Commento al Vangelo del 5 Maggio 2019 – Figlie della Chiesa

La liturgia di questa III domenica di Pasqua ci presenta la conclusione del vangelo di Giovanni con il racconto della pesca miracolosa (vv. 2-13) e del mandato dato a Pietro e la sua sequela ( vv. 15-19). La liturgia ci guida dalla domenica della Pace, (Pace a voi), alla domenica dell’Amore, (mi ami tu). La Chiesa ci presenta prima un Gesù che ci dona la pace e poi un Gesù che ci chiede l’Amore. La fede in questo cammino pasquale sembra alimentarsi prima delle piaghe di Gesù con Tommaso e poi con il poggiare il capo sul cuore di Gesù con Giovanni.

Un confronto con gli altri evangelisti ci dice che troviamo un parallelismo solo con Luca per quanto riguarda la pesca miracolosa (Lc 5,1-11). Anche se molti elementi distinguono i due racconti, tuttavia essi trattano lo stesso tema, quello dei pescatori di uomini. La promessa fatta a Pietro nella prima pesca (cf. Mt 4,19; Mc 1,17) è confermata oggi dal Signore glorificato.

Il vangelo di questa III domenica di Pasqua ci presenta due personaggi principali: Pietro e Giovanni. Più volte i due sono presentati insieme. Giovanni fu incaricato insieme a Pietro di preparare la cena pasquale (Lc 22,8), nella quale poggiò il capo sul cuore del Redentore (Gv 13,25). Dopo il racconto delle donne che erano state al sepolcro, Giovanni corse insieme a Pietro per vedere quello che vi era avvenuto (Gv 21,10). Entrambi sono stati chiamati a predicare il Vangelo nella città di Roma. In questo contesto i due protagonisti del brano ci presentano l’ultima delle tre apparizioni del vangelo di Giovanni, la terza.

v.1 I primi versetti (vv. 1-14) sono di carattere redazionale: formano cioè una inclusione ed hanno lo scopo di legare questa seconda conclusione del Vangelo di Giovanni, con la prima (Gv, 20). Questa seconda conclusione è stata quasi certamente inserita in un secondo momento, forse proprio per poter testimoniare il primato di Pietro sulla Chiesa. È interessante notare che questi pescatori incontrano per la prima volta Gesù sul mare e l’ultima volta che “vedono” Gesù, l’ultima raccontata nei vangeli, è sul mare.

v.2 Gesù appare ai discepoli i quali stavano insieme e sono 7 (numero altamente simbolico) e ci viene dato un elenco di nomi. Veri protagonisti, come già sottolineato nella presentazione, sono Pietro e il discepolo che Gesù amava. Nulla ci fa pensare che il ritorno alla vecchia attività, cioè quella di essere pescatori di pesci, sia da considerarsi una specie di diserzione (cf. Gv 16,32); anzi molti studiosi vi vedono l’obbedienza dei discepoli ad un ordine di Gesù (cf. Mt 26,32; 28,7; Mc 14,28; 16,7).

v.3 Lo sforzo dei discepoli lasciati a se stessi è vano (cf. Gv 15,5); anche quella notte il loro lavoro è sterile, senza frutti. Pietro ancora una volta è il primo a prendere l’iniziativa e tutti lo seguono. Questa caratteristica di Pietro a prendere l’iniziativa e ad essere il primo a prendere la parola con Gesù è stata più volte sottolineata nei vangeli (Mt. 17,4; 18,21; 19,27; 26,33; Gv 13,6; 13,37; 21,3), a differenza dell’altro protagonista, Giovanni, che invece rimane sempre all’ombra di Pietro, quasi mai prende la parola (Lc 9,49; Gv 21,7) e rimane sempre in secondo piano (Gv 21,20 Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava).

In questi due atteggiamenti possiamo rivelare due stili di vita, uno attivo e l’altro passivo. A Pietro come vedremo in seguito Gesù chiede l’amore, all’altro, il discepolo che egli amava, Gesù dona l’amore. Non è certo possibile fare delle classifiche e soprattutto non si può stereotipare lo stile di vita di questi due personaggi, certamente però Gesù chiede ad entrambi di seguirlo.

vv.4-6 I discepoli non si accorgono che quell’uomo sulla riva è Gesù, così come i discepoli di Emmaus, così come le donne al sepolcro, così come gli apostoli nel vangelo di domenica scorsa. Sembra che Gesù abbia un altro volto, un’altra voce, un altro sguardo.

La scena si presenta sul fare del giorno. Il racconto è il ritratto dello sforzo della comunità senza Cristo (sterile) e con Cristo (feconda). La pesca intesa come missione è fruttuosa soltanto se si obbedisce alla parola del Signore. Gesù invita a gettare la rete dalla parte destra: la destra nell’antichità era il lato più favorevole. A differenza del racconto di Luca sulla pesca miracolosa, qui Gesù specifica di buttare le reti sul lato destro.

Possiamo dire, aiutandoci con i testi, che da destra viene ogni Bene Divino: Ez 47,1-2 l’acqua dal tempio (ricorda il sangue + acqua che esce dal costato del Signore, Gv 19,34); a destra sono posti «i benedetti dal Padre» che operarono la carità, Mt 25,33; alla destra del Padre regna Cristo risorto, Mc 16,19; è la destra del Signore che opera meraviglie potenti, Es 15,6a e Sal 97,1.

vv.7-8 Ancora una volta il discepolo prediletto intuisce per primo (Gv 20,7) che lo sconosciuto è il «Signore» e lo comunica a Pietro. Impulsivo come sempre, Pietro è impaziente di incontrare per primo il Signore e si getta a nuoto. Questo precedere il resto dei discepoli e giungere per primo è carico di significato, che verrà esplicitato nei vv. 15-19; come nel v.3 la pesca è su iniziativa di Pietro, nel v.11 è ancora lui che prende l’iniziativa e trae a terra la rete dall’unica barca.

Pietro però prima di gettarsi in mare per raggiungere il Signore, si cinse i fianchi, non certamente per pudore, erano solo maschi in quel contesto. In questo vestirsi possiamo vederci il sacrum commercium di cui Papa Benedetto XVI ha parlato nella sua omelia nella Messa del Crisma. Possiamo vederci l’immagine del vestito: “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). Pietro, che fra pochissimo riceverà una investitura sacerdotale dice con questo gesto quello che i nostri sacerdoti oggi dicono con il loro “sono pronto” durante la consacrazione sacerdotale. Questo rivestirsi, viene rappresentato in ogni eucarestia con i paramenti liturgici. Pietro prima di andare incontro allo Sposo sente il bisogno di indossare l’abito nuziale per partecipare al banchetto che il Signore ha preparato (Mt. 22,11).

v.9 Prosegue la manifestazione, anche qui in forma altamente simbolica: abbiamo il fuoco, il pesce, il pane. «Il pesce vive in un ambiente diverso da quello degli uomini che morirebbero se vi si introducessero. Il pesce deve uscire dal suo ambiente, entrare in quello degli uomini (l’aria), morire, essere cotto al fuoco per diventare cibo buono e salutare. Così il Cristo, che abita la luce inaccessibile che farebbe morire all’istante una creatura umana che vi si avvicinasse, per divenire cibo della vita = salvezza per gli uomini si fa carne (Gv 1,14) entra nella storia degli uomini e muore affrontando il Fuoco dello Spirito» (da S. Agostino Sermo 227).

vv.10-11 Pur disponendo dell’occorrente per il pasto Gesù si informa del pesce che hanno preso, tutto destinato ad essere cotto al fuoco e mangiato. A differenza della pesca miracolosa di Luca qui la rete non si strappa (Lc 5,6), è intatta. Abbiamo già detto che è Pietro da solo che prende i 153 grossi pesci dall’unica barca. Sul numero 153 che certamente ha un suo simbolismo S. Agostino vi torna sopra diverse volte.

L’interpretazione più plausibile sembra essere quella di S. Girolamo: i naturalisti dell’antichità conoscevano 153 specie di pesci, il che equivale a dire «ogni sorta di pesci», vedi anche Mt 13,47 nella parabola del regno. La precisazione sul numero dei pesci sembra voler sottolineare che la rete lanciata dal lato destro debba contenere ogni specie umana, ogni razza, ogni povertà.

v.12 Il miracolo rivela ai discepoli la presenza di Gesù e nessuno osa domandargli se è proprio lui. Non lo domandano perché sanno, è ridicolo informarsi dell’identità di chi si conosce. Il primo banchetto, quello della cena, lo prepararono gli apostoli; questo, quello della piena abbondanza, lo prepara Gesù, è lui che invita a mangiare.

v.13-14 Gesù distribuisce pane e pesci, silenzioso memoriale della moltiplicazione dei pani (Gv 6,11) e dell’ultima cena. Questa è la terza apparizione nel vangelo di Giovanni, in effetti Gesù appare in tutto sette volte.

vv.15-19 Conseguenza del banchetto che Gesù ha preparato è il triplice richiamo del Signore a Pietro. La triplice domanda richiama il suo triplice rinnegamento (Gv 13,38; 18,17.25.27). Esiste una reale debolezza di Pietro ma nonostante tutto gli viene affidata la missione (cf. Mt 16,18; Lc 22,32; Gv 1,42). Questo ad indicare che la sua e la nostra solidità viene unicamente dal Signore. Pietro è pastore e roccia per grazia e non per merito (i titoli sono riferiti a Jahvé che guida il suo popolo, cf. Gen 49,24). Si richiedono perciò umiltà e fede; Pietro ne è consapevole, si confronti la baldanza di Gv 13,37 con il nostro v. 17: «tu sai tutto». Pietro non afferma di amare più degli altri, si appella alla chiaroveggenza del Signore che sa leggere nel cuore dell’uomo.

Nella domanda di Gesù per il verbo amare è usato il verbo «agapan»; Pietro risponde usando il verbo «filein». Il primo indica l’amore religioso, totale a Dio, il secondo indica un attaccamento umano, affetto, amicizia. L’amore che Gesù esige è quello impegnato nel servizio di Dio e degli uomini, testimonianza data con l’offerta della vita (cf. Gv 10,18 il pastore che da la vita).

Seguire Cristo ed essere in cammino con lui significa ripercorrere la strada del Cristo terreno, cioè la via della croce. Come il Padre ha mandato il Figlio così Gesù manda Pietro, i discepoli, noi. Ma questo impegno a seguire il Cristo non dipende dalle nostre forza, è possibile solo per la Grazia che il Signore ci concede. Solo alla terza risposta il colloquio tra i due si esaurisce e questo non perché Pietro ha cambiato risposta, ma perché Gesù ha cambiato domanda. Nella terza domanda Gesù non chiede l’amore «agapan», ma l’amicizia «filein». Solo l’abbassamento di Gesù, il suo divenire terra, humus, (Fil 2, 6-11) consente a noi di poterlo seguire.

v.15-17 A questo abbassamento nella domanda si affianca un crescendo della missione affidata.

Traducendo meglio dal greco, Gesù, dopo la triplice confessione di amore, assegnò a Pietro il compito di formare il gregge con l’apostolato, di governarlo con la suprema autorità, e di perpetuarlo formando le pecore madri, cioè governando i pastori.

Gesù affidò a Simone di Giovanni un triplice regno. Gli affida il regno delle anime: pascola i miei agnelli (v. 16); gli dette il governo dei popoli cristiani: prenditi cura del mio gregge (v. 17); gli dette la giurisdizione suprema su tutti i pastori: pascola le pecore madri, adulte e capaci di generare altre pecore (v. 18).

v.18 Gesù dice a Pietro:

– ti cingerà, usa il futuro. Nel linguaggio profetico denota sicurezza e fiducia nel realizzarsi dell’azione indicata. (cf At 21,11-12) Anche Agabo si legò mani e piedi con la cintura di Paolo, per predirgli l’arresto.

– ti porterà, il verbo greco oisei è più forte del semplice condurre; un vecchio infatti è quasi più portato che condotto, anche fisicamente.

– non vuoi, il verbo qui è un indicativo presente. Quasi a profetizzare la crescita spirituale di Pietro.

– con quale morte, di per sé l’espressione ti porterà dove tu non vuoi non indica nessun genere di morte: in analogia con frasi dette da Gv a proposito di Gesù (cf 12,33; 18,32) essa viene intesa come predizione del martirio per crocifissione.

Appendice

Il mistero della Chiesa adombrato nelle due scene di pesca

Gesù, mentre nasceva il giorno, stava in piedi sulla riva: la riva significa la fine del mare, e rappresenta perciò la fine dei tempi. E ancora immagine della fine dei tempi è il fatto che Pietro trae la rete a terra, cioè sulla riva. E‘ lo stesso Signore che, in un‘altra circostanza, ci chiarisce il significato di queste immagini parlando della rete tratta su dal mare: «Ed essi la tirano sulla riva», dice (Mt 13,38). Che cos‘è questa riva? Egli stesso lo spiega poco più avanti: “Sarà così alla fine del mondo” (Mt 13,49).

Ma in quella circostanza si trattava soltanto di un racconto sotto forma di parabola, non del significato allegorico di un fatto reale. Qui, invece, è con un fatto reale che il Signore ci vuole fare intendere ciò che sarà la Chiesa alla fine del mondo, così come in un‘altra pesca ha raffigurato ciò che è la Chiesa, oggi, in questo mondo (cf. Lc 5,1-11). Il primo miracolo ebbe luogo all‘inizio della sua predicazione; il secondo, che è questo di cui ora ci occupiamo, si verifica dopo la sua Risurrezione.

Con la prima pesca egli volle significare i buoni e i cattivi di cui ora la Chiesa è formata; con la seconda indica che la Chiesa, alla fine dei tempi, sarà formata soltanto dei buoni che dopo la risurrezione dei morti, saranno in lei in eterno.

La prima volta Gesù non stava, come ora, sulla riva, quando ordinò di prendere i pesci; infatti, “montato su una barca che era di Simone, lo pregò di scostarsi un poco da terra, e sedendo nella barca ammaestrava le turbe. Appena finì di parlare, disse a Simone. Prendi il largo e calate le vostre reti per la pesca” (Lc 5,1-4). E il pesce che allora fu catturato restò nella barca, perché i pescatori non trassero a riva la rete come fanno ora.

Tutte queste circostanze e le altre ancora che si potrebbero trovare, indicano che nella prima pesca è raffigurata la Chiesa in questo mondo, mentre nella seconda pesca essa è raffigurata quale sarà alla fine del mondo. E‘ per questo che il primo miracolo Cristo lo compie prima della Passione, il secondo dopo la Risurrezione: là, Gesù raffigura noi chiamati alla Chiesa, qui raffigura noi risorti alla vita eterna.

Nella prima pesca la rete non è gettata solo dal lato destro della barca, a significare la raccolta dei soli buoni, e neppure soltanto dal lato sinistro a significare la pesca dei soli malvagi. Gesù non precisa da quale parte si getta la rete: «Calate le vostre reti per la pesca», dice, per intendere che la Chiesa raccoglie, in questo mondo, i buoni e i cattivi. Qui invece precisa: «Gettate la rete dal lato destro della barca», per significare che debbono essere raccolti solo quelli che stanno a destra, cioè i buoni.

La prima volta la rete si rompe, immagine degli scismi che divideranno la Chiesa: qui invece, nella pace suprema di cui gioiranno i santi, non c‘è posto per gli scismi, e perciò l‘evangelista afferma: «E benché i pesci fossero tanti» – cioè grandi e molto numerosi – «la rete non si strappò». Egli sembra proprio alludere alla prima pesca, quando la rete si ruppe, per sottolineare con tale paragone la superiorità di questa pesca nella quale solo i buoni vengono raccolti. (Agostino, Comment. in Ioan., 122, 6 s.)

Vi sia un uomo che digiuna, che vive castamente, e che soffre infine il martirio, consumato dalle fiamme, e vi sia un altro che rinvia il martirio per l‘edificazione del prossimo e, non solo lo rinvia ma se ne parte da questo mondo senza averlo subito. Quale di questi due uomini otterrà maggior gloria, dopo aver lasciato questa vita? Non c‘è bisogno qui di discutere a lungo né di parlare eloquentemente per decidere, dato che il beato Paolo dà il suo giudizio dicendo: “Morire ed essere con Cristo è la cosa migliore, ma rimanere nella carne è più necessario per causa vostra” (Fil 1,23-24). Vedi come l‘Apostolo antepone l‘edificazione del prossimo al morire per raggiungere Cristo? Non vi è infatti mezzo migliore per essere unito a Cristo che il compiere la sua volontà, e la sua volontà non consiste in nessun‘altra cosa come nel bene del prossimo… “Pietro” – dice il Signore -, “mi ami tu? Pasci le mie pecore” (Gv 21,15), e, con la triplice domanda che gli rivolge, Cristo manifesta chiaramente che il pascere le pecore è la prova dell‘amore. E questo non è detto solo ai sacerdoti, ma a ognuno di noi, per piccolo che sia il gregge affidatoci. Difatti, anche se è piccolo, non si deve trascurarlo poiché il “Padre mio” – dice il Signore – “si compiace in loro” (Lc 12,32). Ognuno di noi ha una pecora. Badiamo di portarla a pascoli convenienti. L‘uomo, appena si leva dal suo letto, non ricerchi altra cosa, sia con le parole sia con le opere, che di render la sua casa e la sua famiglia più pia. La donna, da parte sua, si dimostri buona padrona di casa, ma prima ancora di questo abbia un‘altra preoccupazione assai più necessaria, quella cioè che tutta la sua famiglia lavori e compia quelle opere che riguardano il regno dei cieli. Se infatti negli affari terreni, prima ancora degli interessi familiari, ci preoccupiamo di pagare i debiti pubblici perché, trascurando quelli, non ci capiti di essere arrestati, tradotti in tribunale e svergognati obbrobriosamente, a maggior ragione, nelle cose spirituali, facciamo in modo di pagare anzitutto ciò che dobbiamo a Dio, re dell‘universo, in modo da non essere gettati là dov‘è stridore di denti.

Ricerchiamo, inoltre, quelle virtù che da una parte procurano a noi la salvezza e dall‘altra sono utilissime al prossimo. Tali sono l‘elemosina, le orazioni; anzi, l‘orazione riceve dall‘elemosina forza e ali. “Le tue orazioni” – dice la Scrittura – “e le tue elemosine sono servite per essere ricordato al cospetto di Dio” (At 10,4). Ma non solo l‘orazione, bensì anche il digiuno riceve dall‘elemosina efficacia. Se tu digiuni senza fare elemosina, la tua azione non può essere digiuno e diventi peggiore di un ghiottone e di un ubriaco, tanto peggiore quanto la crudeltà è più grave peccato della gola. Ma perché parlo del digiuno? Anche se tu vivi castamente, anche se tu conservi la verginità, ma non l‘accompagni con l‘elemosina, tu rimani fuori della sala nuziale. Che cosa è paragonabile alla verginità che, per la sua stessa eccellenza, non fu posta per legge neppure nel Nuovo Testamento? Tuttavia, anch‘essa viene respinta se non è congiunta all‘elemosina.

Se, dunque, le vergini sono ricacciate perché non l‘hanno praticata con generosità, chi mai potrà ottenere perdono se trascura di far elemosina? Nessuno, di certo. Chi non pratica l‘elemosina, perirà dunque sicuramente. Infatti, se nelle cose di questo mondo nessuno vive per se stesso, ma l‘artigiano, il soldato, l‘agricoltore, il commerciante svolgono attività che contribuiscono al bene pubblico e alla comune utilità, molto di più ciò deve realizzarsi nelle cose spirituali. Vive veramente, soltanto chi vive per gli altri. Chi invece vive solo per sé, disprezza e non si cura degli altri, è un essere inutile, non è un uomo, non appartiene alla razza umana. Tu forse mi dirai a questo punto: Devo allora trascurare i miei affari per occuparmi di quelli altrui? No, non è possibile che colui che si prende cura degli affari del prossimo trascuri i propri. Chi cerca l‘interesse del prossimo non danneggia nessuno, ha compassione di tutti e aiuta secondo le proprie possibilità, non commette frodi, né si appropria di quanto appartiene agli altri, non dice falsa testimonianza, si astiene dal vizio, abbraccia la virtù, prega per i suoi nemici, fa del bene a chi gli fa del male, non ingiuria nessuno, non maledice neppur quando in mille modi è maledetto, ma ripete piuttosto le parole dell‘Apostolo: “Chi è infermo che anch‘io non sia infermo? Chi subisce scandalo che io non ne arda?” (2Cor 11,29). Al contrario, se noi ricerchiamo il nostro interesse non seguirà al nostro l‘interesse degli altri.

Convinti, dunque, da quanto è stato detto, che non è possibile salvarci se non ci interessiamo del bene comune, e considerando gli esempi del servo che fu separato e di colui che nascose il talento sotto terra, scegliamo quest‘altra via, e conseguiremo anche la vita eterna, che io auguro a tutti noi di ottenere per la grazia e l‘amore di Gesù Cristo, nostro Signore. (Giovanni Crisostomo, In Matth., 77, 6)

Ma, prima, il Signore domanda a Pietro ciò che già sapeva. Domanda, non una sola volta, ma una seconda e una terza se Pietro lo ama, e da Pietro altrettante volte si sente rispondere che lo ama; e altrettante volte niente altro gli affida che il compito di pascere le sue pecore. Alla sua triplice negazione fa riscontro la triplice confessione d‘amore, in modo che la sua parola non obbedisca all‘amore meno di quanto ha obbedito al timore, e in modo che la testimonianza della sua voce non sia meno esplicita di fronte alla vita, di quanto lo fu dinanzi alla minaccia di morte. Sia dunque prova del suo amore pascere il gregge del Signore, come rinnegare il pastore costituì la prova del suo timore.

Coloro che pascono le pecore di Cristo con l‘intenzione di farne le proprie pecore, si convincano che amano se stessi, non Cristo; si convincano di essere guidati dal desiderio di gloria, di potere, di denaro, e non dalla carità, che vuole soltanto obbedire, soccorrere ed essere gradita a Dio. Contro costoro vigila la parola del Signore così insistentemente ripetuta, gli stessi che strappavano gemiti all‘Apostolo perché cercavano la propria gloria, non quella di Gesù Cristo (cf. Fil 2,21).

Che vogliono dire infatti le parole: «Mi ami? Pasci le mie pecore»? E‘ come se, con esse, il Signore dicesse: Se mi ami, non pensare di pascere le pecore nel tuo interesse; pasci le mie pecore in quanto sono mie, non come se fossero tue; cerca nel pascerle la mia gloria, non la tua; cerca di stabilire il mio regno, non il tuo; cura il mio interesse, non il tuo, se non vuoi essere nel numero di coloro che, in questi tempi perigliosi, amano se stessi, e che perciò cadono in tutti gli altri peccati che da tale amore per sé derivano come dal loro principio.

L‘Apostolo, dopo aver detto: «Gli uomini invero ameranno se stessi», aggiunge infatti: “Ameranno il denaro, saranno presuntuosi, superbi, bestemmiatori, disobbedienti ai genitori, ingrati, scellerati, empi, disamorati, calunniatori, incontinenti, crudeli, nemici del bene, traditori, protervi, ciechi, amanti più del piacere che di Dio con la sembianza della pietà, ma privi in realtà della sua virtù” (2Tm 3,1-5).

Tutte queste colpe derivano, come dalla loro sorgente, da quella che per prima l‘Apostolo ha citato: «amano se stessi». E‘ dunque con ragione che il Signore chiede a Pietro: «hai dilezione per me?», e giustamente, alla sua risposta: «Sì, ti amo» egli replica: «Pasci i miei agnelli»; e giustamente ripete per tre volte tali parole. Vediamo anche, in questa circostanza, che la dilezione è la stessa cosa che l‘amore: la terza e ultima volta, infatti, il Signore non dice: «hai dilezione per me», ma dice: «Mi ami?».

Non amiamo noi stessi, ma il Signore: e nel pascere le sue pecore, cerchiamo ciò che è suo, non ciò che è nostro. Non so in quale inesplicabile modo accade che, chi ama se stesso e non Dio, non ama nemmeno sé, mentre chi ama Dio e non ama se stesso, in effetti ama anche sé. Colui che non ha la vita da se stesso, muore amando sé: quindi non ama se stesso chi sacrifica la propria vita a questo amore. Colui, invece, che ama il principio della sua vita, tanto più ama se stesso non amando sé, poiché trascura sé per amare colui dal quale deriva la propria vita. Non siano dunque tra quelli che «amano se stessi», coloro che pascono le pecore di Cristo, per non pascerle come proprie, ma del Signore…

Tutte queste colpe e le altre simili, sia che si trovino riunite nello stesso uomo, sia che esercitino separatamente il loro dominio, alcune su certi uomini, alcune su altri, derivano tutte dalla stessa radice, cioè dall‘amore «per se medesimi». Questo è il pericolo dal quale, sopra tutto, debbono stare in guardia coloro che pascono le pecore di Cristo, in modo da non ritrovarsi mai a cercare il proprio interesse invece dell‘interesse di Cristo, o a tentare di trarre soddisfazione dei propri desideri dalle pecore per la cui salvezza è stato versato il sangue di Cristo. L‘amore per Cristo deve tanto crescere in colui che pasce le sue pecore, sino a giungere a quell‘ardore spirituale che gli farà vincere anche il naturale timore della morte, in modo che egli saprà morire proprio perché vuole vivere con Cristo.

L‘apostolo Paolo ci dice infatti di avere un grande desiderio di essere sciolto dai vincoli della carne, per ritrovarsi con Cristo (cf. Fil 1,23). Egli geme per il peso di questo corpo, ma non vuole essere spogliato, ma piuttosto sopravvestito, onde ciò che è mortale in lui sia assorbito dalla vita (cf. 2Cor 5,4). (Agostino, Comment. in Ioan., 123, 5)

Primato di autorità, primato di carità

Diletti Figli e Figlie! Chi, venendo a questa Udienza, a questo incontro con l’umile, ma autentico successore dell’Apostolo Pietro, sulla cui tomba noi ci troviamo, non si contenta di guardare la scena esteriore, che gli si presenta davanti, per quanto unica e parlante con cento voci pur degne d’ascolto e di riflessione, ma cerca di entrare nella sfera delle verità interiori, qui significate e qui eloquenti circa il mistero della Chiesa e della sua prodigiosa concentrazione in questo punto locale, storico, giuridico, spirituale, e quindi della sua altrettanto prodigiosa irradiazione universale; può darsi che arrivi, se fedele, se pio, se attento, ad avvertire la presenza d’un segreto ambientale; d’un segreto, che solo dovrebbe essere noto a Cristo e a Pietro, ma che l’evangelista Giovanni ha saputo cogliere e registrare all’ultima pagina del suo Vangelo, e che perciò è reperibile a chi sa meditare il Vangelo, e sa vederne il riflesso perenne nella storia, che da esso direttamente deriva. Il segreto, che forma il Nostro personale conforto e il Nostro personale tormento, è contenuto ed espresso in una semplice, ma formidabile sillaba, che suona «più, plus, pléon» (Io. 21, 15), e che Gesù ha unito, in maniera tanto inattesa, ma tanto luminosa, al verbo «amare», esigendo e suscitando in quel Simone Pietro, che nella notte della passione del Signore aveva dato la triste prova della sua debolezza, e che Gesù, quasi per cancellare quella colpa ed il suo penoso ricordo, riconfermava nell’ufficio di supremo Pastore del suo mistico gregge. Disse infatti il Signore risorto, nella famosa apparizione sul lago di Tiberiade: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?»; e costoro erano gli altri Apostoli, tra cui il prediletto, l’Evangelista che ci racconta la scena. Ebbene: quel «più», che mette Pietro a confronto con i migliori e maggiori seguaci di Cristo, è parola tremenda. Esige e suscita, dicevamo, un primato d’amore, che deve distinguere Pietro nel misterioso rapporto che intercede fra lui e Cristo, e che lo deve caratterizzare nel rapporto anch’esso misterioso, ma visibile questo, che fa di Pietro il primo Pastore nella santa Chiesa e della santa Chiesa. Al primato d’autorità, già conferito a Simone Pietro, Gesti vuole che corrisponda un primato di carità: potestà totalmente gratuita quella, virtù questa, dove un grande dono, una grande grazia, una grande capacità di amare deve confondersi con il più grande sforzo, il più grande slancio del cuore umano chiamato a tale sommità d’amore. Vi dicevamo che questo è un segreto; sì, perché si riferisce all’aspetto più interiore e più personale della investitura di Pietro a Vicario di Cristo, e forma il principio, se così possiamo dire, della pedagogia e della psicologia dell’Apostolo eletto ad essere primo; primo nell’amore a Cristo, per essere primo nel governo della Chiesa, e cioè nell’amore alla Chiesa. Scoprire questo segreto fa capire molte cose. Bisognerebbe ricordare Santa Caterina da Siena, e i Santi che hanno saputo leggere nel cuore della Chiesa e vedere nel Papa, come ora spesso si ricorda, «colui che presiede alla carità». Il che vuol dire, Figli carissimi, che qua venendo voi arrivate in una casa vostra, in una famiglia vostra; in quel porto, in quel rifugio, dove forse avete desiderato trovarvi in momenti amari, ma orientativi della vita, per essere sicuri di non essere soli al mondo, di non essere orfani, e dimenticati e disprezzati. Qui si può pensare d’essere accolti, compresi, istruiti, guidati, confortati, perdonati, riabilitati, allietati, vivificati; in una parola: amati. Amati di amore divino e di amore umano. Diciamo una cosa molto bella per voi, per ciascuno di voi, e per quanti avranno la sorte e il coraggio di varcare le soglie della casa di Pietro; la casa dell’amore di Cristo e degli uomini. Ma sappiamo ch’è insieme, cosa molto difficile, per Noi; perché amare, come il Signore vuole che ami il Pastore, il Pastore primo specialmente, è davvero difficile: esige cuore immenso, cuore fermo, cuore ardente, cuore eroico. È il Nostro studio e la Nostra angustia! Ma Noi, rispondendo umilissimamente al Signore: «Tu sai che io ti amo», come allora rispose Pietro, confidiamo di mormorare, estraendola dalla Nostra coscienza, la Nostra più profonda parola, e così confidiamo di celebrare in Noi, per la Chiesa, la misericordia amorosa di Cristo. (San Paolo VI, Udienza generale – Mercoledì, 1° dicembre 1965)

Il Vangelo di oggi narra la terza apparizione di Gesù risorto ai discepoli, sulla riva del lago di Galilea, con la descrizione della pesca miracolosa (cfr Gv 21,1-19). Il racconto è collocato nella cornice della vita quotidiana dei discepoli, tornati alla loro terra e al loro lavoro di pescatori, dopo i giorni sconvolgenti della passione, morte e risurrezione del Signore. Era difficile per loro comprendere ciò che era avvenuto. Ma, mentre tutto sembrava finito, è ancora Gesù a “cercare” nuovamente i suoi discepoli. E’ Lui che va a cercarli. Questa volta li incontra presso il lago, dove loro hanno passato la notte sulle barche senza pescare nulla. Le reti vuote appaiono, in un certo senso, come il bilancio della loro esperienza con Gesù: lo avevano conosciuto, avevano lasciato tutto per seguirlo, pieni di speranza… e adesso? Sì, lo avevano visto risorto, ma poi pensavano: “Se n’è andato e ci ha lasciati… E’ stato come un sogno…”.

Ma ecco che all’alba Gesù si presenta sulla riva del lago; essi però non lo riconoscono (cfr v. 4). A quei pescatori, stanchi e delusi, il Signore dice: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (v. 6). I discepoli si fidarono di Gesù e il risultato fu una pesca incredibilmente abbondante. A questo punto Giovanni si rivolge a Pietro e dice: «È il Signore!» (v. 7). E subito Pietro si tuffa in acqua e nuota verso la riva, verso Gesù. In quella esclamazione: “E’ il Signore!”, c’è tutto l’entusiasmo della fede pasquale, piena di gioia e di stupore, che contrasta fortemente con lo smarrimento, lo sconforto, il senso di impotenza che si erano accumulati nell’animo dei discepoli. La presenza di Gesù risorto trasforma ogni cosa: il buio è vinto dalla luce, il lavoro inutile diventa nuovamente fruttuoso e promettente, il senso di stanchezza e di abbandono lascia il posto a un nuovo slancio e alla certezza che Lui è con noi.

Da allora, questi stessi sentimenti animano la Chiesa, la Comunità del Risorto. Tutti noi siamo la comunità del Risorto! Se a uno sguardo superficiale può sembrare a volte che le tenebre del male e la fatica del vivere quotidiano abbiano il sopravvento, la Chiesa sa con certezza che su quanti seguono il Signore Gesù risplende ormai intramontabile la luce della Pasqua. Il grande annuncio della Risurrezione infonde nei cuori dei credenti un’intima gioia e una speranza invincibile. Cristo è veramente risorto! Anche oggi la Chiesa continua a far risuonare questo annuncio festoso: la gioia e la speranza continuano a scorrere nei cuori, nei volti, nei gesti, nelle parole. Tutti noi cristiani siamo chiamati a comunicare questo messaggio di risurrezione a quanti incontriamo, specialmente a chi soffre, a chi è solo, a chi si trova in condizioni precarie, agli ammalati, ai rifugiati, agli emarginati. A tutti facciamo arrivare un raggio della luce di Cristo risorto, un segno della sua misericordiosa potenza.

Egli, il Signore, rinnovi anche in noi la fede pasquale. Ci renda sempre più consapevoli della nostra missione al servizio del Vangelo e dei fratelli; ci riempia del suo Santo Spirito perché, sostenuti dall’intercessione di Maria, con tutta la Chiesa possiamo proclamare la grandezza del suo amore e la ricchezza della sua misericordia. (Papa Francesco, Regina Coeli 10 aprile 2016)

Fonte: Figlie della Chiesa

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