La vita al ritmo della Parola – p. Amedeo Cencini

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LECTIO DIVINA: RITMO QUOTIDIANO

Iniziamo allora col ritmo quotidiano. Essendo quello fondante e centrale gli dedicheremo uno spazio maggiore rispetto agli altri ritmi. La formazione permanente è legata in buona parte alla capacità del credente di lasciarsi formare ogni giorno da quella spada a doppio taglio che è la Parola, e la Parola-del-giorno, quella che in quel giorno si legge in ogni comunità di credenti, in ogni parte della terra. Tale disponibilità nei confronti della Scrittura la potremmo chiamare docibilitas biblica (6), come una particolare forma di apprendimento della Parola che giunge fino alla libertà di lasciarsi educare, formare e trasformare da essa ogni dì (7).

Oggi, in effetti, la lectio divina è autorevolmente raccomandata (8), si parla molto d’essa, senz’altro ancor più di quanto la si pratichi realmente e quotidianamente. Noi ora vorremmo offrire qualche semplice sugge­stione sulla natura, ovvero sul concetto e sulla metodologia, di questa preghiera che apre ogni giorno la nostra vita di credenti, perché anche la segni profondamente.

La vedremo alla luce di cinque caratteristiche: lectio matutina, divina, scripta, continua, vespertina (o nocturna).

2.1         Lectio matutina

La maturità spirituale o la sintonia coi desideri di Dio nasce e cresce ogni giorno esattamente attraverso la lettura per eccellenza nella vita del credente, quella delle Scritture sante, e più in particolare tramite la lettura della Parola-del-giorno. Non potrebbe avere altra fonte e scuola, altro contenuto e maestro, altro ritmo quotidiano e mattutino.

Lectio straordinaria?

Forse non è particolarmente originale sottolineare quanto appena detto, tanto ormai la lectio è entrata nella cultura del credente. Eppure si ha l’impressione che si stenti ancora a comprenderne la natura profonda, ben oltre il fatto d’esser una pratica di pietà, in realtà facoltativa (9). La meditazione della Parola è ciò che normalmente apre la giornata del credente e del discepolo, il quale è tale proprio perché crede nella Parola, si nutre d’essa, e solo d’essa, secondo il menù preparato dal Padre ogni giorno, e dunque della Parola-del-giorno, quella di cui tutti i credenti in tutta la Chiesa sono invitati a nutrirsi. Natura e funzione della Parola-del-giorno è quella di aprire e accompagnare la giornata, come costituisse il passo cadenzato, il punto di riferimento d’ogni giorno della vita, senz’ alcuna eccezione, e senza pure esser essenzialmente in funzione del proprio ministero, della catechesi o della predicazione o dello studio personale, quasi usandola in modo interessato.

Ogni giorno, ogni mattino

Per questo motivo non può esser solo qualcosa di speciale, da fare una volta alla settimana o quando mi va, perché costituisce invece ciò che dà il ritmo a ogni giorno, quasi la sua unità di misura, ciò che la raccoglie attorno a un centro che le affida un compito, qualcosa che non può mancare per nessun motivo e che va collocato ragionevolmente all’inizio della giornata: ogni vocazione, infatti, è mattutina (10), prima ancora che io mi svegli e dia il via alle corse quotidiane essa è già all’opera, già pensata e pronunciata dall’Eterno, alta e luminosa come il sole che sorge sul giorno che sta per cominciare.

E così la Parola-del-giorno: è mattutina per natura sua, perché contiene e svela la vocazione di colui che la legge, perché non solo la Parola-del-giorno apre la giornata, ma ha la precedenza su tutto il resto, sulla mia agenda, su quella fila di pensieri che affollano la mia mente non appena mi sveglio, pretendendo ognuno la precedenza, e che spesso hanno il potere di diventare subito pre-occupazioni; e al tempo stesso la Parola di oggi è ciò che dà senso e ordine a quel che farò durante il giorno, ciò che infonde intelligenza al mio essere e rende attento il mio agire.

Il buongiorno di Dio

La Parola-del-giorno è il buongiorno di Dio al mio risveglio, come un messaggio puntuale e sempre nuovo, che non cessa di trasmettermi giorno per giorno il suo piano amoroso; per questo non può che essere una lectio amorosa. Per questo, soprattutto, senza la lectio del mattino io perdo la chiave di lettura della mia persona, come fossi privo d’intelligenza e ignorante, il giorno si preannuncia vuoto e insensato, gl’impegni diventano dispersivi, i rapporti umani superficiali o ambigui, gl’imprevisti una rottura che viene a spezzare il ritmo che io pretendo aver impresso al mio tempo, mentre l’agitazione nervosa di fronte alle tante cose da fare prende il sopravvento e mi ruba la gioia (come in Marta), e poi siccome sono tante, davvero tante, devo correre e non posso stare a fare meditazione o dedicarle troppo tempo… Mica sono un novizio, poi!

Che tristezza quando la meditazione diventa semplice pratica di pietà od obbligo disciplinare, e non è cercata come dono, come dono di Dio che m’illumina, come regola di vita o ordo che dà ordine alla mia giornata, come parola autorevole che mi assegna un compito da attuare durante il giorno, come gesto affettuoso di chi si prende cura di me, come amore preveniente che ha la precedenza su tutti i miei appuntamenti, oasi che calma la fretta e sgonfia le ansietà.

2.2         Lectio divina

La lectio si chiama divina proprio perché è Dio l’autore di quella parola, è Dio che mi parla attraverso essa, è l’Eterno che l’ha ispirata, e non un Dio lontano nel tempo, ma quello che oggi mi rivolge questa parola, e “se lo Spirito ha ispirato Isaia, quello stesso Spirito ha scelto anche questo momento e questo versetto, sul quale io mi soffermo…, per darmi un aiuto e quasi una seconda ispirazione” (11); e se Dio ne è il soggetto, ne è anche l’oggetto, è Dio che mi parla di sé, che mi svela il mistero, sempre secondo la sua sapiente pedagogia che tiene conto delle mie limitate capacità, cioè ogni giorno svelandomene un aspetto nuovo, inedito, che risponde alle mie reali necessità del momento, che lui conosce molto meglio di me, “per la razione d’un giorno” (Es 16,4), come la manna un tempo, e risponde pure alle domande profonde del cuore in questo preciso oggi della mia esistenza, quelle che Dio stesso ha posto in me e che lui solo conosce.

Teofania e antropofania

E non solo Dio mi parla di sé, ma anche di me; non è solo una teofania che apre la mia giornata di credente e discepolo della Parola, ma un’antropofania. Attraverso la quale il Padre e Creatore mi svela progressivamente la mia personale identità, la mia vocazione, quello che sono chiamato a essere per divenire conforme al Figlio suo e avere i suoi sentimenti. E anche questa rivelazione è situata nell’oggi, ovvero mi dice quel che oggi il Signore mi dona e pure mi chiede. Quasi potremmo dire che mi consegna il compito per questa giornata che va a cominciare, e che io potrò accogliere e portare a termine solo se lo accetto dalle sue mani, dentro un dialogo d’amore, come è e dev’essere la meditazione del mattino.

E la cosa singolare, e misteriosa, è che le due rivelazioni in qualche modo coincidono, poiché la mia identità è dentro quella di Dio, per così dire, perché in quella stessa Parola che parla di Dio sono invitato a cogliere anche la mia vocazione, il mio modo di rassomigliargli, il mio progetto esistenziale, il mio nome nascosto nel suo. Proprio perché viene da Dio e parla del Dio eterno e immutabile, la Parola-del-giorno parla anche di me nell’ oggi della mia vita. E allora va accolta nel silenzio delle parole umane, nel raccoglimento interiore con cui ci s’avvicina al mistero, nell’ attesa di chi si prepara a ricevere un tesoro che gli verrà messo tra le mani, con la meraviglia di chi conosce l’agire di Dio ed è abituato alle sue sorprese cui non ci si abitua mai. In una parola va accolta con atteggiamento tipicamente mariana.

Come Maria

Perché la Parola-del-giorno mi viene incontro, in realtà, come l’angelo che apparve a Maria il giorno dell’ Annunciazione e Maria è l’immagine dell’autentico credente che l’accoglie davvero da discepolo della Parola, con tutto il suo carico di mistero, con il timore e tremore di chi sa di trovarsi dinanzi a Dio, dinanzi a una Parola che è dolce nella bocca, ma amara nelle viscere (cfr. Ap 10,9), ma pur sempre dinanzi a un progetto che ha Dio per autore, e che dunque sarà Dio a portare a termine.

Nel mosaico di padre Rupnik nella cappella della “Casa incontri cristiani” dei padri Dehoniani a Capiago, la scena dell’Annunciazione è resa in modo da sottolineare proprio questo turbamento umano che poi s’apre alla fiducia, perché illuminato dalla certezza che si tratta d’una iniziativa divina. Maria, infatti, nel mosaico volge stranamente le spalle all’angelo che le parla e guarda pensosa addirittura dall’altra parte. L’angelo, allora, ne rimane così intenerito che, per proteggerla, allunga la sua ala, quasi avvolgendola, ma insieme scosta l’ala stessa, per non fare rumore e incutere spavento, sconcertando ulteriormente Maria. Gesto d’infinita dolcezza! Maria, a questo punto, lascia cadere la mano, ma al tempo stesso la apre. È ancora il suo turbamento, ma è anche gesto di disponibilità. Non capisce – come potrebbe? -, ma ha compreso che è il Signore e questo le basta: “Sono la tua serva, fa di me quello che a te piace”. È l’Ecce ancilla, che incontra l’Ecce venia di Gesù (cfr. Eb 10,9), il Verbo che bussa alla sua porta (12).

Parola-del-giorno e “giorno fatto dal Signore”

Come può una giornata diventare “giorno fatto dal Signore” (Sal 118,24, come canta la liturgia del giorno di pasqua), messo in atto da lui per compiere la salvezza attraverso una creatura chiamata per questo, se non partendo dalla Parola, accolta con atteggiamento tipicamente mariano? Se non grazie all’atteggiamento di colui che accoglie e legge la Parola come lectio divina, non umana, con tutto ciò che questo significa e implica in pratica per la coscienza del credente? Solo allora quella giornata qualsiasi, feriale e ordinaria, è riscattata dalla banalità dei giorni che scorrono rotolando uno sull’altro senza lasciar traccia alcuna sul vivente, come “giorno che ho fatto io”, con la mia frenesia o con la mia pigrizia, e si preannuncia invece come giorno di formazione permanente.

È Dio che mi dà l’appuntamento, non io che assolvo a un obbligo o che scelgo di fare una cosa bella, ma tutto sommato opzionale, che posso permettermi di fare quando mi sento di farla, quando c’è un testo che mi piace o andando a scegliermelo (o aprendo, peggio ancora, la Bibbia a caso), o quando e finché sono nella formazione iniziale e se l’orario lo prevede, e magari comprimendola nel ritaglio di tempo che le posso “concedere” (bontà mia! con tutto quel che ho da fare…).

Non si tratta d’esser moralisti (e non è questo, in genere, il problema oggi), bensì di capire, ancora, che siamo di fronte a un dono che anticipa l’agire umano, che l’iniziativa è di Dio, il Padre-maestro della mia formazione permanente, che gode di stare con me, che ogni giorno pone mano al suo progetto e mi chiama e mi propone un passo avanti, una nuova meta definita da lui e dalla sua Parola, proprio perché la mia forma­zione abbia un preciso punto di riferimento, ogni giorno, e non giri a vuoto. E io non corra il rischio di divenire uno splendido ignorante (quanto analfabetismo biblico-teologico di ritorno in tanti consacrati!) (13).

Come potrei non tenere conto di questo invito, sottovalutarlo e trattarlo con sufficienza, o ritenere che il mio cammino di crescita possa avere altri punti di riferimento al di fuori della sua Parola, nella quale anch’io, come tutte le cose, sono stato creato, pensato, amato?

2.3         Lectio scripta

Ma per imparare a leggere la Parola, si deve apprendere a scrivere la lectio. Così come, nel normale apprendimento umano, non basta saper leggere, occorre anche saper scrivere. Perché non basta leggere?

Qualità spirituale dello scrivere

Perché è proprio lo scrivere – in generale – che aiuta a prendere coscienza dell’esperienza fatta, qualsiasi essa sia, anche quella intellet­tuale-spirituale com’è la lectio, a elaborarla e valorizzarla, a concretizzarla e personalizzarla, a comprenderne meglio il senso oggettivo e soggettivo, a coinvolgersi in esso, a tornare sul già scritto per arricchirlo o correggerlo o approfondirlo, senza rischiare di dimenticarlo, a trattenerne il valore, a dare un tocco di definitività alla propria riflessione, ad assumersi in qualche modo la responsabilità della riflessione, ma soprattutto della vita, a fare in modo che quell’esperienza diventi sapienza, ovvero che l’illumi­nazione d’un momento non sparisca, ma divenga parte, anche modici­candolo, del proprio pensare e leggere la storia, del percepire gli altri e interpretare la relazione, parte della propria identità, in modo stabile e defi­nitivo. Quante ispirazioni abbiamo perso o sono rimaste solo esperienza d’un momento senza diventare sapienza, anche perché non abbiamo avuto l’umiltà e la pazienza di sottoporle alla complessa elaborazione dello scritto (14)!

Sì, perché scrivere è la più alta forma del pensare; ovviamente per chi ha imparato a non ridurlo a inconscia autoproiezione o a fame un’operazione di generica cronaca. Anzi, per molti “scrivere è neces­sario per pensare. Il fatto di scrivere obbliga ad esprimere ciò che si cela dentro di noi. Ci permette di fare il punto, di orientarci” (15). In ogni caso lo scrivere chiama a raccolta tutte le risorse intellettuali ed emotive, tutto l’essere pensante e amante, dunque obbliga a (e consente di) pensare di più e meglio, a pescare più profondamente nel cuore e nella mente, a giungere alla conclusione della riflessione, a scegliere alcune parole per esprimere un determinato pensiero, a comprometterci con esse, anche se forse incapaci di dire tutto fino in fondo quel che abbiamo in cuore. A volte è proprio lo scrivere (o il dover scrivere) che fa capire quanto abbiamo ancora le idee confuse circa un determinato argomento, e quante volte le idee si chiariscono proprio scrivendo, mentre il prodotto finale è molto diverso da quello inteso all’inizio! Per questo, forse, per tutto questo travaglio interiore lo scrivere è poco amato; anche lo scrivere la propria esperienza spirituale, o quella espe­rienza spirituale che è, e dovrebbe essere, la meditazione quotidiana della Parola.

Perché scrivere la lectio

Eppure vi sono buone ragioni per sostenere che una buona lectio potrebbe e dovrebbe essere in qualche modo scritta, così come vi sono diversi modi concreti d’intendere questa scrittura.

Scrivere la lectio è chiudere il circolo ispirativo o ermeneutico, al cui inizio c’è la Scrittura opera dello Spirito di Dio, che prosegue con l’ascolto o la lettura d’essa da parte del credente e che termina ora ancora con una scrittura, con la quale lo stesso credente fa suo il verbo delle Scritture sante, calandolo nella propria esistenza, quasi a purificarla e vivificarla, o immerge la propria esistenza in quella parola (come intingesse la propria vita nell’inchiostro della Parola). Ed è bello pensare che lo Spirito, che ha ispirato l’autore sacro, è il medesimo Spirito che ispira e illumina il lettore a comprendere il brano biblico e infine ispira e tocca cuore e mente del lettore-scrittore a scrivere il proprio testo, partendo sempre dal testo sacro.

È certa una cosa: lo scrivere la lectio è un’espressione ulteriore di coscienziosità, di quanto il credente prenda sul serio questo appuntamento quotidiano mattutino con la Parola, e cerchi ora, fissandolo sulla carta, di non perderne il senso, l’illuminazione, la novità.

Ma andiamo a vedere come questa scrittura sia realizzabile in concreto. Abbiamo detto che la lectio andrebbe scritta “in qualche modo”, cioè questa “scrittura” personale è possibile in vari modi. Gratry dice che si dovrebbe meditare “sempre con la penna in mano” (16). È indicazione tanto semplice quanto saggia; naturalmente rivolta ai semplici e umili, non agli “intelligenti e sapienti”, che non hanno bisogno di questi suggerimen­ti. Vediamo qualcuno di questi modi, senza enfatizzarne alcuno; ognuno ha la sua “calligrafia” o il suo stile di scrittura.