Commento alle letture di domenica 9 Maggio 2021 – Carlo Miglietta

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Gli uni gli altri

Allèlous”, “gli uni gli altri”, è vocabolo che si ripete in maniera martellante in tutto il Nuovo Testamento: non solo bisogna “amarsi gli uni gli altri” (Gv 13,34; 15,12; Rm 12,10; 1 Tess 4,9; 1 Gv 3,11.23; 4,7.11-12; 2 Gv 1,5; 1 Pt 1,22), ma occorre “lavarsi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14), “gareggiare nello stimarsi gli uni gli altri” (Rm 12,10), “cessare di giudicarsi gli uni gli altri” (Rm 14,13), “accogliersi gli uni gli altri come Cristo accolse noi” (Rm 15,7), “salutarsi gli uni gli altri con il bacio santo” (Rm 16,16), “aspettarsi gli uni gli altri” (1 Cor 11,33), “non mentirsi gli uni gli altri” (Col 3,9), “confortarsi gli uni gli altri edificandosi” (1 Tess 5,11)… La Chiesa è il luogo della reciprocità, degli stretti rapporti di fraternità “gli uni gli altri”. 

Ma è anche il luogo del “syn”, il “con”, la condivisione, la compagnia: Paolo parla infatti di con-gioire, con-soffrire, con-lavorare, con-vivere, con-morire, inventando addirittura neologismi (1 Cor 12,26; 2 Cor 7,3; Fil 1,27; 2,17). I Cristiani devono “compatire” i fratelli, cioè saper “patire con” essi: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto” (Rm 12,15), “facendovi solidali con… gli esposti a insulti e tribolazioni” (Eb 10,33); “Se un membro (del corpo mistico di Cristo) soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1Cor 12,26). Gioire e piangere insieme significa vivere l’uno per l’altro. È l’abnegazione spinta ad un punto tale che l’altro sono io ed io sono l’altro, e così vivo la vita dell’altro (Fil 2,17-18): “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,39; 7,12).

“Tutto il Nuovo Testamento è attraversato dalla preoccupazione della comunione come apprendimento di una «forma vitae» contrassegnata dal «syn» (con) e dall’«allèlon» (reciprocamente): ciò si traduce in una costante tensione verso la capacità di sentire, pensare, agire insieme, verso la responsabilità di comportamenti segnati dalla reciprocità. E’ un cammino che nasce nel più elementare tessuto delle relazioni quotidiane e si concretizza in un movimento di fuga dall’individualismo per approdare sempre di nuovo alla condivisione. Il «télos» di tutto questo è ben espresso da Paolo in 2 Cor 7,3…: «Morire insieme e vivere insieme»” (E. Bianchi).

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Una Chiesa d’amore

Ha scritto Benedetto XVI che la Chiesa deve essere una “comunità d’amore”. Infatti l’unico criterio di ecclesialità datoci da Gesù è l’amore fraterno: “Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). I pagani del II secolo, ci riferisce Tertulliano, dicevano: “Vedete come si amano tra loro!”.

La dimensione più importante della vita ecclesiale è quindi l’amore fraterno: “Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10). Ciò che dobbiamo cercare nella Chiesa è l’amore reciproco, ad ogni costo, senza gelosie, senza finzioni. La Chiesa sia il luogo della cordialità, dell’accoglienza reciproca, dell’astensione dal giudizio, della vera e piena fraternità. La Chiesa, come abbiamo visto, deve essere il luogo dove le relazioni fraterne “gli uni gli altri” sono strettissime, e dove si è talmente “con” da formare davvero un solo corpo.

Nello stesso tempo dobbiamo essere una Chiesa che semina amore. Dobbiamo diventare sempre più “una Chiesa della compassione, una Chiesa dell’assunzione partecipante del dolore altrui, una Chiesa del coinvolgimento quale espressione della sua passione per Dio. Poiché il messaggio biblico su Dio è, nel suo nucleo, un messaggio sensibile alla sofferenza: sensibile al dolore altrui in definitiva fino al dolore dei nemici… La dottrina cristiana della redenzione ha drammatizzato troppo la questione della colpa e ha relativizzato troppo la questione della sofferenza. Il cristianesimo si è trasformato da religione primariamente sensibile alla sofferenza in una religione primariamente attenta alla colpa. Sembra che la Chiesa abbia avuto sempre mano più leggera con i colpevoli che con le vittime innocenti… Il primo sguardo di Gesù non andava al peccato degli altri, bensì al dolore degli altri. Nel linguaggio di una religione borghese irrigidita in se stessa, che davanti a niente ha tanta paura quanto di fronte al proprio naufragio e che perciò continua a preferire l’uovo oggi alla gallina domani, questo è difficile da spiegare. Dobbiamo invece metterci sulle tracce di una durevole simpatia, impegnarci in una disponibilità coraggiosa a non eludere il dolore degli altri, in alleanze e progetti-base della compassione che si sottraggano all’attuale corrente della raffinata indifferenza e della coltivata apatia, e che rifiutino di vivere e celebrare felicità e amore esclusivamente come messe in scena narcisistiche di apparato” (J. B. Metz).

L’amore fraterno, unico criterio ecclesiologico

L’amore ai fratelli diventa allora veramente il segno dei discepoli di Gesù, il criterio di discernimento tra coloro che aderiscono a Gesù il Cristo e coloro che lo dissolvono, tra i figli della luce e i figli delle tenebre. Gesù infatti aveva detto: “Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). “Amarci gli uni gli altri” è l’unico mezzo per essere sicuri che “Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi” (1 Gv 4,12).

Le lettere di Giovanni richiamano con forza la Chiesa di tutti i tempi a tornare alla sua essenza, che è di essere il luogo dell’agape, dell’amore, il segno della presenza di quel Dio che altro non è che “agape” (1 Gv 4,8), amore. Giovanni esorta la Chiesa a non essere ideologia, a non essere potenza, ma a stare a fianco di ogni uomo, in ogni cultura, assumendone, sull’esempio di Gesù, la povertà e le sofferenze, per portarvi in concretezza segni dell’amore di Dio.

Le lettere giovannee invitano la Chiesa a vivere, come Cristo, il mistero dello svuotamento, della spogliazione, della “kènosis” (Fil 2,7-8), per farsi tutto a tutti (1 Cor 9,22). Ad essere una Chiesa che vive nel servizio, nell’impegno per la giustizia, e che vede in ogni uomo, nel povero, nel malato, nel sofferente, nel reietto, nell’escluso, il suo Dio da amare. Una Chiesa quindi militante, che confessa con forza, e talora con sofferenza, il mistero del Dio-Amore.

Certamente l’ottica di Giovanni è diversa da quella dei sinottici. I sinottici sottolineano la dimensione “ad extra” dell’amore: Luca ci invita a farci prossimo di tutti, anche se nemici o impuri come il samaritano (Lc 10,29-37); Matteo esige: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,44-47); e Paolo dirà: “Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne” (Rm 9,3). Giovanni invece insiste sull’amarsi tra cristiani, sull’amore come segno distintivo della Chiesa. Fratello per Giovanni non è, come intendono Blaz e Bultmann, ogni uomo, ma il cristiano: e “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). E’ il grande tema dell’amore all’interno della Chiesa, dell’“amarsi gli uni gli altri” (1 Gv 3,11.23; 4,7.11-12; 2 Gv 1,5).

Perché Giovanni, i cui scritti sono tra gli ultimi del Nuovo Testamento, si preoccupa più della dimensione ecclesiale dell’amore che di quella esterna? Forse perché Giovanni, sviluppandosi la vita ecclesiale, ha capito come spesso è più facile amare i lontani che gli altri cristiani: e la storia della Chiesa, con tutte le sue lotte intestine, le sue lacerazioni, i suoi scismi, le reciproche scomuniche, i suoi partiti e le sue fazioni, le sue correnti e i suoi movimenti vari in perenne disputa tra loro, lo ha ampiamente dimostrato. Talora è più facile impegnarsi per i poveri e gli oppressi che sopportare coloro che ci emarginano proprio in nome di Cristo. E’ più facile aiutare un lontano che amare il vicino che vive il cristianesimo con una sensibilità che ci urta. E’ più facile perdonare un oppressore esterno che dialogare con una gerarchia che talora può sembrarci antievangelica. “Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato” (1 Gv 2,6): c’è bisogno cioè che la Chiesa sia nel mondo segno visibile dell’Amore incarnato, sia sua concreta profezia per tutti gli uomini: non abbiamo altra missione che attirare gli altri a noi con la forza del nostro amore reciproco. Ecco perché la Chiesa deve mettere al primo posto la “koinonìa”, la “comunione” interna, in un continuo superamento delle divisioni, alla ricerca dell’unità più piena, per essere segno credibile del Dio Amore che la fonda e la anima.

Se nel mondo c’è tanto ateismo, chiediamoci se non è perché noi non riusciamo a dare, con il nostro comportamento, il segno di Dio agli uomini. I nostri rapporti intraecclesiali, sono all’insegna della carità? Nella Chiesa c’è sempre rispetto per le singole persone, per la libertà del singolo, c’è ascolto reciproco, accoglienza, uguaglianza, fraternità, dialogo, astensione dal giudizio? Il grande desiderio e la grande preghiera di Gesù, prima di morire, fu: “Che tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21).

Girolamo, citando un’antica tradizione, afferma che Giovanni, ormai vecchio, fosse solo più capace di dire: “Amatevi!”. L’osservanza del comandamento dell’amore è l’unico criterio di appartenenza ai salvati: non lo è il culto, la conoscenza teologica o biblica: lo è solo l’amore: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3,14).

Carlo Miglietta

Da: C. MIGLIETTA, EDIFICHERO’ LA MIA CHIESA. Perché (e come) essere Chiesa secondo la Bibbia, Gribaudi, Milano, 2010, con presentazione di S. E. Mons. Guido Fiandino