt 23,5.7), un pubblico anonimo che può ammirarli e soddisfare il loro bulimico appetito di riconoscimento: situazioni liturgiche (“sinagoghe”), conviviali (“banchetti”), sociali (“piazze”) sono per loro il terreno di caccia prediletto per procurarsi “primi seggi”, “posti d’onore”, “saluti”.

Gesù insegna che non basta ascoltare le parole delle personalità religiose per conoscerle, ma occorre considerare come si comportano, cosa cercano, quali sono le loro relazioni, i loro comportamenti. E trarne le conclusioni. E la conclusione a cui Gesù perviene è l’ammonizione ad ascoltare pure scribi e farisei, ma a non agire come loro “perché dicono e non fanno” (Mt 23,3). E l’abitudine a dire senza fare, a parlare senza agire di conseguenza, a sentenziare senza coinvolgersi, ma anzi ritenendosi esentati dalle esigenze pur espresse dal proprio dire, li porta a comportarsi in modo irresponsabile, da padroni nei confronti della “gente” (Mt 23,4). Fino a caricarli di pesi come fossero bestie da soma.

Corollario di queste osservazioni è anzitutto l’avvertimento di Gesù a non cadere nella frivola e blasfema smania di grandezza di chi adora sentirsi chiamare con appellativi onorifici altisonanti, quasi che la propria verità personale consistesse nei titoli che gli altri ci attribuiscono. Se solo Dio è, in ultima istanza, padre, Gesù, il Signore, è l’unico degno dei titoli di maestro e di guida. Appropriarsi di tali titoli è un’usurpazione. Quindi, Gesù esorta a passare dalla vacuità e dall’illusione relazionale vissuta con la gente alla corposità, alla densità e al carattere impegnativo del rapporto tra fratelli: “voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). Questo l’unico titolo legittimo e veritiero che i credenti possono vantare e, soprattutto, devono mettere in pratica.

Titolo autentico perché l’unico che onora la paternità di Dio e perché Gesù è il Figlio che non si è vergognato di chiamare fratelli gli uomini (cf. Eb 2,11). Infine, la misura della grandezza nello spazio cristiano ed ecclesiale è data dall’essere servi: l’essere fratelli si declina concretamente come un porsi a servizio gli uni degli altri seguendo l’esempio di colui che “non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28). La postura del servo preserva il credente dagli atteggiamenti di protagonismo, di affermazione di sé, di esibizionismo religioso, di narcisismo, ovvero di esagerato investimento sull’immagine a spese del sé. Le parole di Gesù che denunciano le distorsioni possibili dei ruoli di autorità nelle comunità ecclesiali rinviano a un problema sempre attuale: la qualità umana delle persone, di ogni credente, ovviamente, ma in particolare, delle persone investite di un ministero.

In questi tempi in cui nella chiesa cattolica si cerca di imparare e percorrere la via della sinodalità, diviene particolarmente importante prendere molto più sul serio di quanto si sia fatto finora la dimensione della formazione e di indirizzarla nella direzione dello sviluppo delle virtù umane. Infatti, la realizzazione della sinodalità richiede anzitutto competenze relazionali. Questo riguarda tutti, ma deve essere sottolineato in modo particolare per chi è incaricato di un ministero ordinato, per presbiteri e vescovi. Gilles Routhier afferma che la sfida della sinodalità esige che si cerchi di assicurare “lo sviluppo di competenze relazionali dei ministri ordinati” e di fare in modo che integrino “una giusta comprensione del loro ministero, che non li autonomizzi dal popolo di Dio ma ve li inserisca in un rapporto di interdipendenza.

Già Optatam totius sottolineava l’importanza della formazione al dialogo. A più di cinquant’anni dalla chiusura del Concilio non ci siamo ancora pienamente pervenuti. Parimenti, la disposizione all’ascolto, a consigliarsi, a imparare dall’altro non sempre è acquisita e forse non riveste molta importanza nella formazione dei ministri ordinati e nel discernimento delle vocazioni”. Letta collocandola nel nostro attuale contesto ecclesiale, la pagina di Matteo mostra la fecondità e il carattere costruttivo delle parole critiche di Gesù nei confronti del clericalismo e di ogni possibile deriva personalistica dell’esercizio del ministero, così come di ogni forma di distorsione del servizio ecclesiale dell’autorità in potere mondano.

Per gentile concessione del Monastero di Bose

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