don Antonino Sgrò – Commento al Vangelo di domenica 27 Novembre 2022

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1a Domenica di Avvento

Avvento, dalla mancanza di visione alla visione di Dio

«Viene il Figlio dell’uomo». L’annuncio del ritorno di Cristo può suonare come una minaccia o come una speranza, o più spesso come una parola vuota. Da cosa dipende? Da come hai impostato la vita, dal posto che hai riservato a Gesù all’interno della tua visione. Papa Francesco ha parlato già da cardinale di ‘visione’ e ancor di più di ‘mancanza di visione’: è l’esaltazione del «presente come unica dimensione del tempo, che pone l’occupazione di spazi come fine ultimo dell’attività politica, sociale ed economica».

Se la vita si risolve nel presente, è la conclusione dell’esistenza, non la prospettiva di un oltre a determinare il modo di vivere; sicché io cercherò di succhiare il più possibile la linfa della vita attraverso esperienze e godimenti molteplici, pensando che la mia pienezza consista nel soddisfare sempre più bisogni; in quest’ottica, ogni fallimento sarà visto come motivo di frustrazione insopportabile.

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Se invece la vita è un tratteggiare un’opera meravigliosa che Dio ispira, di volta in volta completa e alla fine renderà perfetta, essendo l’eternità il rivestimento ultimo che l’Amore pone a quanto realizzato in comunione col Signore, anche i tentativi umani falliti, ma concepiti in buona fede, si trasformeranno nell’attesa fiduciosa dell’intervento benefico di Dio. Nel primo caso l’uomo sceglie di vivere da solo e attribuisce a sé meriti e insuccessi; nel secondo fa tutto con Dio, e l’esperienza ci dice che nella vita ha valore duraturo soltanto ciò che facciamo con Gesù, mentre quanto fatto indipendentemente da Lui finisce nel nulla.

L’inizio di un nuovo anno liturgico può costituire dunque un ripensamento della nostra visione, dalla mancanza di essa al desiderio un giorno della visione del Figlio dell’uomo, che ci introdurrà nel regno d’amore eterno. La generazione del diluvio era schiacciata su un presente materialistico; quando è così, l’amore non trova spazio perché ha bisogno di un respiro ampio. Mangiare e accoppiarsi, le funzioni vitali dell’uomo, «come nei giorni che precedettero il diluvio», possono rimanere operazioni puramente naturali o diventare il veicolo dell’amore che vuole «avviare processi», altra espressione tipica del Pontefice, ossia generare relazioni e opere che abbiano la forza del seme che cresce e dà frutto duraturo.

Se c’è un’intenzionalità di amore in tutto ciò che faccio, neanche la morte può sorprendermi; se sto con Gesù, vivrò sulla mia pelle che persino la morte si arrende a Lui. Noi sperimentiamo già da questa terra la vittoria dell’amore sulla morte quando ci sacrifichiamo per amore di qualcuno, fino all’offerta totale della vita: una mamma che antepone alla propria esistenza quella del figlio che porta in grembo, in realtà non muore, dà la vita.

La storia di Noè dovrebbe esserci maestra e succederà anche a noi: pur nell’uguaglianza delle occupazioni, «uno verrà portato via e l’altro lasciato», uno sarà coinvolto nel disegno di salvezza e l’altro rimarrà fuori, a seconda di come conduce la vita, della dedizione alla volontà di Dio in ogni cosa compiuta. Il linguaggio apocalittico non vuole terrorizzarci ma svegliare dal torpore chi ritiene di poter rimandare l’unica cosa che conta, l’amare, e in tal modo ci aiuta a dare ad ogni istante della vita un contenuto di amore.

Ovviamente ciò richiede un grande impegno e l’immagine successiva del macinare la mola può ben rendere l’idea di un lavoro che deve essere generativo di vita evangelica. Se è vero che in Esodo e in Isaia la rappresentazione della donna che macina è usata per descrivere il giudizio punitivo di Dio che si abbatte su un’attività familiare ed essenziale in quanto ordinata al nutrimento, tanto più che è compiuta da una donna, responsabile del sostentamento della casa, è bello cogliere nella medesima immagine un residuo di speranza: il grano è l’elemento materiale dell’Eucaristia, quasi a dire anche qui che chi pone gesti eucaristici, donando se stesso, non muore mai.

L’ultima metafora è quella del padrone di casa che conosce l’ora del ladro e non si lascia derubare. Noi conosciamo ‘l’ora’ del Figlio: è quella presente, è ogni ora; per questo non saremo sorpresi dal suo passaggio ultimo o penultimo nella nostra vita. Il richiamo alla vigilanza è l’appello forte che il vangelo ci rivolge. Se sei vigile, puoi dire fin da adesso di vedere l’invisibile, puoi tracciare linee di speranza, perché diventi la sentinella che annuncia a tutti il tempo della liberazione ormai alle porte. «Viene il Figlio dell’uomo», per rivelarci il Padre, per ricordarci che siamo figli.

Testo tratto (per gentile concessione dell’autore) dal libro “Parole che si vivono. Commenti ai Vangeli della Domeniche dell’Anno A” disponibile presso:

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