Commento al Vangelo del 28 aprile 2013 – Paolo Curtaz

28 aprile 2013
V Domenica di Pasqua (Anno C)
At 14,21-27 / Sal 144 / Ap 21,1-5 / Gv 13,31-35

Glorificazioni

Gesù ha appena detto ai suoi che uno di loro sta per consegnarlo.

È turbato, il Maestro. Ora che l’ora sta per compiersi sente nel suo cuore tutta la fatica del gesto immenso che sta per fare. Gli apostoli si guardano l’un l’altro, pensano che il traditore sia di fronte a loro. In realtà il traditore è dentro ciascuno di loro. Dentro ciascuno di noi.
Giovanni l’evangelista, il padrone di casa, reclina il capo sul cuore di Gesù e gli chiede: «Chi è, Signore?»
Gesù intinge il pane e lo offre a Giuda che lo mangia e si irrigidisce.
Dare il pane è il più bel segno di accoglienza nel popolo di Israele. Giuda lo interpreta come un’offesa. Come succede quando un nostro gesto carico di affetto viene drammaticamente preso per il verso contrario. Gesù sta svelando a Giuda che è lui il discepolo più amato. Vorrebbe stringerlo al proprio petto perché senta la misura dell’amore.
Giuda è scosso, esce nella tenebra. La tenebra che ora lo invade.
Ma con sé, nel suo cuore, porta il pane, l’eucarestia.
Gesù si è appena consegnato alla tenebra. Ma la luce spezzerà il buio più fitto.

La glorificazione
E Gesù insiste, esagera: ora sono stato glorificato, dice.
Ora che Giuda sta andando a tradirlo, ora che il suo cuore è tenebroso e ostile, Dio potrà manifestare quanto lo ama. Nel tradimento di Giuda vediamo la misura dell’amore di Gesù.
Giuda si è perso, ma il Signore non è venuto proprio a salvare chi era perduto?
La perdizione non è, appunto, il luogo teologico della salvezza?
Non veniamo salvati proprio perché, prima, ci siamo smarriti?
Con Giuda Gesù potrà dimostrare qual è la misura dell’amore di Dio: l’assenza di misura.
Ogni uomo che prende coscienza di sé si pone la domanda: sono perduto o salvato?
Gesù risponde: sei perduto e sei salvato.
Gli apostoli non capiscono, come non hanno capito il gesto della lavanda dei piedi.
Pietro, poco dopo, dirà che egli è disposto a dare la vita per Gesù.
Pietro, ormai, si prende per Dio. Gesù gli ricorderà che è lui a dare la vita per i suoi discepoli.
Un gallo urlerà ricordando a Pietro il suo limite. Non per Dio deve morire, ma con lui.
Tutto ciò che può fare il discepolo è imitare il Maestro, non sostituirlo.

Tutti dicono, intorno a noi, che la gloria consiste nel successo e nell’applauso. Gesù, nel momento più fallimentare della sua vita afferma di essere al vertice della sua glorificazione.
La gloria è poter dimostrare il proprio amore.
Poco importa se diventeremo premi Nobel o grandi personaggi, splendidi genitori o grandi santi. Importa quanto avremo amato, o desiderato amare. Ecco la vera gloria, quella che il mondo non conosce. E che nessuno ci può togliere.
E se, invece di passare la vita ad elemosinare un applauso iniziassimo a voler amare?

Amatevi
Tra Giuda e Pietro gli altri evangelisti pongono l’ultima Cena.
Giovanni salta il racconto della cena per sostituirlo con la lavanda: la liturgia è falsa se non diventa servizio al fratello debole. Giovanni osa di più: tra i due tradimenti e le due salvezze (Giuda è salvato dal male, Pietro dal finto bene) inserisce l’unico comandamento dell’amore.
Gesù chiede di amarci (amare me, amare te) dell’amore con cui egli ci ha amato.
Del suo amore, col suo amore. Non con l’amore di simpatia, di scelta, di sforzo, di virtù.
Con l’amore che, provenendo da Cristo, può riempire il nostro cuore per poi defluire verso il cuore degli altri.
Io, Paolo, non riesco ad amare le persone antipatiche, né quelle che mi fanno del male. Solo l’amore che viene da Dio, un amore teologico, mi permette di poter amare al di sopra dei sentimenti e delle emozioni.
La Chiesa non è il club dei bravi ragazzi, delle facili consolazioni, di quelli che hanno Gesù come hobby: la Chiesa è la compagnia di coloro che sono stati incontrati ed amati da Cristo. Perciò diventano capaci di amare come splendidamente ci ricorda il papa venuto dai confini del mondo. Ma dal cuore del cuore.

Identità
Dall’amore dobbiamo essere conosciuti.
Non dalle devozioni, non dalle preghiere, non dai segni esteriori, non dall’organizzazione caritative, ma dall’amore. L’amore è ciò che maggiormente deve stare a cuore nella Chiesa.
Che sia vero, che sia libero, che diventi evidente.
Un amore in equilibrio tra emozione e scelta, tra enfasi e volontà, che diventi concreto e fattivo, tollerante e paziente, autentico e accessibile, che sappia manifestarsi nel momento della prova e del tradimento.
Celebrando oggi l’eucarestia, memoria del Risorto, cerchiamo anzitutto di amare di più e meglio, perché chi ci vede si accorga che in mezzo a noi dimora il Cristo.
Per glorificare anche noi il Padre.

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