Ogni anno, alla fine e all’inizio del ciclo liturgico l’attenzione è puntata sul discorso che Gesù ha pronunziato a ridosso della sua passione. Avvicinandosi alla sua fine, egli punta lo sguardo sull’eternità, lo spazio-tempo che come casa natia lo accoglierà tra le braccia di quel Padre che ci ha insegnato a conoscere. Così, come a chiudere un cerchio, la fine del tempo ordinario e l’inizio di questo d’avvento si raggiungono e si saldano attorno l’evento decisivo, straordinario, che sarà il ritorno del nostro Signore Gesù nella gloria! Atto finale che ci permetterà di essere accolti e presentati da lui all’abbraccio del Padre.
Ma prima le potenze dei cieli saranno sconvolte…e ancor prima “metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome” (v. 21,12)). Quante volte i punti fermi del nostro cielo, improvvisamente rovesciati, ci hanno lasciato o ci lasciano angosciati, smarriti perché con essi son venute a mancarci le fondamenta del nostro vivere. Ciò che pensavamo eternamente stabile frana davanti a noi in un eccesso di male, in una escalation di conseguenze a catena.
Tutto è stravolto insieme, vita e morte, pace e guerra, bellezza e oscenità. E a un certo punto anche la croce, nella riprovazione generale, pare schiacciarci. È il caos originario, che, come in un evento di decreazione, si ripresenta alla fine della Storia perché si lasci spazio alla creazione definitiva, messa nelle mani di un figlio d’uomo, un figlio d’Uomo trasfigurato, il vero uomo compiuto “che viene su una nube con grande potenza e gloria”, messo a parte della condizione divina per realizzare finalmente quel Regno di giustizia e di pace, irrealizzabili, se non a sprazzi, sulla terra.
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È proprio l’avvicinarsi del suo martirio, quello che raccoglierà su di lui tutte le persecuzioni antiche, recenti, future, sia del popolo di Israele che di tutti i popoli oppressi, che porta Gesù a identificarsi in un’immagine simbolo, elaborata dalla fede di Israele due secoli prima. Nel libro di Daniele, lo scrittore inventore del genere apocalittico, la figura del “Figlio d’uomo” (Dan 7,13) era nata come risposta a un momento di pericolo mortale per il popolo ebraico, schiacciato dal giogo regale di Antioco IV, la cui persecuzione religiosa intendeva sradicarne la fede. Quella rivelazione, o apocalisse, dichiarava che, nel tempo del più efferato dominio del male, Dio sarebbe intervenuto per abbattere gli imperi oppressivi e ristabilire la sua giustizia.
Ecco allora il tocco personale del Gesù lucano: “Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”, invito a leggere tutt’intorno, proprio nei segni distruttivi, la realtà della promessa di bene che si compie: Il male non è l’ultima parola, le potenze del mondo oppressive e violente ma effimere, rappresentate nell’apocalittica come bestie mostruose, saranno rovesciate da Dio, e giungerà a compimento quella comunità perfetta del “Figlio d’uomo”, eterna, universale e pacifica.
La vostra liberazione … Che bella parola! usata qui per la prima e unica volta nei vangeli. “Respirate la nuova realtà che avanza, la dignità di figli redenti e liberati, perché perdonati. Fate attenzione a non rimuovere il pensiero del fratello, affogandolo nella cura sproporzionata di voi, a non stordire le tensioni della coscienza inebriandola di false emozioni o sfiancandovi nella moltiplicazione di impegni” Mentre “Vegliate in ogni momento pregando” è la vibrante consegna, quasi un testamento: “non lasciatevi vivere, non abdicate alla dignità di essere liberi e responsabili di un dono ricevuto.
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Svegliatevi dal torpore in cui dissimulare l’inerzia, l’impotenza ad agire in armonia con i progetti più belli. Essere presenti alle proprie scelte immette nella vita. Non saranno però sforzi personali che ce lo permetteranno. Solo l’umile preghiera ci donerà un Avvento, risposta amante al “Vieni” che scaturisce da una mancanza radicale: “Io sono un povero, un umiliato – o Dio, vieni presto per me – sei tu il mio aiuto e il mio liberatore – Signore non tardare più!” (Sal 70,6), “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19).
Da quando Gesù ha pregato, vegliando, per ricevere forza al Getsemani, lui il perseguitato innocente, sarà grido di ogni innocente. Sarà la ricapitolazione di tutti gli oppressi, di tutti gli innocenti perseguitati, che mitemente indifesi sono esposti al macello dell’odio e dello sterminio. Prima di coincidere con il raggiante Figlio dell’uomo che viene su una nube, nostro Signore non è che uno sconfitto, prossimo a essere sfigurato sulla croce.
Dopo sarà il tempo faticoso della Chiesa, che quotidianamente coniuga il “Venga il tuo Regno”, rivolta al Padre perché ancora una volta e per sempre si faccia vicino nel Figlio, mostrandoci il suo Volto, liberandoci dal male e realizzando la sua vera giustizia. Invocazione impegnativa, compromettente, che comporterebbe il coraggio di volere anticipare quel giorno. Perché l’attesa per “il giorno che verrà” è reciproca. E reciproca la trepidazione. Da parte dell’uomo: ho davvero il coraggio di chiedere un futuro che mi strapperà a questo presente, malgrado tutto, così attrattivo? Da parte di Gesù: “Il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?” (Lc 18,18).
Per il credente l’invito a pregare sempre vorrà dire leggere nelle realtà ordinarie che vive e condivide con gli altri un retroterra diverso, vorrà dire rapportarle a una fonte che dà freschezza, a una musica che vive dentro di lui e lo accompagna silente, a una luce gentile che gli rischiara l’oscurità.
Riposiamo allora sulle ultime parole della Scrittura: “Sì, verrò presto!” “Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,17-20).
Raffaella – Comunità Kairos.