Commento al Vangelo del 9 Febbraio 2020 – p. Fernando Armellini

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 9 febbraio 2020.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

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“Oggi non c’è più fede. Una volta ce n’era tanta!”.

Come si misura la fede? Facendo riferimento alle statistiche, contando quanti sono coloro che partecipano alla messa domenicale, si accostano ai sacramenti, si sposano in chiesa, mandano i figli al catechismo? Si valuta forse dall’imponenza delle folle che intervengono nei raduni ecclesiali? Come si fa a sapere quando aumenta e quando diminuisce? È nelle solenni celebrazioni, curate fin nei minimi dettagli ed eseguite in modo impeccabile, che i cristiani appaiono come sale della terra e luce del mondo?

Una splendida parabola di Gesù (Mt 25,31-46) rivela quanto il modo di valutare di Dio sia diverso dal nostro. Più che alla pratica religiosa, alla fedeltà alle tradizioni, alla scrupolosa osservanza dei riti, egli si mostra interessato all’adesione concreta al suo progetto di amore per l’uomo. Brillano nel mondo, come raggi incantevoli della luce di Dio, coloro che condividono il pane con chi ha fame e l’acqua con chi ha sete, che vestono gli ignudi e ospitano chi non ha casa, che assistono il malato e difendono chi subisce ingiustizia.

Il criterio è chiarissimo eppure molti continuano a ridurre il loro rapporto con Dio all’adempimento scrupoloso di pratiche religiose. Questa potrebbe rivelarsi un giorno una tragica illusione. Solo la vita dei giusti, quella di chi crede alle beatitudini proposte da Gesù, è “come la luce dell’alba: cresce in splendore fino al meriggio” (Pr 4,18).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“È luce chi spezza il pane con l’affamato, introduce in casa i senza tetto, veste chi è nudo, libera chi è oppresso”.

Prima Lettura (Is 58,7-10)

Così dice il Signore “7spezza il tuo pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?
8 Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
9 Allora lo invocherai e il Signore ti risponderà;
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
10 se offrirai il pane all’affamato,
se sazierai chi è digiuno,
allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua tenebra sarà come il meriggio”.

La pratica del digiuno è conosciuta presso tutti i popoli. Fin dai tempi più remoti si digiunava quando ci si trovava in situazioni di pericolo o si era colpiti da sventure, quando la grandine o le cavallette distruggevano i raccolti, quando le piogge tardavano. Questo sacrificio volontario aveva lo scopo di commuovere Dio, placarlo, convincerlo a porre fine ai suoi castighi. Durante i giorni di digiuno si indossavano abiti sdruciti, ci si cospargeva il capo di polvere e cenere, si rinunciava ai rapporti sessuali, non si faceva il bagno, si andava scalzi, si dormiva per terra.

La lettura di oggi va collocata nel contesto di uno di questi momenti di digiuno.

Siamo nel V secolo a.C., il tempo del post-esilio. Il popolo è tornato da Babilonia, ma le promesse fatte dai profeti tardano a realizzarsi. Invece della sospirata comunità pacifica si è instaurata una società dominata da arrivisti e profittatori. Ovunque ci sono violenze, angherie, discordie. Per convincere Dio a intervenire e porre rimedio alla situazione, si indice un digiuno nazionale, rigoroso, severo.

Nulla cambia, tutto continua come prima e in molti si insinua il sospetto che la pratica del digiuno sia inefficace. Ci si chiede: perché digiunare se il Signore non ascolta ed è come se non ci fossimo sottoposti a mortificazioni e rinunce? (Is 58,3).

La lettura di oggi dà una risposta a questo interrogativo.

La colpa del mancato cambiamento – spiega il profeta – non è del Signore, ma del modo errato di praticare il digiuno, ridotto a una sterile autopunizione, a una dolorosa penitenza. Questo digiuno non ottiene alcun risultato perché sottopone, sì, il corpo a privazioni, ma non cambia il cuore.

Il vero digiuno, quello che produce effetti prodigiosi, consiste nel condividere il proprio pane con chi ha fame, nell’ospitare in casa i miseri senza tetto, nel dare un vestito a chi è nudo, nel non distogliere gli occhi da chi, uomo come noi – nostra stessa carne, anche se diverso è il colore della sua pelle e sono differenti la cultura e la religione – vive al nostro fianco in condizioni disumane (v.7).

Questo comportamento nuovo ottiene miracoli: in breve tempo cura le ferite della società, risolve le situazioni di disagio, crea rapporti fraterni e fa nascere una comunità in cui splendono la giustizia e la gloria di Dio (v.8).

Nella seconda parte della lettura (vv. 9-10) viene indicata un’altra caratteristica del vero digiuno: l’impegno a togliere di mezzo ogni forma di oppressione, il puntare il dito e il parlare arrogante. Non basta fare la carità e l’elemosina, è necessario porre fine a tutti gli atteggiamenti di ambiziosa superiorità che causano umiliazioni, ingiustizie, discriminazioni.

Dopo questo nuovo chiarimento, il profeta riprende, con insistenza quasi eccessiva, il tema della condivisione del pane. Vuole che il popolo assimili l’interesse, la premura, la sollecitudine di Dio nei confronti di chi ha fame.

La conclusione della lettura introduce il tema della luce che verrà ripreso nel vangelo: se praticherai questa nuova giustizia “brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra diverrà come il meriggio”.

Gli israeliti si ritenevano luce del mondo per la loro devozione a Dio, per la pratica religiosa impeccabile: solenni liturgie, canti e preghiere, sacrifici e olocausti. Non era questo il culto gradito al Signore; non erano queste le opere che avrebbero fatto diventare Israele luce del mondo, ma la pratica della giustizia e dell’amore all’uomo.

Seconda Lettura (1 Cor 2,1-5)

1 Io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. 2 Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. 3 Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; 4 e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, 5 perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

I cristiani di Corinto – lo abbiamo sottolineato domenica scorsa – non appartenevano alle classi sociali elevate, erano tutti di umili origini, gente che non contava nella società (1 Cor 1,26). Questo fatto è interpretato da Paolo come un segno della preferenza di Dio per le persone disprezzate e senza meriti.

La sua scelta non va però intesa come un rovesciamento classista (sarebbe una nuova discriminazione), ma come logica conseguenza dell’amore di Dio: egli non ama chi può vantare dei meriti, ma chi ha bisogno del suo amore.

Nel brano di oggi l’Apostolo riprende e sviluppa questo tema ponendo a confronto la sapienza umana e la potenza di Dio e porta l’esempio concreto della sua persona.

Comincia con un richiamo alla sua predicazione (vv. l-2). Non si è presentato a Corinto per insegnare una nuova dottrina. Se lo avesse fatto, avrebbe avuto bisogno di possedere la “sublimità del linguaggio e della sapienza”. In Grecia era apprezzata la sapienza, la capacità – come diceva Platone – di “indagare il vero in quanto vero; sollecitudine dell’anima sostenuta dalla retta ragione”. Ogni discorso privo del supporto della dimostrazione razionale e delle risorse prestigiose del pensiero dei filosofi era deriso e ritenuto frutto di ignoranza, di creduloneria, di religiosità ingenua.

In questo contesto culturale Paolo ha annunciato un messaggio umanamente assurdo: ha chiesto di credere alla proposta di vita fatta da un uomo giustiziato.

Non fu solo il contenuto della sua predicazione ad essere scandaloso. Era la sua stessa persona – debole, timorosa, incapace di parlare – ad essere la meno indicata a portare avanti con successo una così grande missione (vv. 3-5). Al riguardo circolava fra i corinzi una battuta che aveva provocato la reazione risentita dell’Apostolo “Le sue lettere – si diceva – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua capacità di fare discorsi è modesta” (2 Cor 10,10).

Della sua scarsa abilità oratoria, Paolo era cosciente; ne aveva avuto una dimostrazione ad Atene quando aveva tentato, senza successo, di convincere gli ascoltatori ricorrendo al linguaggio sublime dei filosofi (At 17,16-34) e un anno dopo, a Troade, ne ebbe la riconferma: durante la sua predica un giovane si era addormentato ed era caduto dalla finestra (At 20,9).

Malgrado questa mancanza di supporti umani, il vangelo aveva avuto una notevole diffusione a Corinto. Come mai? – viene da chiedersi. Perché – spiega Paolo – la parola di Dio è forte per se stessa e la sua penetrazione nel cuore degli uomini non dipende dai mezzi umani, ma dalla “manifestazione dello spirito e della sua potenza”. L’Apostolo non si riferisce ai prodigi, ai miracoli che avrebbero convinto i corinzi ad accogliere il vangelo, ma al frutto dello spirito: la forma di vita nuova che, pur in mezzo a miserie e debolezze umane, era stata adottata da molti membri della comunità.

Vangelo (Mt 5,13-16)

13 Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.
14 Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, 15 né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. 16 Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli.

Per definire i discepoli e la loro missione, nel vangelo di oggi Gesù impiega una serie di immagini. Li indica anzitutto come il sale della terra (v.13).

I rabbini d’Israele erano soliti ripetere: “La Toràh – la Legge santa data da Dio al suo popolo – è come il sale e il mondo non può stare senza sale”. Facendo propria questa immagine e applicandola ai discepoli, Gesù sa di usare un’espressione che può suonare provocatoria. Non smentisce la convinzione del suo popolo che ritiene le sacre Scritture “sale della terra”, ma afferma che anche i suoi discepoli lo sono, se assimilano la sua parola e si lasciano guidare dalla sapienza delle sue beatitudini.

Sono molte le funzioni del sale e probabilmente Gesù intende riferirsi a tutte.

La prima e più immediata è quella di dare sapore ai cibi. Fin dai tempi antichi il sale è diventato per questo il simbolo della “sapienza”. Anche oggi si dice che una persona ha “sale in testa” quando parla in modo saggio, oppure che una conversazione è “senza sale”, quando è noiosa, priva di contenuto. Paolo conosce questo simbolismo, infatti, ai colossesi raccomanda: “La vostra conversazione sia sempre gradevole, condita con sale” (Col 4,6).

Intesa così, l’immagine indica che i discepoli devono diffondere nel mondo una saggezza capace di dare sapore e significato alla vita. Senza la sapienza del vangelo che senso avrebbero la vita, le gioie e i dolori, i sorrisi e le lacrime, le feste e i lutti? Quali sogni e quali speranze potrebbe alimentare l’uomo su questa terra? Difficilmente andrebbe oltre quelli suggeriti dal Qoelet: “ È meglio mangiare, bere e godere dei beni nei pochi giorni di vita che Dio dà: è questa la sorte dell’uomo” (Qo 5,17).

Chi è imbevuto del pensiero di Cristo assapora invece altre gioie, introduce nel mondo esperienze di felicità nuove e ineffabili, offre agli uomini la possibilità di sperimentare la stessa beatitudine di Dio.

Il sale non serve solo per dare sapore ai cibi. È usato anche per conservare gli alimenti, per impedire che divengano avariati.

Questo fatto richiama la corruzione morale e, per associazione d’idee, le forze negative, gli spiriti maligni. Contro di loro gli antichi orientali si premunivano usando il sale. È a questa convinzione atavica che si collega, ancor’oggi, il rito di spargere il sale per immunizzare da malefici e iettature.

Il cristiano è sale della terra: con la sua presenza è chiamato a impedire la corruzione, a non permettere che la società, guidata da princìpi malvagi, si decomponga e vada in disfacimento. Non è difficile constatare, ad esempio, che, dove non c’è chi richiama, chi rende presenti i valori evangelici, si diffondono più facilmente la dissolutezza, l’odio, la violenza, la sopraffazione. In un mondo dove è messa in dubbio l’intangibilità della vita umana, dal suo sorgere al suo spegnersi naturale, il cristiano è sale che ne ricorda la sacralità. Dove si banalizza la sessualità e le convivenze e gli adulteri non sono più chiamati con il loro nome, il cristiano richiama la santità del rapporto uomo-donna e il progetto di Dio sull’amore coniugale. Dove si cerca il proprio tornaconto, il discepolo è sale che conserva, ricordando a tutti e sempre la proposta, eroica a volte, del dono di sé.

Il sale era usato anche per confermare l’inviolabilità dei patti: i contraenti compivano il rito di consumare insieme pane e sale o sale soltanto. Questo accordo solenne era detto “alleanza di sale”. È chiamata con questo nome l’alleanza eterna stipulata da Dio con la dinastia di Davide (2 Cr 13,5).

I cristiani sono sale della terra anche in questo senso. Testimoniano l’indefettibilità dell’amore di Dio: mostrano che nessun peccato potrà mai incrinare il patto di fedeltà che lo lega all’uomo e, con la loro vita, danno prova che anche all’uomo è possibile rispondere a questo amore, basta lasciarsi guidare dallo Spirito.

La “parabola” del sale si conclude con un richiamo ai discepoli a non divenire “insipidi”. L’immagine assume una connotazione piuttosto sorprendente: i chimici assicurano che il sale non si corrompe, eppure Gesù mette in guardia i discepoli dal pericolo di perdere il proprio sapore. Per quanto possa apparire strano, Gesù li considera capaci di fare qualcosa di assurdo, di impossibile, come rovinare il sale: possono far perdere al vangelo il suo sapore.

C’è un solo modo di combinare questo guaio: mischiare il sale con altro materiale che ne alteri la purezza e la genuinità. Il vangelo ha un suo gusto e bisogna lasciarglielo, non va snaturato, altrimenti non è più vangelo.

La parabola del sale è raccontata subito dopo le “beatitudini”. Il cristiano è sale se accoglie integralmente le proposte del Maestro, senza aggiunte, senza modifiche, senza i “ma”, i “se” e i “però” con cui si tenta di ammorbidirle, di renderle meno esigenti, più praticabili.

Per esempio, Gesù dice che bisogna condividere i propri beni, che si deve porgere l’altra guancia, perdonare settanta volte sette… è questo il gusto caratteristico del sale evangelico. Ma incombe sempre la tentazione di aggiungerci un po’ di “buon senso”: non si deve esagerare, bisogna pensare anche a se stessi, se si perdona troppo gli altri se ne approfittano, non si deve ricorrere alla violenza, a meno che non sia necessario… È così che il vangelo viene “addolcito”, che diventa “praticabile”… ma perde il suo sapore. È il fallimento della missione, indicato metaforicamente con l’immagine del sale gettato sulla strada: viene calpestato, come la polvere cui nessuno presta attenzione né attribuisce alcun valore.

La seconda funzione assegnata ai discepoli è quella di essere città posta sul monte (v. 14).

Ancor’oggi, lo sguardo di chi percorre le strade dell’alta Galilea è attratto dai numerosi villaggi posti sulle cime delle montagne e lungo i clivi delle colline. È impossibile non notarli e, specialmente in primavera, quando i vermigli anemoni ricoprono le campagne che li circondano, appaiono deliziosi. Quasi sempre gli scavi archeologici comprovano che le sommità, sulle quali sorgono, erano abitate fin dai tempi più remoti.

Gesù, cresciuto in uno di questi villaggi, li ha indicati ai discepoli come un’immagine della loro missione: con la loro vita fondata su principi nuovi, essi dovranno richiamare l’attenzione del mondo.

Non è l’invito a farsi notare, a mettersi in mostra. Un simile atteggiamento contraddirebbe la raccomandazione a non praticare le buone opere davanti agli uomini, per essere notati, a non suonare la tromba per richiamare l’attenzione quando si fa l’elemosina (Mt 6,1-2).

Il richiamo di Gesù è a un famoso testo di Isaia, dove si annuncia che il monte del tempio del Signore “sarà eretto sulla cima dei monti, sarà più alto dei colli e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli… Poiché da Gerusalemme uscirà la parola del Signore” (Is 2,2-5).

D’ora in avanti – assicura Gesù – non sarà più a Gerusalemme che i popoli guarderanno, ma alle comunità dei suoi discepoli. Saranno loro ad attirare gli sguardi ammirati degli uomini… se avranno il coraggio di impostare la vita sulle sue beatitudini.

Collegata all’immagine del monte c’è quella della luce (vv. 14-16).

I rabbini dicevano: “Come l’olio porta luce al mondo, così Israele è luce per il mondo” e ancora: “Gerusalemme è luce per le nazioni della terra”. Si riferivano al fatto che ritenevano Israele depositario della sapienza della legge che Dio, per bocca di Mosè, aveva rivelato al suo popolo.

Qualche rabbino aveva però intuito che non solo la parola delle sacre Scritture, ma anche le opere di misericordia erano luce e sosteneva che il primo ordine dato da Dio all’inizio della creazione: “Sia la luce!” si riferiva non a una luce materiale, ma alle opere dei giusti.

Chiamando i discepoli “luce del mondo”, Gesù dichiara che la missione affidata da Dio a Israele era destinata a continuare attraverso di loro. Sarebbe apparsa in tutto il suo splendore nelle loro opere di amore concrete, verificabili. Sono queste opere che Gesù raccomanda di “far vedere”. Non vuole che i suoi discepoli si limitino ad annunciare la sua parola senza impegnarsi, senza lasciarsi compromettere, senza giocarsi la vita su questa parola.

La prova che gli uomini sono stati raggiunti da questa luce si avrà quando essi daranno gloria al Padre che sta nei cieli.

La loro reazione potrebbe però essere anche opposta e inattesa. Potrebbero essere infastiditi dalle opere buone dei cristiani e reagire indispettiti.

Non si deve subito presupporre che questo dipenda da una loro disposizione malevola. In genere non è il bene che disturba, ma la percezione di qualche ombra di esibizionismo, di qualche cedimento all’ambizione, alla vanità, all’autocompiacimento. Queste sbavature, nemmeno consapevoli, che accompagnano spesso anche i gesti più nobili, privano l’opera buona della sua caratteristica più squisita, più sublime, più “divina”: il soave profumo del disinteresse e della totale gratuità.

I discepoli sono chiamati a compiere il bene senza attendersi alcun plauso, alcuna ammirazione, “la loro destra non deve sapere ciò che fa la sinistra” (Mt 6,3). Non è a loro che dovranno essere rivolte le lodi, ma a Dio.

L’ultima immagine è deliziosa: veniamo introdotti nell’umile dimora di un contadino dell’alta Galilea dove, alla sera, si accende una lampada di terracotta ad olio, la si pone su un supporto di ferro e la si colloca in alto, in modo che possa illuminare anche gli angoli più reconditi dell’abitazione. A nessuno passerebbe per la mente di nasconderla sotto un vaso.

L’invito è a non occultare, a non velare le parti più impegnative del messaggio evangelico. I discepoli non devono preoccuparsi di difendere o di giustificare le proposte di Gesù, devono solo annunciarle, senza paura, senza timore di venire derisi o perseguitati. Esse saranno per gli uomini come una lampada che “brilla in un luogo oscuro finché non spunti il giorno e si levi la stella del mattino” (2 Pt 1,19).

Fonte – Settimana News


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