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don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 23 Dicembre 2023

Commento al brano del Vangelo di: Lc 1, 57-66

Si chiamerà Giovanni

Alla nascita del proprio figlio, quando tutti i parenti avrebbero voluto imporre il nome del padre al bambino, Elisabetta, l’unica in grado di riconoscere e leggere ciò di cui quel figlio era segno, non teme di gridare il suo “no”. E lo fa non già a casa ma durante la liturgia giudaica della circoncisione del bambino in un contesto pubblico. Si tratta, cioè, di un contesto in cui la donna, mai come in quel momento, avrebbe dovuto tacere.

Luca apre il suo vangelo con il “sì” di Maria all’annuncio dell’angelo e il “no” di Elisabetta a una tradizione inveterata. Con quel “no” Elisabetta sta dicendo che quanto accadrà da ora in avanti va letto e affrontato in un altro modo.

Il no di Elisabetta dà voce a tutta l’attesa che Israele viveva in quel tempo. Israele attendeva da Dio la consolazione, la gioia, la giustizia, uno scatto di vita, ma probabilmente se lo aspettava sulla linea di quanto accaduto finora. La vicenda di Maria e di Elisabetta, invece, annuncia che Dio cambia ogni cosa e chiede che nessuno cristallizzi la presenza di Dio secondo categorie che ora hanno ceduto il passo a qualcosa di inimmaginabile.

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Non era prassi comune che fossero le donne a dare il nome al proprio figlio ma quando questo accadeva era per riconoscere in lui qualcosa di insperato, una sovversione della propria condizione di umiliazione, un riconoscere che in quella nascita era all’opera la misericordia stessa di Dio. Era accaduto così ad Agar che aveva chiamato il proprio figlio Ismaele perché il Signore aveva udito il suo lamento; era accaduto a Lia con Ruben: il Signore ha visto la mia umiliazione; era accaduto ancora a Rachele con Giuseppe: il Signore mi aggiunga un altro figlio.

“No! Si chiamerà Giovanni!”. Quel nome è nel suo stesso DNA: il dono di Dio, Dio fa grazia. Quel figlio era venuto quando ormai non lo si attendeva più perché sarebbe stato impossibile.

I parenti non se ne stanno e fanno pressione: è proibito mettere un nome che non è nel proprio albero genealogico. Si deve chiamare Zaccaria, il nome della memoria, il nome della tradizione, il nome di ciò che il padre rappresenta. Ma cosa rappresenta Zaccaria? Un sacerdozio che non è in grado di accogliere quanto Dio vuol operare nella propria vita. Un sacerdozio che non è in grado di trasmettere la voce di Dio al popolo che è in attesa. Quel nome, paradossalmente, finisce addirittura per essere di ostacolo al “dono di Dio”.

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Ma non c’è verso. Nonostante il no di Elisabetta, i parenti la ignorano com’era prassi che accadesse. È al padre che spetta dare il nome. È questione di vita o di morte. Ed ecco la sorpresa, finalmente. Fattasi dare una tavoletta, dal momento che non poteva parlare, Zaccaria conferma quanto attesta sua moglie: “Giovanni!”. Proprio in quel momento la sua lingua si scioglie e può parlare nuovamente. Il primo segno operato da quel dono di Dio è la possibilità di parlare ridonata al padre.

È la fede che ha permesso ad Elisabetta di saper cogliere quanto di nuovo Dio stava operando. È la sua fede che ha salvato anche suo marito restituendo la voce propria ad un tipo di sacerdozio che era diventato muto. Il sacerdozio di Zaccaria custodiva e ripeteva dei riti senza aprirsi più a ciò che Dio avrebbe voluto compiere.

In contesti che non hanno nulla di sacro come potevano essere le case di Maria ed Elisabetta, due donne diventano il canale mediante il quale si attua un cambiamento epocale. Due donne vengono in soccorso di un intero popolo che attende il compimento della promessa.

“Solo le donne, le madri, sanno che cos’è il verbo “aspettare”. Il genere maschile non ha né costanza né corpo per ospitare attese” (così Erri De Luca in Nocciolo d’oliva).

Maria ed Elisabetta “hanno corrisposto con entusiasmo e rischio, umiltà e audacia, libertà e coraggio alla creatività di Dio” (R. Virgili).

Luca restituisce loro un vero e proprio ministero di mediazione a fronte dell’incapacità di esercitarlo da parte dei ministri del tempio.

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