Don Luciano Labanca – Commento al Vangelo del 2 Maggio 2021

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Senza Cristo non c’è frutto

Il contesto di questo brano del capitolo 15 del Vangelo di Giovanni si colloca in quella densissima parte del IV Vangelo che segue la narrazione della lavanda dei piedi (cfr. Gv 13,1-20) e precede i racconti della Passione. I capitoli 14, 15, 16 e 17 sono definiti dagli studiosi come “discorsi di addio” e furono pronunciati da Gesù “nella stanza del piano superiore” (At 1,13). Essi offrono le vette più alte e gli abissi più profondi della rivelazione del cuore di Cristo. Il passaggio che viene offerto alla nostra meditazione in questa V domenica di Pasqua, è tutto costruito attorno all’immagine della vite e i tralci, attraverso la quale Gesù rivela la sua identità e missione, in profonda unione con quella dei suoi discepoli.

La solennità della sua autorivelazione è data dall’espressione iniziale “Io Sono”, con tutto lo sfondo anticotestamentario della rivelazione di YHWH al roveto ardente (Es 3), compiutasi in Gesù, che attraverso il mistero dell’Incarnazione è divenuto il vero e definitivo rivelatore del Padre (cf. Gv 1,18). L’immagine della vigna non è nuova alla Scrittura: in Isaia 5 e nei Vangeli sinottici (Mt 21,33-44, Mc 12,1-11 e Lc 20,9-18) è sempre associata al popolo di Israele e alla Chiesa. In Giovanni la rivelazione di Gesù fa un passo ulteriore: la vigna, quella “vera”, in forza del mistero dell’Incarnazione diventa Lui stesso. Dio, in Cristo, decide di diventare la vite vera, unendosi all’umanità e alla Chiesa in maniera irrevocabile. Dio, sposando il suo popolo, finisce per identificarsi con questa stessa umanità, diventendo con essa una cosa sola nel mistero del Verbo Incarnato. È una pianta singolare la vite: il suo legno nodoso, rugoso e intrecciato, dice sofferenza, sacrificio e totale dedizione verso un frutto dolce, ricco e succoso. Tale è Cristo per il suo popolo e la sua Chiesa: Egli si è lasciato consumare sulla croce perché i suoi tralci, i discepoli, portassero frutto abbondante.

Il Padre, che Gesù descrive come l’agricoltore veglia in modo che il legame fra Cristo-vite e i discepoli-tralci sia fecondo e garantisca sempre il frutto sperato. Chi non si lascia nutrire dal dono d’amore del Figlio, generando frutto, viene tagliato via: è questo il serio rischio di rimanere fuori dalla vita divina per sempre. Chi non porta frutto, nel Figlio, diventa un peso per la vite e viene eliminato. Al contrario, chi porta frutto, necessita di costante potatura, per portare ancora più frutto. L’immagine della potatura ci ricorda che la vita cristiana è sempre in salita e necessita di un dinamismo continuo di crescita e conversione. Perché la vita divina in noi, attraverso la relazione esistenziale con Cristo, attecchisca e porti frutto, Dio ci sottopone ad interventi continui di potatura, per eliminare ciò che in noi è di ostacolo al passaggio della linfa dello Spirito. Questo avviene con rinunce, scelte, tagli netti nei nostri progetti, nei nostri desideri, nelle nostre parole e nelle nostre azioni, quando si pongono in opposizione a questo essere in Lui.

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È la Parola, lo strumento efficace di cui Dio si serve per operare queste continue purificazioni in noi. L’autore della Lettera agli Ebrei ce lo ricorda: “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). Lasciandoci crocifiggere dalla Parola viva non perdiamo il nostro legame con la vite vera e possiamo rimanere in essa. Mentre la tendenza della cultura di oggi e della frenesia del mondo è quella di condurci al continuo cambiamento, alla fuga, anzitutto da noi stessi, alla ricerca continua della novità, dell’inesplorato e dell’esotico, l’invito di Gesù è quello a rimanere con Lui, nella stabilità della fede e dell’amore vero, dove possiamo veramente realizzare la nostra vocazione umana e cristiana che dà gloria a Dio e luce al mondo.


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