Commento al Vangelo del 28 Marzo 2021 – Padre Giulio Michelini

Gesù, principe della pace entra a Gerusalemme

Alla domenica delle Palme non solo si legge l’intero racconto della passione di Gesù – unica volta nell’anno liturgico, insieme a quella del Venerdì Santo –, ma viene proclamato anche il brano dell’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme.

Di questo racconto, spesso non vengono presi in considerazione i primi versetti, dove si narra di Gesù che comanda ai discepoli di preparargli una cavalcatura per entrare in città. Gesù dice loro: «Andate nel villaggio che vi sta di fronte, e subito entrando in esso troverete un asinello legato, sul quale nessuno è mai salito. Scioglietelo e conducetelo» (Mc 11,2). La scena si complica ulteriormente, quando Gesù presenta una possibile obiezione che potrebbero fare ai suoi discepoli: «E se qualcuno vi dirà: Perché fate questo?, risponderete: Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito» (Mc 11,3). Di fatto, proprio così accade, e alla protesta dei proprietari del puledro (così in Marco, che usa un vocabolo generico che può valere sia per il puledro d’asino sia per quello di un cavallo), rispondendo come il Maestro aveva detto, vengono lasciati andare. Il tutto prende sei versetti del racconto marciano, generalmente parco, tanto che siamo autorizzati a domandarci il senso di tale insistenza.

Gesù infatti, attraverso la questione del puledro, si sta comportando come un vero Re che entra a Gerusalemme. Egli esercita il suo diritto regale di «nuovo possessore messianico» (R. Penna) in conformità a quanto detto in un passo biblico molto noto, quello dal Primo Libro di Samuele (8,16), e che probabilmente Marco aveva in mente. Al tempo del profeta Samuele, ricordiamo, gli Ebrei non avevano ancora un re. Erano stati a loro capo diversi Giudici (Eud, Sansone, Debora, ecc.), e ultimamente Samuele stesso, ma mentre il profeta è vecchio e sta per morire, la sua gente ha paura di non aver più qualcuno che li governi. Recandosi da lui, gli dicono: «Ora stabilisci per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli». Samuele non è d’accordo, teme che un re tolga la gloria a Dio, l’unico che può essere il Signore del popolo dell’alleanza. E mette davanti vari ostacoli ed inconvenienti, che nasceranno quando il re, se verrà scelto, causerà con le sue molte pretese. Tra queste, oltre alle tasse, al servizio militare obbligatorio, ai molti obblighi, ve ne è uno che veniva chiamato nell’antichità angaréia (da cui anche l’italiano “angheria”), ovvero l’obbligo di fornire un mezzo di trasporto al re che, al bisogno, lo richiedesse. Dice precisamente il profeta Samuele: «Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi:… Vi sequestrerà gli schiavi e le schiave, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori» (1Sam 8,16).

Sembra proprio quello che fa Gesù, il quale però non compie nessuna angheria: promette anzi di restituire subito l’asino, dopo l’ingresso in città. Gesù è il legittimo re d’Israele, ma non usa violenza e non si appropria di nulla. È lui solo che, contrariamente alle norme rabbiniche comunemente accettate al tempo, decide di entrare in città “a cavallo”, mentre in occasione del pellegrinaggio pasquale ci si poteva arrivare solo a piedi.

Quanto stiamo dicendo emerge soprattutto dal resoconto del Quarto Vangelo. Anche se il racconto è il più breve di tutti (Gv 12,12-15), è Giovanni a parlare di una grande folla osannante (negli altri vangeli abbiamo la presenza solo dei pellegrini che accompagnano Gesù), con le palme (nei sinottici si parla solo di rami d’ulivo) e che acclama Gesù come il “re di Israele”. Anche la citazione che accompagna il racconto di Giovanni, tratta dal libro del profeta Zaccaria 9,9 (la stessa che usa Matteo), indica in Gesù il re che entra in città: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina» (Gv 12,15). Cosa è successo?

Nel piano del racconto di Marco, «Gesù ha finalmente deciso di manifestarsi pubblicamente come Messia», come il re della pace: «mentre fino a questo momento ha sempre evitato ogni proclamazione messianica, ora ritiene giunto il momento di farlo. L’arrivo a Gerusalemme, centro religioso del giudaismo, è l’occasione da lui scelta per questa manifestazione. Il modo però in cui entra nella città santa deve chiarire ai pellegrini che lo seguono come si deve intendere la sua messianità. Egli non si presenta come un condottiero di guerra, ma come un principe di pace» (G. Jossa).

La rivelazione di Gesù come re e Messia avviene paradossalmente al termine della sua vita: qui e soprattutto alla domanda di Pilato: «Sei tu il re dei Giudei?» (Mc 15,2). Domanda simile sarà fatta dal sommo sacerdote Caifa: «Sei tu il Messia?» (14,61). Le risposte di Gesù, in tutti e due i casi, interpellano la nostra fede. Ma, e qui è la sfida ad essa, che Gesù sia il re del suo popolo, e anche dell’universo, lo si coglie soprattutto dalle parole di scherno dei soldati: «Salve, re dei Giudei», e dalla scritta sulla croce: «Il re dei Giudei» (15,26).

Un’ultima sottolineatura, che riguarda l’uso delle fonti rabbiniche per la comprensione del Nuovo Testamento. Michel Remaud richiama infatti una tradizione giudaica riguardante una particolare asina, quella di Abramo. Così recita una testimonianza antica (che non era ancora fissata in questa forma, ma magari si stava già formando ai tempi di Gesù): «Abramo si alzò di buon mattino, prese con sé Ismaele, Eleazaro e Isacco suo figlio, e sellò il suo asino. Quest’asino è il figlio dell’asina che era stata creata al crepuscolo. È l’asino che cavalcò Mosè quando scese in Egitto (cf. Es 4,20), ed è l’asino che cavalcherà il Figlio di David, come è detto: “Esulta, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”» (Pirqe de-Rabbi Eliezer). Questa tradizione popolare ebraica è originata dall’interpretazione del racconto della “legatura” di Isacco di Gen 22, e dal fatto che dell’asina di Abramo non si ha più traccia alla fine di quella storia: si credeva, appunto, che fosse rimasta nei dintorni del monte Moria (ovvero il monte del tempio di Gerusalemme nella tradizione giudaica – già secondo 2Cr 3,1) ad attendere il Messia. Il significato teologico dell’identificazione tra l’asina di Abramo e di Mosè e quella del Messia è importante: l’asino nelle fonti rabbiniche non è soltanto un simbolo messianico, ma un animale umile e indispensabile per Israele, un segno vivo della continuità del disegno divino, che partiva da Abramo e si compie ora in Gesù. Non si deve sottovalutare questa credenza, soprattutto per una ragione. Essa infatti è stata custodita e trasmessa nella tradizione giudaica anche dopo che i cristiani l’hanno così palesemente riferita al loro Messia. Se non fosse stata antica e già conosciuta al tempo in cui i vangeli vengono composti, non sarebbe stata certo creata, in quanto dava modo alla Chiesa di vedervi riflesso l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme. Matteo dunque poteva essere al corrente di questo midrash, e ciò spiegherebbe anche perché l’evangelista non riporta l’informazione – che si trova invece in Marco e in Luca – circa il fatto che su quell’asina/o nessuno era ancora salito (cf. Mc 11,2; Lc 19,30): l’asina del Messia secondo la tradizione giudaica, che Matteo forse conosceva, era già stata la cavalcatura di qualcuno, Abramo e Mosè!

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