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don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 4 Febbraio 2024

Commento al brano del Vangelo di: Mc 1, 29-39

La sinagoga

Poi dalle sinagoghe bisogna uscire, arriva un giorno in cui bisogna avere il coraggio di prendere le distanze da tutto ciò che crediamo di sapere rispetto al mondo del “sacro”. Poi ci si deve ritornare, in sinagoga, poi, forse, ma comunque diversi. Quel sabato Gesù esce dalla sinagoga.

Uscire, uscire dalle sicurezze di sapere chi sia quel Dio che ci hanno fatto pregare fin dalla nostra infanzia, uscire dalle sinagoghe dove non si riesce ad andare oltre lo stupore, oltre il parlare di Dio senza però mai farsi afferrare da Lui fino in fondo. Sarà un sabato, probabilmente, sarà che sentiremo che lo spazio del sacro non può essere solo quello tra le pareti di un tempio, sarà doloroso perché bisognerà allontanarsi da molte sicurezze, sarà come partire per un’altra terra e non sapere cosa si troverà, non sapere come ci si ritroverà, sarà affidarsi a una manciata di stelle e a tanta paura, credere sarà finalmente un Esodo.

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La casa

Entreremo così nelle case degli affetti, non ci basteranno più le liturgie perfette e nemmeno le nostre appartenenze a correnti di pensiero, poco importa se ci sentivamo a casa tra i cosiddetti progressisti o tra i tradizionalisti, poco importa se ci siamo indignati, se abbiamo sperato in rivoluzioni post conciliari, se abbiamo costruito progetti pastorali avveniristici o se abbiamo recuperato antichi messali in latino, poco importa se meditiamo al suono di una campana tibetana o se ci inginocchiamo davanti a immagini devozionali, non importa più niente, o forse tutto importa per quel che deve importare, tutto è stato storia e percorso, di tutto si può ringraziare, ora però è tempo di andare, finalmente in Esodo. Restare sarebbe illudersi di credere, non vedere la sinagoga che ci siamo costruiti e in cui ci siamo rinchiusi.

Il letto

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Uscire dalla sinagoga invece, ma per scoprirci fermi, perché l’Esodo non è il nostro, non all’inizio almeno, Esodo prima di tutto è il Suo, è sempre il divino che prende l’iniziativa, l’alleanza è sbilanciata in Lui, così scopriamo che noi siamo la suocera di Pietro, abbiamo la febbre, siamo immobilizzati a letto, prigionieri evidenti dei nostri limiti. Ma almeno ora possiamo ammetterlo, eravamo fermi anche prima, imprigionati in una ragnatela di idee e di abitudini che ci illudevano, ora almeno lo sappiamo che siamo fermi, che siamo aguzzini di noi stessi, che abbiamo bisogno di essere liberati.

Credere è arrivare a dire che senza l’irruzione di Cristo nella nostra vita, senza che Lui oltrepassi la soglia, noi siamo solo dei poveri illusi, crediamo di poter cambiare il mondo, di poter cambiare la chiesa, crediamo di potere e invece non siamo niente, siamo solo piccoli esseri impauriti spinti nel mondo senza avere la capacità di reggerne il peso. Non siamo niente. E quando ce ne accorgiamo, finalmente, ci viene una febbre che ci impedisce di camminare, ci viene da avvolgerci in un bozzolo di sfinimenti, siamo come morti, da soli non riusciamo nemmeno a stare in piedi. Noi siamo la suocera di Pietro, fuori dalle sicurezze della sinagoga e inchiodati alle nostre incapacità.

Si può iniziare a credere solo facendo salire al cielo una litanica richiesta di liberazione. Senza sprofondare sotto le coperte della debolezza non si può credere. Non crede davvero chi non ha mai sentito la paura di non essere all’altezza della vita, chi non si è mai bloccato, chi non ha mai implorato di essere liberato. E il liberatore è solo Lui. Lui che oltrepassa il confine della nostra casa, della nostra intimità. Vero dramma è che si può passare tutta la vita a opporre resistenza, a difendersi, a convincersi che dobbiamo farcela da soli. Senza cedimento non c’è fede, si può morire avvolti da coperte egizie.

La sua mano

Lui si avvicina e ci fa alzare prendendoci per mano. Senza i fallimenti, senza il dolore per la morte di chi si è amato, senza i peccati, senza gli errori, senza il male che sento di aver inflitto ai fratelli, senza le delusioni per quel che mi son scoperto di essere, senza aver perso la faccia più volte, senza la miseria che so essere parte della mia vita come potrei aver fatto davvero esperienza di una mano che mi solleva?

E non è immagine solo vagamente poetica, non è simbolica, la vita di fede è davvero così, è Lui che mi solleva, non solo qualcuno che mi parla di lui, non solo i testimoni, è Lui, proprio Lui, il vivente, è l’incontro personale con il Risorto, è l’infinito che irrompe nel finito, è la vita che illumina la morte, è la misericordia che fiorisce sul peccato, senza questa esperienza noi possiamo essere uomini religiosi, ma certo non basta per essere liberati. Fede è Esodo personale. E avviene in casa, nella stanza più intima, nel segreto. Lì accade la Salvezza.

Come in Esodo la trasformazione sarà il servizio. Che vera libertà non è fuggire dall’Egitto ma intessere un decalogo moltiplicato per ogni giorno dell’anno fatto di attenzione e di custodia, fatto di vita accudita e di libertà condivisa. Il popolo nel deserto, per imparare la libertà, deve imparare il servizio. Per questo la suocera di Pietro si alza, per questo e solo per questo siamo al mondo, per respirare libertà nei gesti di servizio fraterno.

La porta

Il tramonto del sole e una porta, un giorno che finisce e un luogo di passaggio, malati e indemoniati chiedono di essere guariti. La suocera di Pietro è solo l’inizio, tutto un popolo chiede di essere guarito prima che il sole tramonti del tutto, c’è un popolo che chiede di essere liberato, e lo fa davanti alla porta della città, come a dire che siamo vivi per imparare a credere che esista una porta che attraversi la morte, che il vero Esodo è la resurrezione. Come a dire che questa è la chiesa, malati e indemoniati, se non ci sentiamo parte del gruppo moriremo di incomprensioni tra le mura rassicuranti delle nostre sinagoghe.

Il deserto

Credere è esperienza di Esodo, ecco perché Gesù al mattino presto si alza e si immerge nel deserto, e noi con Lui, perché senza preghiera non c’è fede, senza implorare che il Padre si mostri in noi, senza il bisogno fisico di intimità con il Padre noi potremmo solo parlare di cose di chiesa, di cose di dio, di cose… bisogno fisico, perché è il nostro corpo che implora di diventare lo spazio di accoglienza del Creatore, fame eucaristica, senza questa manna eterna, senza il pane del cielo che senso ha tutto quello che vediamo, che abitiamo, che soffriamo? Se non fosse tutto abitato dall’eucaristica consegna del Padre al Figlio e del Figlio al Padre che senso avrebbe vivere? Se non fossimo mangiatoia e sepolcro, se non dovessimo imparare la morte consegnandoci ogni giorno al padre come Cristo in croce che senso avrebbe tutto questo spreco di vita?

L’Altrove

I discepoli si mettono sulle sue tracce, e le impronte portano nel deserto, chiedono a Gesù di fermarsi, e lui inizia un cammino. Sempre altrove. I discepoli credono ancora che la vita sia una risposta ai bisogni, e lo crediamo anche noi, la nostra pastorale non è altro che una serie di risposte (illusorie) ai bisogni degli uomini… bisogno di sicurezza, di appartenenza, bisogno di pane, bisogno di gioia…. Cristo offre sempre un Altrove. Le risposte ai bisogni, anche le più raffinate, creano dipendenza, anche il faraone in Egitto rispondeva ai bisogni (tanto che il popolo in crisi più volte vorrebbe tornare indietro!), Cristo non risponde ai bisogni, li abita, li scardina, per portare le nostre vite sempre Altrove, perché siamo fatti per un Altrove, siamo fatti per un Altro, siamo di un Altro, abbiamo le nostre radici nell’Eterno.

Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehòpagina Facebook

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