Esegesi e meditazione alle letture di domenica 18 Dicembre 2022 – don Jesús GARCÍA Manuel

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Prima lettura: Isaia 7,10-14

Il brano di Isaia, che la liturgia utilizza come prima lettura, è uno dei non molti oracoli profetici che si inquadrano in una precisa cornice storica, il 785 a.C. Si tratta di un oracolo risalente veramente al profeta dell’ottavo secolo, pronunziato per il re Àcaz, che regnò su Giuda dal 743 al 727.

In un momento in cui l’animo del re era profondamente turbato, a causa dello slancio espansivo della potenza assira, che mirava a sottomettere l’intera area della Siria-Palestina, e a causa delle minacce rivoltegli da chi (il re di Damasco e il re di Samaria) voleva attirarlo in una coalizione anti-assira, il profeta Isaia volle richiamarlo alla pura fede in Dio; gli raccomandava di non affidarsi ai suoi calcoli, che lo portavano a mettersi sotto la protezione degli Assiri; gli ripeteva che il futuro della dinastia davidica solo Dio era in grado di garantirlo. Vedendo che Àcaz restava titubante, il profeta gli diede un solenne annunzio: la giovane sposa del re (‘alma) avrebbe avuto il suo primo figlio, come segno e garanzia della divina protezione (v. 14). La forma particolarmente solenne di questo oracolo spinse la stessa tradizione giudaica a proiettarlo verso il futuro e a intenderlo in chiave messianica. Sicché i cristiani non ebbero alcuna difficoltà a intenderlo come una profezia diretta della loro fede nella concezione verginale di Gesù, il vero Emanuele, cioè Dio-con-noi.

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Seconda lettura: Romani 1,1-7

All’inizio della lettera che scrive ai Romani Paolo si autopresenta come «apostolo per chiamata», perché sia chiaro che il suo vangelo non è frutto di opera umana, ma proviene da Dio. Subito dopo introduce l’elemento centrale di questo ‘vangelo’ e precisamente la professione di fede in Gesù come Messia, figlio di Davide, annunciato dalle Scritture antiche e costituito Figlio di Dio in potenza nella risurrezione (vv. 3-4). Per quanto riguarda il titolo di «Figlio di Dio» non significa che Gesù non lo fosse prima della risurrezione, ma la risurrezione lo costituisce tale «in potenza», mentre prima egli era apparso nella debolezza della carne.

La Chiesa, dunque, nella fede, incessantemente lo proclama Messia, Figlio di Dio, Signore. Quelli cui giunge questo ‘vangelo’ ottengono poi un dono prezioso: sono «amati da Dio e santi per chiamata».

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Vangelo: Matteo 1,18-24

Esegesi

Questo brano del Vangelo dell’infanzia di Matteo è un esempio straordinario di quella che dobbiamo chiamare teologia narrativa. Vogliamo dire che andremmo del tutto fuori strada se intendessimo questo brano evangelico come un racconto di cronaca, quasi fosse il racconto fattoci da un testimone oculare dei fatti narrati. Quando leggiamo questo brano, dobbiamo renderci conto che l’evangelista, con esso, ha voluto evangelizzare i suoi lettori, cioè ha voluto comunicare a loro la verità profonda della nascita di Gesù, senza curarsi di dirci per quali vie e con quali espedienti egli è arrivato a conoscere e a formulare questo mistero che salva.

Nella frase d’inizio del v. 18, l’evangelista dichiara apertamente che cosa egli vuole trasmettere con il racconto che segue. Dice infatti: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo». Appare evidente che l’oggetto della sua comunicazione è il come della nascita di Gesù. La necessità di questa spiegazione è legata alla frase speciale da lui stesso adoperata nel precedente v. 16, con cui si conclude il quadro genealogico di «Gesù Cristo, figlio di Davide,  figlio di Abramo» (1,1). Mentre per tutti i personaggi del quadro si segue lo schema “Tizio generò Caio…”, per Gesù Cristo, e solo per lui, si adopera una frase diversa e sorprendente: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo» (v. 16). Quando l’evangelista, nell’albero genealogico, ha voluto ricordare la madre di un personaggio (il che si è ripetuto quattro volte), lo ha fatto mettendo sempre in rapporto col padre la nascita del figlio, p. es.: «Booz generò Obed da Rut» (v. 5). Per Gesù, invece, l’evangelista ha nominato Giuseppe solo per dire che egli fu «lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù». Una frase del genere esigeva una spiegazione. Il nostro brano assicura il lettore che avrà la spiegazione.

Essa viene data sotto forma di una narrazione ovvero di un racconto. Da dove l’evangelista abbia preso gli elementi costitutivi del racconto è certamente argomento che merita di essere indagato. Ma questo problema non deve impedirci di cogliere la verità di fede che egli vuole comunicarci. Questa verità è che Gesù è nato per la potenza creatrice dello Spirito divino, escludendo l’apporto generativo di Giuseppe. La teologia cristiana posteriore escogiterà concetti desunti dalla metafisica e attingerà alla terminologia filosofica, per dare al mistero una formulazione ragionevole. Ma l’evangelista non ha ancora queste risorse. Egli si accinge a raccontare, nel suo libro i fatti e le parole di Gesù. Parole e fatti che spingeranno il centurione, comandante del drappello militare che ha eseguito la crocifissione, ad esclamare: «Davvero costui era figlio di Dio!» (Mt 27,54).

Il nostro racconto può essere strutturato in tre parti. La prima parte contiene quello che può essere considerato l’antefatto: ci viene detto che Giuseppe e Maria si erano ufficialmente impegnati al matrimonio, davanti a testimoni (era questa, in quel tempo, la prima fase del matrimonio tra ebrei, che escludeva i rapporti coniugali) e attendevano di giungere alla seconda fase del matrimonio (la effettiva convivenza, che includeva i rapporti coniugali). Nella parte centrale del racconto, ci è detto come accade il grande mistero della concezione verginale di Gesù; prima che tra i due cominciasse la convivenza coniugale, iniziò, nel seno di Maria, il mistero della generazione di Gesù (v. 18); Giuseppe, uomo giusto, non esitò a cedere il passo a Dio e ai suoi piani misteriosi (v. 19); ma un angelo di Dio intervenne a fargli sapere, in sogno, che Dio includeva anche lui nel suo piano, orientato alla salvezza del mondo, dovendo egli imporre il nome a colui che sarebbe nato dallo Spirito Santo (vv. 20-21). Per sigillare la credibilità dell’avvenimento, che avvolge il messaggio di fede, l’evangelista cita la profezia di Is 7,14, che egli può rendere addirittura più esplicita di quanto non fosse nel testo originale, attingendo alla luce del fatto verificatosi (vv. 22-23). La parte conclusiva del racconto è racchiusa nel v. 25, che ribadisce il mistero della nascita verginale di Gesù, dicendo che Maria, «senza che egli (Giuseppe) la conoscesse, partorì un figlio che egli chiamò Gesù».

Il problema della composizione letteraria del nostro brano bisogna tenerlo distinto da quello del suo significato di fede. Esso merita certamente di essere approfondito, ma solo dopo avere accolto il messaggio salvifico, con le risorse della raffinata critica letteraria.

Meditazione

L’annuncio della venuta del Signore, che domina l’Avvento, diviene nella IV domenica, annuncio dell’incarnazione, della sua venuta nella carne, evento annunciato nella profezia isaiana della nascita di un bambino, un discendente regale (I lettura) manifestato dall’annuncio angelico a Giuseppe della nascita di un figlio da Maria per opera dello Spirito santo (vangelo), proclamato dalla confessione di fede che contiene l’annuncio del Figlio nato dalla stirpe di David secondo la carne e costituito Figlio di Dio secondo lo Spirito mediante la resurrezione (II lettura) . Questo annuncio chiede fede e obbedienza: se Àcaz, con la sua disobbedienza, mostra la sua incredulità (I lettura), Giuseppe crede all’angelo e gli obbedisce (vangelo); ciò che Dio ha compiuto in Gesù Cristo e che l’Apostolo annuncia agli uomini è volto a ottenere «l’obbedienza della fede» da parte delle genti, ovvero, la fede che si esprime come obbedienza e l’obbedienza che è fondata sulla fede (II lettura). Vi è un intrinseco rapporto tra fede e obbedienza: la fede consiste nell’obbedire e l’obbedienza consiste nel credere.

Il testo matteano, chiamato «l’annunciazione a Giuseppe», pone in rilievo la figura di Giuseppe quale uomo di fede e di silenzio. Il silenzio di Giuseppe è segno di forza, di lavoro interiore, di dominio di sé e delle situazioni, di fede. Ed è un silenzio che trova luce nel buio in cui Giuseppe è sprofondato. La gravidanza di Maria mette in crisi la storia che egli stava progettando con lei, eppure il testo biblico suggerisce che non vi è situazione umana, per quanto lacerante o dolorosa o contraddicente, che non possa essere vissuta con umanità e con santità.

Se la reazione normale sarebbe stata quella di ripudiare la donna, «Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Invece di ripudiare Maria, abbandonandola al generale disprezzo e compromettendola pubblicamente, Giuseppe sceglie un’altra soluzione, sceglie una via giusta e umana, giusta perché umana. La giustizia di Giuseppe è nel suo essere umano.

«Il giusto dev’essere umano» (Oportet iustum esse et humanum: Sap 12,19). Solo questa giustizia, infatti, onora l’immagine di Dio che è nell’uomo, nel creditore come nel debitore, nel santo come nel peccatore. La giustizia umana di Giuseppe guarda alla persona di Maria e non la sacrifica a un’interpretazione letterale delle leggi in cui della persona si vede solo il peccato, la mancanza, l’errore. Vi è qui una parola forte che mette in guardia i cristiani dal rischio di inumanità che i rapporti intraecclesiali possono sempre conoscere: quando il volto di una persona è cancellato dal suo ruolo, quando i singoli sono sacrificati alle leggi ecclesiastiche, quando le relazioni sono spersonalizzate e funzionali, quando la persona diviene mezzo e non fine. La chiesa «esperta di umanità» non può che essere umana, non può che dar prova di questa esperienza con una concreta e quotidiana pratica di umanità. L’annuncio dell’incarnazione diviene anche, per la chiesa, esortazione a essere umana.

Proprio su questa umanità si innesta la fede che va oltre la giustizia umana e realizza il volere di Dio portando Giuseppe a prendere con sé Maria come sua sposa. Così, lo scandalo diviene rivelazione, l’evento di contraddizione diviene occasione di obbedienza a Dio e di realizzazione della sua opera di salvezza. Non solo Giuseppe non rifiuta, non ripudia, non condanna, ma accoglie, prende con sé, comprende.

Questo cammino interiore che conduce Giuseppe all’obbedienza della fede avviene tramite la sua riflessione, il suo pensare (Mt 1,20) e tramite l’accoglienza della parola del Signore, parola condensata nella citazione scritturistica di Is 7,14 (Mt 1,22). Il sogno, in effetti, nel mondo biblico è mezzo di rivelazione in quanto veicolo di una parola di Dio. L’elemento decisivo nel sogno non è la visione, ma la parola: «In sogno io parlo a lui», dice Dio a Mosè (Nm 12,6). All’epoca di Gesù, il sogno era chiamato «piccola profezia» al cuore della notte e del sonno simbolo della morte, il sogno sorge come una piccola luce che può rischiarare la vita.

Commento a cura di don Jesús Manuel García