Enzo Bianchi – Commento al Vangelo del 8 Ottobre 2023

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Capaci di tradire e uccidere per possedere la vigna

Dopo essere entrato nella città santa di Gerusalemme in mezzo ad acclamazioni (cf. Mt 21,1-11) e aver compiuto il gesto della cacciata dei commercianti dal tempio (cf. Mt 21,12-17), Gesù torna nel tempio per annunciare con parabole la venuta del regno dei cieli. Oggi ascoltiamo la seconda di queste parabole, in realtà un’allegoria, indirizzata a quei sacerdoti e anziani del popolo che erano venuti a contestare Gesù interrogandolo sulla sua autorità, sull’origine della sua missione (cf. Mt 21,23-27).

Ancora una volta Gesù ripete l’invito: “Ascoltate!”, ridice questo comando tante volte gridato da Mosè e dai profeti. Si tratta di smettere di sentire soltanto, per imparare ad ascoltare con attenzione una parola che viene dal Signore, ad accogliere nel cuore questa parola al fine di operare un mutamento e realizzare ciò che il Signore chiede a chi è e vuole essere in alleanza con lui.

Eccoci allora di fronte a un’altra parabola che evoca una vigna, come già quella ascoltata domenica scorsa (cf. Mt 21,28-32). Nel Mediterraneo la vigna è la coltivazione per eccellenza, che comporta anni di lavoro, richiede cura e amore, esige un rapporto stabile e pieno di attenzione verso di essa da parte del vignaiolo. Basta pensare che la vigna è un impianto stabile, occupa il terreno per generazioni, non è come un prato o un campo che annualmente possono essere destinati ad altre coltivazioni. Proprio questo legame duraturo, questa vera e propria alleanza tra la vigna e il vignaiolo, generano un amore profondo ed appassionato da parte di chi lavora per la “sua“ vigna.

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Sono queste le ragioni per cui già i profeti avevano intravisto nell’amore tra vignaiolo e vigna una narrazione dell’amore tra Dio e il suo popolo ed erano ricorsi all’immagine della vigna per esprimere il rapporto di alleanza: una storia tormentata ma piena di amore tra il Signore e la sua proprietà, il suo tesoro (segullah: cf. Es 19,5; Dt 7,6, ecc.). Isaia, in particolare, aveva cantato “il canto di amore dell’amante per la sua vigna“ (Is 5,1; cf. vv. 1-7), raccontando di un vignaiolo che aveva vangato la terra, l’aveva liberata dai sassi e vi aveva piantato ceppi scelti di vite. L’aveva addirittura ornata con una torre in cui aveva posto un tino. Avendole dedicato tanta cura, si aspettava da essa uva buona e bella, invece quella vigna si era inselvatichita producendo grappoli di uva immangiabile.

Questa immagine era ben conosciuta da Gesù e dai suoi ascoltatori, perciò, non appena Gesù inizia la parabola dicendo che “un padrone aveva piantato una vigna“, i presenti capiscono subito di cosa si tratta: è una storia su Dio e su Israele, sua vigna. Questo canto che esprime la speranza di Dio e, nel contempo, l’incapacità del popolo di comprendere il suo amore, dunque un canto di accusa verso Israele, è stato conservato e tramandato proprio da Israele. Il popolo dell’antica alleanza non ha espunto dalle Scritture i rimproveri e i giudizi di Dio nei suoi confronti: questo va tenuto presente da noi quando leggiamo questa parabola e, facilmente, siamo tentati di puntare il dito contro questo popolo, fino a gloriarci di essere noi il popolo del Signore al quale è stata data la vigna tolta ad altri. Stiamo attenti, perché questa parabola che Matteo colloca nel vangelo indirizzato ai cristiani riguarda certamente i capi religiosi di Israele, ma riguarda anche i capi che sono nella chiesa e riguarda pure noi!

Ebbene, questo proprietario della vigna, che l’ha piantata e l’ha dotata di tutto il necessario perché fruttifichi, la affida a dei contadini perché la lavorino in sua assenza: la vigna continua a essere sua proprietà, ma è affidata ad altri uomini in tutto il tempo della presa di distanza e dell’allontanamento da essa da parte del Signore. Giunge però l’ora della vendemmia, un giorno preciso in cui le uve sono mature, all’inizio dell’autunno, e allora il padrone manda alcuni suoi servi dai vignaioli per ritirare il raccolto con cui produrre il vino. Perché il raccolto resta suo, come la vigna è sua! Ma nel frattempo è sorta in quei vignaioli la tentazione di essere loro i padroni della vigna, perché il padrone ha tardato molto tempo prima di ritornare.

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Questa è la tentazione di chi è stato posto dal Signore come primo, come più grande, come lavoratore nella sua vigna: spadroneggiare sulla vigna, pensarla come proprietà personale, sostituendosi a colui che deve invece solo rappresentare nel servizio. Così quei vignaioli, all’arrivo dei servi inviati dal padrone, reagiscono con un rifiuto violento. Colpiscono alcuni e ne uccidono e lapidano altri, per farli scomparire. Il Signore però pazienta, continua ad aspettare il frutto della vigna e invia altri servi, in numero più grande di quanto fatto nella prima missione. Ma anche questi vengono trattati allo stesso modo, subendo rifiuto e rigetto.

Il Signore dunque nella sua makrothymía (sentire in grande, pazienza) fa un ultimo tentativo. Siccome spera ancora, decide di inviare suo figlio, che ha più autorità dei servi. La sua speranza profonda è che, vedendo il suo figlio amato, i vignaioli sentano di avere di fronte a sé il signore stesso e dunque, portando rispetto a lui, gli consegnino il frutto della sua vigna. Ingenuità di questo padrone? No, da parte sua c’è la volontà di restare in alleanza con i vignaioli a cui ha affidato la vigna. Cosa avviene invece? Quei vignaioli, “al vedere il figlio”, aumentano ancora di più il desiderio di essere padroni, di avere potere sulla vigna, perciò dicono tra sé: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra!”. Innanzitutto escludono il figlio dalla sua vigna, prendendolo e gettandolo fuori, poi lo uccidono; prima lo portano “fuori”, fuori dalla vigna, fuori dalla città (cf. Lc 4,29; Mc 15,20; Mt 27,31; At 7,58), poi lo eliminano.

Gesù racconta questa allegoria alla vigilia della sua passione, la racconta proprio per quelli che la metteranno in pratica contro di lui, fino a rigettarlo fuori dalla città e a crocifiggerlo. Così Matteo ci mostra che Gesù ha coscienza di essere il Figlio inviato dal Padre nella vigna di Israele, sa ciò che lo attende come fine (télos) della sua missione in questo mondo e non si sottrae a questa necessitas humana inscritta nella storia: in un mondo ingiusto, il giusto può solo essere rigettato fino a essere eliminato! Gesù sa che il Padre non l’ha mandato nel mondo perché subisca la morte violenta; sa che il Padre, come il padrone della vigna, lo ha inviato perché sperava, perché spera di essere accolto.

E anche se questa è la fine dolorosa che lo attende, Gesù sa che l’ultima parola spetta comunque al Padre. Conoscendo le sante Scritture e pregandole, sa infatti che – come sta scritto – la pietra che proprio i costruttori (questo è il termine con cui si chiamavano i capi religiosi del tempio) avrebbero scartato, messo fuori dalla costruzione, Dio l’avrebbe scelta e posta come testata d’angolo, facendo poggiare su di essa tutta la costruzione. Gesù crede, aderisce a questo piano di Dio profetizzato e cantato nel salmo 118.

Questa parabola risuona certamente come un giudizio di Dio: non però sul popolo d’Israele, ma su quei capi del popolo che hanno rigettato e condannato Gesù. Matteo, infatti, registra subito la loro reazione: cercano di catturarlo ma hanno paura della folla, per questo decidono di rimandare di qualche giorno il loro piano, attendendo una situazione più propizia (nella notte e nel Getsemani, dove non ci sarà la folla dei suoi seguaci; cf. Mt 26,47-56).

Hanno infatti compreso che quella parabola individua proprio in loro i vignaioli omicidi. Ma la parabola dice che questo sarà pure il giudizio sulla chiesa, soprattutto sui suoi capi. La vigna è stata tolta a quei capi di Israele e data una nuova collettività umana (éthnos): la comunità dei poveri nello spirito, dei miti che, secondo la promessa del Signore, erediteranno la terra (cf. Mt 5,5; Sal 37,11), a quel popolo umile e povero costituito erede per sempre dal Signore (cf. Sof 3,12-13; Is 60,21; Ger 30,3). 

Certo, al suo interno ci saranno ancora dei pastori, dei capi, dei primi, ma stiano attenti a non essere come i vignaioli della parabola. La loro tentazione, infatti, è quella di occupare tutto lo spazio ecclesiale, assolutizzando i loro progetti e chiedendo obbedienza a sé; la loro tentazione è quella di sostituirsi al Signore, magari con il semplice stare al centro, sentendosi non servi dei servi, ma padroni. Anche nella chiesa può accadere come nella parabola.

E, se anche in essa non si manifesta la violenza fisica (come però è purtroppo avvenuto in altre epoche storiche!), oggi magari si pratica la violenza del non ascolto, del rifiuto, dell’emarginazione, della calunnia, del disprezzo, della manipolazione, dell’abuso psicologico. Queste le tentazioni dei vignaioli perfidi, ma anche, qui e ora, di chiunque nello spazio ecclesiale, nella vigna, esercita l’autorità. Non si scarichi dunque l’accusa di questa parabola su Israele, ma si pensi a noi, oggi, nelle vigne delle chiese.

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi