don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 8 Giugno 2025

Domenica 8 Giugno 2025 - DOMENICA DI PENTECOSTE - SOLENNITÀ - ANNO C
Commento al brano del Vangelo di: Gv 14,15-16.23b-26

Data:

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Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste io ricordavo le parole del Battista, avevo la netta impressione che solo l’immersione in un battesimo di Fuoco di Spirito mi avrebbe salvato, sentivo distintamente che dovevo essere ricreato, avevo come sangue secco e vecchio nelle vene, non potevo continuare a vivere così, percepivo che non mi sarebbe più bastato naufragare nei miei nobili pensieri, che era sfiancante mulinare nel tentativo di credere a forza di ragionamenti, di prove, di dimostrazioni che non bastavano mai.

Io avevo bisogno di lasciarmi incendiare dal fuoco della Sua presenza, avevo vitale bisogno che Lui, Lui in persona, si chinasse sul fango della mia esistenza e mi baciasse a vita nuova. Avevo bisogno di essere abitato da Dio, non lo sapevo ancora, e credo che si possa capire solo quando questo accade, ma io dovevo sentirlo scorrere come fuoco nelle vene, dovevo diventare un roveto ardente della sua presenza nel mondo, oppure tanto valeva morire, non essere più.

Si trovavano tutti insieme nello stesso luogo, e io con loro, tra loro, ma la sensazione era strana, eravamo frantumi, macerie, invecchiati dal dolore e dalla paura e dal dubbio, forse pronti a vivere solo di ricordi, a interpretare la parte delle vittime, sedotti e abbandonati, e soprattutto incolpevoli, ci eravamo fidati e siamo stati delusi, non era colpa nostra. Eravamo reduci e ci mancava niente dall’essere ingoiati dalla nostalgia. Avremmo sfinito il mondo con i nostri ricordi e in fondo ci saremmo sentiti per sempre innocenti, era Lui che ci aveva abbandonato. Credo che una delle tentazioni più grandi nella vita sia proprio questa, collocarsi tra i perdenti e crogiolarsi in quel che poteva essere e non è stato. Io non so se la fede sia un dono, di sicuro quel dono rimane inespresso se in noi non c’è il coraggio di esporsi al rischio del futuro. Più ancora, non può esserci dono se non ci si slega dagli ancoraggi della nostra vita misera ma rassicurante, se non si accetta di perdersi.

Venne all’improvviso dal cielo un fragore, all’improvviso, perché la vita è così, l’amore è così, la fede è così, puoi predisporre l’incontro con mille accorgimenti, puoi sfiancarti di ragionamenti ma poi o il cielo si apre all’improvviso e si strappa e ti partorisce a una vita totalmente nuova oppure non restano che mille parole che non reggono il confronto con il dubbio. O si lacera il Cielo partorendoci dall’alto oppure, semplicemente, non nasciamo alla fede. Il vero rischio, la paura che ci frena, è zittire il fragore del cielo per paura,  perché noi, in fondo, preferiamo stare a cielo chiuso, diciamo che vorremmo avere la fede ma poi, poi rimaniamo al coperto, un cielo muto da incolpare e una vita destinata a un comodo fallimento.

Il fragore, il fragore vero fu quello prodotto dal mio orgoglio in frantumi. Non so se riesco a spiegarmi ma quello che ho sentito distintamente lì, in mezzo a tutti, è che il Cielo mi stava strappando gli alibi, non avrei più potuto essere il discepolo romantico tradito dai sogni dell’ennesimo messia fallito, non avrei potuto vivacchiare ripetendo insegnamenti di un maestro troppo buono per il mondo, niente di tutto questo, il Cielo mi strappava quelle sicurezze e mi costringeva a fare spazio a Dio nella mia carne. Nella mia carne! Non nei pensieri, non nelle idee ma io corpo di Cristo. Il fragore fu terribile, accettare quell’invasione divina significava essere disposti a far morire l’uomo vecchio, a far morire la mia immagine pubblica, a morire in croce come lui.

Quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Un soffio, il bacio divino, la mia e nostra Genesi, in quel momento l’Universo intero divenne sua casa e Lui palpitò in ogni cosa. Non so dire se il battito divino già fosse presente al mondo, non so dire se ero io che non sapevo ascoltarne il fremito, però so che da quel momento ogni istante della mia vita è abitato evidentemente dalla sua presenza. Tutto è pieno di Lui! A me sembra solo che tutto esista per Lui. Come se credere fosse solamente stare, stare immersi nella sostanza divina, e ringraziare, ringraziare continuamente per il miracolo di essere in Lui.

Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno e finalmente le nostre parole bruciarono di vita, finalmente i nostri suoni ardevano di senso, di coraggio, di profezia. Era l’annientamento della banalità, avevamo delle armi tra i denti, eravamo incatenati al rogo di un mandato, incendiare la mediocrità, dare fuoco al vuoto, annientare la superficialità. Ma anche, soprattutto, sussurrare calore con parole che fossero davvero parole d’amore. Parole in grado di resuscitare vita dalle tombe. Parole calde che sciogliessero i ghiacci del rancore.

 E tutti furono colmati di Spirito Santo, noi, tutti, da quel momento traboccanti della presenza di Dio, come le anfore di vino a Cana, come le ceste dei pani miracolosamente condivisi, come tutto ciò che accetta di lasciarsi ingravidare qui ed ora da un Infinito presente.

 Cominciarono a parlare in altre lingue, perché la lingua vecchia era inservibile, e anche io balbettai suoni inediti, lo Spirito ci aveva svelato la grammatica intima del creato, ogni cosa parlava di Lui, dovevamo solo suscitarla con carezze mistiche e poetiche, dovevamo solo essere docili, assecondare il nuovo modo in cui lo Spirito dava il potere, l’unico potere che non fa paura, l’unico potere che non annienta l’avversario, l’unico potere che non uccide il fratello, il potere di esprimersi. Che è un movimento che abita l’intimo di ogni cellula, di ogni atomo, che è la grande vocazione, come uno sbocciare ininterrotto di quel Dio che preme dal cuore di ogni cosa per manifestarsi. Perché ogni cosa esiste solo per esprimere l’amor che muove il sole…

Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehòpagina Facebook

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