don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 14 Febbraio 2021

Dio lebbroso

Sesta domenica del Tempo Ordinario anno B 2021

Come frana da un monte, come cumulo di macerie, relitto, dissoluzione della compagnia degli uomini, come fango, sassi, e rami a esondare il peso di una malattia che mangia la carne e l’anima. Coma a vomitare la condanna della solitudine. Quello che resta di un uomo è schianto ai piedi di Gesù, carcassa piagata e piegata dal rifiuto, discarica, grumo di dolore inginocchiato, poco importa se per cedimento o limpida preghiera. Lui è lì, apparente frattura di ogni divina immagine e somiglianza.

La supplica è flebile ma decisa, arriva da sotto le lamiere contorte di sentimenti e sogni calpestati, è solo un lebbroso tra i tanti, è in ginocchio e il suo essere venuto al mondo ormai gli sembra solo un incidente, uno scherzo tragico del destino.

“Se vuoi puoi purificarmi” questo dice, e se non fosse un relitto d’uomo a parlare bisognerebbe correggerlo, che c’è lebbra da togliere prima di tutto dalle sue parole, che forse non si ricorda che le cose buone della vita non obbediscono alle regole del “volere” e del “potere”?

“Se vuoi”, lebbroso è pensare che basti il “volere” a guarire la vita. Lebbroso il nostro cuore proprio quando si illude che la vita possa essere esattamente come la vogliamo. Basta volerlo, diciamo, e non c’è illusione peggiore.

“Basta che Dio voglia” pensiamo, e non c’è blasfemia peggiore. Perché se la vita poi non si piega ai nostri desideri cosa diciamo, che Dio non voleva? O che non abbiamo voluto noi il miracolo, pregando magari troppo poco? Non vi rispondo nemmeno, ditelo voi alle madri che perdono i figli, ditelo voi a chi sta morendo abbracciato all’amore della sua vita, ditelo voi. Conosco un uomo e una donna che stanno abitando un lungo doloroso addio, lo stanno facendo in queste ore, sono giovani e innamorati, ditelo voi a loro che Dio non vuole guarire, perché io non ci riesco. Non riesco a pensare a un Dio così. Non lo riconosco.

Mi trovo invece a pensare che non sia il “volere” lo spazio divino e umano da abitare ma “l’accadere”. L’accadere misterioso degli eventi, lo stupore con cui si vede tutto scorrere, e quell’angoscia anche, di quando proprio non puoi salvare tuo padre che sta morendo, l’amore che sta svanendo, la gioia che sta abbandonando, tuo figlio che sta partendo. Se il nostro fosse un Dio presente e silenzioso al muto accadere degli eventi? Se fosse il suo sorriso ed il suo pianto non tanto a volere ma ad accadere insieme a noi?

“Puoi”. Se non fosse lebbroso e schiacciato dagli eventi, se non fosse l’accumulo di una vita esclusa e violentata bisognerebbe dirgli che lebbroso è credere nel “volere” che diventa anche “potere”. Ma non ricordi amico mio che non potevi niente davanti alle lacrime, che non potevi pretendere che lei ti amasse, che non era in tuo potere nemmeno far crescere un fiore, che il sole non ti obbediva, e nemmeno la pioggia, nemmeno i desideri del tuo cuore potevi ammansire? Nulla di ciò che è vitale risponde agli ordini della nostra miseria. Nulla di ciò che è vitale è in nostro potere! Perché dovrebbe esserlo Dio? Perché mortificarlo così?

Ma cosa vuoi rispondere? Correggere un uomo morto? A cosa servirebbe? Spiegare non è forse l’illusione potente di un volere intellettuale? E poi c’è un cuore che si muove, quello è il vero miracolo, si chiama compassione e nemmeno Dio riesce a resistere. Quello è il vero miracolo, che ti viene da piangere e poi accarezzare. Che senti la tua vita legata all’altrui dolore. Che annulli le distanze, che prendi su di te il pianto. Quello il vero miracolo. Che Dio si lasci contaminare dal dramma di un cadavere d’uomo che non sa bene nemmeno cosa dire, ma che desidera almeno di non morire solo e risentito.

“Compassione” è l’unica risposta, e se subito andiamo a misurare la lebbra svanita e la guarigione forse è solo perché ancora non comprendiamo il grande e miracoloso accadere del cuore che si commuove. Ma quanti miracoli stiamo ignorando annebbiati dal mito della guarigione? Perché ancora non riusciamo a soffrire se il nostro cuore rimane rigido e impassibile? Perché non ci convertiamo all’unico onnipotente potere, che è quello di accarezzarla la vita, e accarezzare perfino la morte? E poi prendere per mano, lasciarsi amare e camminare insieme dentro l’accadere di questa vita che tra gioia e dolore non fa che balbettare il cuore del Compassionevole, Lui eterno spazio dove fioriscono fin d’ora a eternità le lacrime e i baci e tutte le nostre preghiere.

Poi Gesù fallisce, altro che “potere” e “volere”, nemmeno il silenzio del lebbroso è riuscito ad ottenere. E nemmeno la conversione del sacerdote. Cristo non ottiene ciò che chiede. Il lebbroso guarito non riesce a raccontare al sacerdote che il volto di Dio è compassionevole, che il tocco di Dio è il vero miracolo, che il Signore si fa carico di noi. Non riesce il miracolo a Gesù. Sarebbe stato così bello, per una volta, uscire dalle logiche di contrapposizione. Ma senza compassione non è possibile. Senza compassione rimane solo la paura e la riduzione di ciò che non si capisce a minaccia, eresia, scoria da allontanare. Senza compassione è il volto divino mostrato da Cristo a diventare lebbroso. E così avviene, Gesù è spinto un’altra volta nel deserto.

Non resta che ricominciare. Ad abitare il deserto come ai tempi di Esodo. Per ridisegnare da capo il volto del Padre. Con pedagogica pazienza, con cuore morbido di padre, con misericordia infinita, lasciando agli uomini tristi e religiosi sia il “volere” che il “potere”.

“Venivano a lui da ogni parte”, non resta che ripartire, c’è una Pasqua da imparare, un cuore libero da educare, sempre da capo, sempre dall’inizio, sempre di nuovo. Fino a quando capiremo, un giorno, che l’unico divino miracolo è un cuore che si commuove.  


AUTORE: don Alessandro DehòSITO WEB Leggi altri commenti al Vangelo della domenica

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