Commento al Vangelo del 23 Settembre 2018 – Figlie della Chiesa

Dio ci ha chiamati mediante il Vangelo, per entrare in possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo”, così il canto al Vangelo di questa XXV Domenica del Tempo Ordinario ci fa cantare e ci porta al cuore della nostra chiamata che conduce al possesso della gloria del Signore. La nostra è dunque una chiamata alla gloria, non al dolore e alla tristezza, non alla penitenza e al pianto, come troppo spesso viene definito il cristianesimo, ma un cammino che conduce alla gloria, quella che il Signore ha già preparato per noi. Dov’è allora l’ostacolo? Come mai questo annuncio di gioia è troppo spesso frainteso? Nella pericope evangelica Gesù smaschera il falso desiderio che abita ciascuno di noi e ci conduce ad ambire a una gloria effimera, fallace, che altro non fa che renderci più poveri, più soli, più tristi. L’uomo è alla ricerca della gloria terrena che lo coinvolge in uno sfrenato arrivismo che arriva a giustificare anche la sopraffazione e la prevaricazione pur di raggiungere un obiettivo falso. S. Giacomo nella seconda lettura, con la sua spiccata chiarezza, ci pone di fronte il vero scenario nel quale viviamo: “gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni”, indicandone chiaramente quali conseguenze questo comporta: “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra…”. E quanto la descrizione di duemila anni fa rispecchi la situazione in cui viviamo è sotto i nostri occhi!

Con l’abilità che lo contraddistingue, Gesù comprende il disagio dei discepoli che cercano di soddisfare i grandi desideri del cuore con un cibo che non sazia e li conduce a riconoscere qual è il vero modo per giungere a quella gloria che è già stata preparata per loro. Così come ai discepoli, anche a noi è donata l’opportunità di riconoscere qual è il cammino che ci conduce alla realizzazione di quella gloria che tutti desideriamo e che il Signore non mortifica, ma appaga. Il Vangelo di questa domenica ci viene allora offerto come medicina ai nostri tanti arrivismi e manie di potere che abitano costantemente il nostro cuore.

v.30 – 31a: «Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli» La lettura corsiva del vangelo di Marco in questa domenica prevede un taglio abbastanza rilevante e omette la narrazione della trasfigurazione e della guarigione dell’indemoniato epilettico, che ne costituiscono un contesto importante, senza il quale si rischia di falsare l’interpretazione del brano proposto. Nella scorsa domenica, infatti, abbiamo sentito risuonare il “Va dietro a me, Satana” che Gesù rivolge a Pietro e la conseguente convocazione della folla a cui Egli dà i criteri della sequela.

Subito dopo, il cuore dei discepoli fedeli è riscaldato con la manifestazione gloriosa del Signore che tuttavia conduce ad un’ulteriore cocente sconfitta dei discepoli, incapaci di guarire l’indemoniato. Quando partono dal luogo della guarigione dell’epilettico vivono in un faticoso stato d’animo che ci fa intravedere un clima pesante. E in tutto questo c’è ancora quest’ordine del Maestro di non dire a nessuno dove va, che i discepoli proprio non capiscono! È una situazione a noi molto familiare: nella relazione con il Signore ci capita anche abbastanza di frequente di non comprendere cosa sta facendo nella nostra vita e per quale motivo ci chiede cose che volentieri vorremmo evitare.

La ragione del silenzio è però spiegata dall’evangelista: “insegnava, infatti…”! Gesù vuole rimanere nell’anonimato non perché ha un piano o ha timore di qualcosa, ma perché sa che per istruire i suoi ha bisogno di staccarli dalla frenesia in cui si sono cacciati, dalla smania di diventare presto grandi, con questo Messia che fa miracoli. E forse è quanto ha fatto o sta facendo nella nostra vita concreta: tirarci via dalla frenesia in cui ci siamo cacciati, che ci impedisce di riconoscere le vere motivazioni per cui vale la pena spendersi.

v.31b – 32: «…diceva loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini…”. Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo». Anche i discepoli scelgono la via del silenzio, ma evidentemente è diversa la motivazione. Alla base della nostra incapacità di accogliere le parole del Signore e di fidarci di Lui, c’è la paura che amplifica le nostre normali difese. Stupisce sempre tanto la sottolineatura degli evangelisti sull’incomprensione dei discepoli. Per la verità Gesù non sta dicendo cose che richiedono ragionamento o particolari competenze per poter cogliere il senso. Egli dice con chiarezza che lo uccideranno, ma che questa morte non è l’ultima parola sulla sua vita, perché succederà qualcosa di sconvolgente che darà un significato diverso alla sua vita…ma i discepoli non capivano.

C’è un linguaggio che pur essendo comprensibile nella forma, non arriva al cuore e non produce nessun effetto ed è quello che comunica agire e criteri che non condividiamo o che addirittura fuggiamo. Questo meccanismo è il più comune nella relazione con il Signore, in quanto il suo modo di vivere, i suoi criteri, le sue scelte non sono quelle che vorremmo noi. In questa ottica si comprende anche perché i discepoli non chiedono spiegazione: hanno capito benissimo che cosa succederà, ma non hanno nessuna intenzione di accogliere questa verità che li spaventa, li destabilizza. La via migliore è non fare domande, assicurandosi la possibilità di rimanere con le proprie idee, portare avanti i propri progetti e non compromettersi. È una malattia che colpisce anche la nostra vita spirituale, con il rischio di anestetizzarci.

v.33 – 34a: «Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano». È bellissima questa tenacia di Gesù! Questi pochi versetti ci mostrano che Egli non rimane nella tristezza perché ai suoi non gliene importa nulla che morirà, non si ferma a compiangersi e a recriminare, come siamo soliti fare noi, ma è totalmente proiettato verso l’attenzione all’altro, l’attenzione ai suoi per i quali è disposto a morire, senza contraccambio. Se ci pensiamo bene, questo atteggiamento di Gesù è davvero destabilizzante! Per quanto possiamo sforzarci, non siamo capaci di vivere questo distacco dal contraccambio, che al contrario diventa la nostra cartina tornasole. Il Suo segreto sta nel sentirsi amato dal Padre: Egli sa che la fonte da cui trarre l’amore necessario per la sua vita non è nel compiacimento dei suoi amici, ma il cuore del Padre e in questo cuore impara ad amare ciascuno con una enorme libertà. È questo Amore che libera il cardine della sua vita e delle sue scelte.

v.34b: «Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande». Il silenzio dei discepoli ha un grave motivo che ci mostra come il miracolo che il Signore ha fatto nella pericope precedente dell’indemoniato epilettico, che era sordo e muto, è figura della condizione spirituale dei discepoli e della nostra.

La discussione su chi è il più grande “è il motivo per cui, ascoltando la Parola, non intendono, e, interrogati, non rispondono. Lo spirito sordo muto, comune a tutti per il peccato, si esprime nel protagonismo, criterio supremo di azione di chi non si sente amato, non si ama e non ama. Per esso l’uomo sacrifica la propria vita agli idoli dell’avere, del potere e dell’apparire di più, distruggendo la propria realtà di Figli di Dio. Quando si litiga e si discute, anche all’interno della Chiesa, non è mai per amore della verità. Per questa si ricerca, si ascolta, si comunica e si dialoga. Questo desiderio mette ciascuno in lotta con sé e con gli altri, e disgrega la comunità” (S. Fausti).

v.35a: «Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro…» Il momento è solenne perché Gesù sa che questo è proprio il cuore del nostro problema, per cui la narrazione si rallenta e descrive ogni movimento dandogli un valore sacramentale. La prima azione che il Signore fa è sedersi, in un clima che possiamo immaginare molto pesante, data la gravità della situazione. Il sedersi è l’atteggiamento del Maestro che vuole comunicare un insegnamento particolarmente importante e per questo dopo essersi seduto, chiama i Dodici. È la terza chiamata descritta dall’evangelista Marco nella quale è mostrata la vera identità degli apostoli e dunque la vera identità di ciascun credente. Nei nomi che Gesù chiama c’è anche il nostro: anche a noi che non ci sentiamo amati e non ci amiamo, è chiesto di sederci ai piedi del Signore per ascoltare la nuova legge che ci salva.

v.35b: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» È il segreto di Gesù! Con una incredibile tenerezza, tra lo stupore dei discepoli (e nostro) che si aspettavano un rimprovero solenne, Gesù ci spiega come fa a vivere nella libertà di amare tutti e ciascuno. È incredibile soffermarsi a contemplare il cuore di questo nostro Dio e vedere come Egli non rinnega il desiderio che abbiamo di primeggiare, perché sa che ci appartiene per il fatto stesso che siamo umani. La sua azione è orientare questo desiderio per farci diventare veri uomini liberi e felici, indicando che il modo di appagare questa sete di protagonismo è l‘“agere contra”, ossia agire all’opposto in fatto di Amore. Il desiderio non è condannato, è al contrario riconosciuto come valido e ne viene indicato come realizzarlo pienamente facendo il contrario di quello che umanamente si potrebbe pensare: vuoi essere il primo? Ok, allora mettiti nella condizione di essere ultimo e di non contare nulla! Possiamo pensare che i discepoli siano rimasti ancora più sconcertati, sentendo le resistenze che si scatenano immediatamente nel nostro cuore al solo pensiero di essere all’ultimo posto, di essere considerati ultimi. Infatti questo è possibile solo se si è fatta esperienza di essere amati di un amore enorme, come è l’esperienza di Gesù nei confronti del Padre.

v.36 – 37: «E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”» Anche in questi versetti la scena è rallentata e Gesù, per rendere più chiaro il messaggio annunciato, prende un bambino, lo mette nel centro perché tutti lo vedano e lo abbraccia: questo è il modello dei discepoli e nostro. Oltre alla sua vita, il Signore lascia ai credenti come immagine di sequela un bambino, che agli occhi dei discepoli era davvero l’ultimo. I bambini infatti nella cultura ebraica del tempo erano considerati nulla e non avevano, come le vedove, nessuna attenzione e nessuna stima.

“Il bambino è l’uomo non realizzato, ultimo di tutti. Insufficiente a sé e bisognoso degli altri, è ciò che gli altri ne fanno. Riceve tutto ciò che fa ed è vivendo di dono e di accoglienza gratuita. E lo fa con semplicità, perché si sente amato” (S. Fausti). Ecco la meta che Gesù ci propone: smettere di preoccuparci e di affannarci a diventare il primo e come un bambino tra le braccia della sua mamma, vivere dell’amore che con la sua vita, morte e risurrezione, il Signore ci ha già donato.

Appendice

«Imparate da me che sono mite»

Partiti di là, si aggiravano per la Galilea, e non voleva che alcuno lo sapesse. Ammaestrava frattanto i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell`uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, ma, ucciso, dopo tre giorni risorgerà»” (Mc 9,30-31).

«Il Signore unisce sempre alle cose liete le tristi, affinché, quando queste giungeranno, non atterriscano gli apostoli, ma siano accolte da anime pronte. Così li rattrista dicendo che dovrà essere ucciso, ma li fa lieti col dire che nel terzo giorno risorgerà» (Girolamo).

Essi però non comprendevano quel discorso e temevano di interrogarlo” (Mc 9,32).

Questa ignoranza dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza del loro intelletto, quanto dall`amore che essi nutrivano per il Salvatore, questi uomini ancora carnali e ignari del mistero della croce, non avevano la forza di accettare che colui che essi avevano riconosciuto essere vero Dio tra poco sarebbe morto. Ed essendo abituati a sentirlo parlare per parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, tentavano di dare un significato figurato anche a quanto egli diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione.

E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: «Di che cosa discutevate per via?». Ma essi tacevano. Infatti, mentre erano per strada discutevano tra loro chi fosse il più grande“(Mc 9,33-34).

Sembra che la discussione fra i discepoli sul primato fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che ivi qualcosa in segreto era stato dato loro. Ma erano convinti già da prima, come narra Matteo (cf. Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del regno dei cieli, e che la Chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome; perciò concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri, o che Pietro fosse superiore a tutti.

E sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: «Se qualcuno vuole essere il primo, sarà l`ultimo di tutti e il servo di tutti». E preso un fanciullo lo collocò in mezzo a loro, e presolo tra le braccia, disse loro: «Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel mio nome, riceve me…»“(Mc 9,35-37).

«Il Signore, vedendo i discepoli pensierosi, cerca di rettificare il loro desiderio di gloria col freno dell`umiltà, e fa loro intendere che non si deve ricercare di essere i primi, così dapprima li esorta col semplice comandamento dell`umiltà, e li ammaestra subito dopo con l`esempio dell`innocenza del fanciullo. Dicendo infatti: “Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel nome mio, riceve me”, o mostra semplicemente che i poveri di Cristo debbono essere ricevuti da coloro che vogliono essere più grandi per rendere così un atto d`onore al Signore, oppure li esorta, a motivo della loro malizia, ad essere anche essi come i fanciulli, cioè, come fanno i fanciulli nella loro età, a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia, e la devozione senza ira» (Girolamo). Prendendo poi in braccio il fanciullo, fa intendere che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili, e che, quando essi avranno messo in pratica il suo comandamento: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29), solo allora potranno giustamente gloriarsene e dire: “La sua mano sinistra è sotto la mia testa e la sua destra mi abbraccerà” (Ct 2,6). E dopo aver detto: «Chiunque di voi riceverà uno di questi fanciulli», giustamente aggiunge: «nel mio nome», in modo che anch`essi sappiano di poter raggiungere, nel nome di Cristo e con l`aiuto della ragione, quello splendore della virtù che il fanciullo possiede per natura. Ma poiché egli insegnava ad accogliere se stesso nei fanciulli come si accoglie il capo accogliendo le membra, affinché i discepoli non avessero a fermarsi solo all`apparenza, aggiunge: «E chiunque riceve me, non riceve me, ma Colui che mi ha mandato», volendo così convincere gli astanti che egli era tale e quale il Padre. (Beda il Vener., In Evang. Marc., 3, 9, 28-37)

Umiltà e grandezza del Verbo incarnato

Non è ovviamente, senza motivo il fatto che i tre magi, condotti dallo splendore di una nuova stella ad adorare Gesù, non lo abbiano visto in procinto di comandare ai demoni, di risuscitare i morti, di ridare la vista ai ciechi, o la deambulazione agli storpi, o la parola ai muti; né in procinto di compiere qualche altro gesto rivelatore della potenza divina; no, videro un bimbo silenzioso, tranquillo, affidato alle cure di sua madre; in lui non appariva alcun segno esterno del suo potere, offrendo invece alla vista un solo grande prodigio: la sua umiltà. Così, lo spettacolo stesso di quel santo bambino al quale Dio, il Figlio di Dio, si era unito, impartiva all`occhio quell`insegnamento che piú tardi doveva essere proclamato all`orecchio, e quanto non proferiva ancora il suono della sua voce, lo insegnava già il semplice fatto di guardarlo. Tutta la vittoria del Salvatore, infatti – vittoria che ha soggiogato il demonio e il mondo -, è iniziata dall`umiltà ed è stata consumata nell`umiltà. Egli ha inaugurato nella persecuzione i suoi giorni predestinati, e nella persecuzione li ha portati a termine; al bambino non è mancata la sofferenza, e a colui che era chiamato a soffrire non è mancata la dolcezza dell`infanzia; infatti, il Figlio unico di Dio ha accettato, con un unico atto di abbassamento della sua maestà, tanto di nascere volontariamente come uomo che di poter essere ucciso dagli uomini.

Se dunque Dio onnipotente, per il privilegio della sua umiltà, ha reso buona la nostra causa sì perversa, e ha distrutto la morte e l`autore della morte (cf. 1Tm 1,10; Eb 2,14), non rifiutando quanto di sofferenze gli procuravano i suoi persecutori, sopportando anzi con suprema dolcezza e per obbedienza al Padre le crudeltà di coloro che si accanivano contro di lui; quanto noi stessi dovremmo essere umili, quanto pazienti, dal momento che, se qualche prova ci sopraggiunge, di certo mai la subiamo senza averla meritata! Chi si potrà vantare di avere il cuore puro o di essere esente da peccato? (cf. Pr 20,9). E, come afferma san Giovanni: “Se diciamo di essere senza peccato, mentiamo e la verità non è in noi” (1Gv 1,8).

Chi si troverà sì indenne da colpa che la giustizia non abbia niente da rimproverargli in lui, o che la misericordia non debba perdonargli? Per cui, o carissimi, tutta la pratica della sapienza cristiana non consiste né in abbondanza di parole, né in abilità nel discutere, né in appetiti di lode e di gloria, bensì nella sincera e volontaria umiltà che il Signore Gesù Cristo ha scelto e insegnato con ogni mezzo, dal seno materno fino al supplizio della croce. Infatti, un giorno che i suoi discepoli disputavano, come dice l`evangelista, per stabilire “chi, tra di loro dovesse essere il più grande nel regno dei cieli, egli chiamò a sé un bambino e postolo in mezzo a loro, disse: In verità, in verità vi dico, se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi dunque si farà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,1-4). Cristo ama l`infanzia che egli ha dapprima vissuto sia nell`anima che nel corpo. Cristo ama l`infanzia, maestra di umiltà, regola di innocenza, modello di dolcezza. Cristo ama l`infanzia e verso di lei orienta il modo di agire degli adulti; verso di lei riconduce gli anziani; egli attrae al suo esempio personale coloro che egli innalza al regno eterno.

Se però vogliamo divenire capaci di capire come sia possibile pervenire ad una conversione così mirabile, e per quali trasformazioni si debba ritornare allo stato di infanzia, lasciamo che sia san Paolo ad istruirci, con le parole: “Non siate come bambini nel modo di giudicare, siate invece bambini in fatto di malizia” (1Cor 14,20). Non si tratta perciò per noi di ritornare ai giochi dell`infanzia, né alle goffaggini degli inizi, bensì di riprendere da essa una cosa che si addice benissimo anche agli anni della maturità, cioè che svaniscano senza indugi le nostre agitazioni interiori e che ritroviamo rapidamente la pace, che non serbiamo alcun ricordo delle offese; non siamo minimamente avidi di dignità; che amiamo stare insieme, serbando una uguaglianza secondo natura. E` un gran bene, infatti, non saper nuocere e non avere il gusto del male; infatti, far torto e restituire il torto, costituisce la sapienza di questo mondo; al contrario, non ricambiare a nessuno male per male (cf. Rm 12,17), è quello spirito d`infanzia, pieno di uguaglianza, proprio di un`anima cristiana. E` a questo tipo di somiglianza con i bambini che ci invita, o carissimi, il mistero della festa di oggi; ed è questa forma di umiltà che vi insegna il Salvatore bambino adorato dai magi. Per mostrare quale gloria egli prepara per i suoi imitatori, egli ha consacrato con il martirio dei neonati insieme a lui; nati a Betlemme come Cristo, essi sono stati in tal modo associati a lui sia nell`età che nella passione.

Amino dunque i fedeli l`umiltà ed evitino ogni orgoglio; preferisca ciascuno a sé il proprio prossimo (cf. 1Cor 4,6) e che “nessuno ricerchi il proprio interesse, bensì quello degli altri” (1Cor 10,24); in tal modo, quando tutti saranno compenetrati da sentimenti di benevolenza, più non esisterà il virus dell`invidia: infatti, “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). E` quanto attesta lo stesso nostro Signore Gesù Cristo, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. (Leone Magno, Sermo VII, in Epiphan., 2-4)

I danni dell`invidia e della gelosia per i singoli e per la Chiesa

Molto si estende la rovina, molteplice e tristemente feconda, della gelosia. E` la radice di tutti i mali, la sorgente delle stragi, il vivaio dei delitti, la sostanza delle colpe. Da lei sorge l`odio, da lei procede l`animosità. La gelosia infiamma l`avarizia, perché non può essere contento del suo, chi vede l`altro più ricco di sé. La gelosia eccita l`ambizione, se si vede qualcuno maggiormente onorato. Quando la gelosia accieca il nostro senso e soggioga al suo potere l`intimo della nostra mente, si disprezza il timore di Dio, si trascura l`insegnamento di Cristo, non si pensa al giorno del giudizio. La superbia si gonfia, la crudeltà si esacerba, la perfidia si erge, l`impazienza si scuote, furoreggia la discordia e ferve l`ira; e chi è in potere altrui non può più reggere e reprimere sé. Si rompe così il vincolo della pace donataci dal Signore, si viola la carità fraterna, si adultera la verità, si scinde l`unità, ci si getta nell`eresia e nello scisma, si disprezzano i sacerdoti, si invidiano i vescovi -lamentandosi di non essere stati nominati al posto loro – e si sdegna di riconoscere i propri superiori. Così ricalcitra e si ribella chi è superbo per l`invidia e pervertito dalla gelosia: chi è nemico, per animosità e livore, non dell`uomo, ma della sua dignità.

Ma quale tignola per l`anima, quale muffa per il pensiero, quale ruggine per il cuore, invidiare in altrui, o la sua virtù, o la sua felicità, odiare cioè in lui o i suoi meriti, o i benefici divini, convertire in male proprio il bene altrui, esser tormentati dalla prosperità dei ricchi, far propria pena della gloria degli altri, e radunare quasi nel proprio tetto i propri carnefici, farsi cioè torturare dai propri pensieri e dai propri sensi, lasciarsi da loro lacerare con sofferenze profonde, strappare a brani l`intimo del cuore con le unghie del rancore. In tale stato non si può gustare cibo o apprezzare bevanda: e si sospira sempre, si geme e ci si duole; mai gli invidiosi depongono il loro livore, giorno e notte il loro petto è internamente lacerato senza posa. Gli altri mali hanno un termine e ogni sentimento delittuoso, una volta compiuto il delitto, si placa… ma l`invidia non ha termine: è un male sempre vivo, un peccato senza fine; più chi è oggetto di invidia avanza e ha successo, più l`invidioso arde in un maggiore fuoco di gelosia…

Perciò il Signore, preoccupandosi di questo pericolo e che nessuno incappasse nel laccio mortale dell`invidia contro i fratelli, interrogato dai suoi discepoli chi tra loro fosse maggiore, disse: “Chi sarà il minimo fra tutti voi, costui sarà grande” (Lc 9,48). (Cipriano di Cartagine, De zelo et livore, 6-7)

Il vero significato di bambino per Gesù

Anche noi, sicuramente, andiamo fieri di un termine che evoca nel bambino i beni più belli e più perfetti che possediamo in questa vita, quelli che siamo soliti definire “educazione e pedagogia“. Per pedagogia intendiamo una buona formazione che porti qualitativamente dall`infanzia alla virtù. Il Signore, d`altronde, ci ha indicato chiaramente cosa bisognasse intendere per “bambino. Essendo sorta una disputa tra gli apostoli per stabilire chi di loro fosse il più grande, Gesù pose in mezzo a loro un bambino e disse: Chi si farà come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,1-4; Lc 9,46-48; Mc 9,33-37).

Non si serve del termine “bambino” pensando all`età in cui si manca di intelligenza, come certuni hanno ritenuto. E quando dice: “Se non diverrete come questi bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3), non bisogna interpretarlo scioccamente.

In effetti, noi non siamo più dei bambini che camminano carponi, non ci trasciniamo più sul suolo come prima, alla maniera di serpenti rotolandoci con tutto il nostro corpo nei desideri irragionevoli; al contrario, tesi verso l`alto con la nostra intelligenza, separati dal mondo e dai peccati, toccando appena la terra con la punta del piede, pur apparendo presenti in questo mondo, conseguiamo la santa sapienza. Questa, però, sembra una follia (cf. 1Cor 1,18-22) a coloro che sono orientati alla malvagità.

Sono davvero dei bambini coloro che riconoscono Dio come unico Padre, semplici, piccolini, puri…

Nei confronti di coloro che sono progrediti nel Logos, (il Signore) ha fatto una simile dichiarazione; ordina loro di disprezzare i fastidi di quaggiù e di fissare l`attenzione solamente sul Padre, imitando i bambini.

Ecco perché dice loro subito dopo: “Non datevi pensiero per il domani, perché ad ogni giorno basta il suo affanno” (Mt 6,34). Egli intende prescrivere in tal modo di deporre le preoccupazioni di questa vita per affezionarsi al Padre solamente. E chi mette in pratica questo precetto è realmente un piccolino e un bambino, ad un tempo per Dio e per il mondo: questo lo considera nell`errore; quegli lo ama. Ma poiché, come dice la Scrittura, vi è un solo maestro, che è nei cieli (cf. Mt 23,8), in accordo con ciò si potrà dire con ragione che tutti gli abitanti della terra sono suoi discepoli. E tale è in effetti la verità: la perfezione appartiene al Signore, che non cessa di insegnare, fintanto che noi conserviamo il carattere di bambini e di piccolini e non cessiamo di apprendere. (Clemente di Ales., Paedagogus, V, 16, 1 – 17, 3)

Gesù rivolge ai suoi discepoli una domanda apparentemente indiscreta: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?” (Mc 9,33). Una domanda che anche oggi Egli può farci: Di cosa parlate quotidianamente? Quali sono le vostre aspirazioni? «Essi – dice il Vangelo – tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (Mc 9,34). Si vergognavano di dire a Gesù di cosa stavano parlando. Come nei discepoli di ieri, anche in noi oggi si può riscontrare la medesima discussione: “Chi è il più grande?”.

Gesù non insiste con la sua domanda, non li obbliga a dirgli di che cosa parlavano per la strada; eppure quella domanda rimane, non sono nella mente, ma anche nel cuore dei discepoli.

“Chi è il più grande?”. Una domanda che ci accompagnerà per tutta la vita e alla quale saremo chiamati a rispondere nelle diverse fasi dell’esistenza. Non possiamo sfuggire a questa domanda, è impressa nel cuore. Ho sentito più di una volta in riunioni famigliari domandare ai figli: “A chi volete più bene, al papà o alla mamma?”. È come domandare: chi è più importante per voi? Questa domanda è davvero solo un semplice gioco per bambini? La storia dell’umanità è stata segnata dal modo di rispondere a questa domanda.

Gesù non teme le domande degli uomini; non ha paura dell’umanità, né dei diversi interrogativi che essa pone. Al contrario, Egli conosce i “recessi” del cuore umano, e come buon pedagogo è sempre disposto ad accompagnarci. Fedele al suo stile, fa’ propri i nostri interrogativi, le nostre aspirazioni e dà loro un nuovo orizzonte. Fedele al suo stile, riesce a dare una risposta capace di porre una nuova sfida, spiazzando le “risposte attese” o ciò che era apparentemente già stabilito. Fedele al suo stile, Gesù pone sempre in atto la logica dell’amore. Una logica capace di essere vissuta da tutti, perché è per tutti.

Lontano da ogni tipo di elitarismo, l’orizzonte di Gesù non è per pochi privilegiati capaci di giungere alla “conoscenza desiderata” o a distinti livelli di spiritualità. L’orizzonte di Gesù è sempre una proposta per la vita quotidiana, anche qui, nella “nostra” isola; una proposta che fa sempre sì che la quotidianità abbia un certo sapore di eternità.

Chi è il più grande? Gesù è semplice nella sua risposta: «Se uno vuole essere il primo – ossia il più grande – sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35). Chi vuole essere grande, serva gli altri, e non si serva degli altri!

E questo è il grande paradosso di Gesù. I discepoli discutevano su chi dovesse occupare il posto più importante, su chi sarebbe stato il privilegiato – ed erano i discepoli, i più vicini a Gesù, e discutevano di questo! –, chi sarebbe stato al di sopra della legge comune, della norma generale, per mettersi in risalto con un desiderio di superiorità sugli altri. Chi sarebbe asceso più rapidamente per occupare incarichi che avrebbero dato certi vantaggi.

E Gesù sconvolge la loro logica dicendo loro semplicemente che la vita autentica si vive nell’impegno concreto con il prossimo, cioè servendo.

L’invito al servizio presenta una peculiarità alla quale dobbiamo fare attenzione. Servire significa, in gran parte, avere cura della fragilità. Servire significa avere cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro popolo. Sono i volti sofferenti, indifesi e afflitti che Gesù propone di guardare e invita concretamente ad amare. Amore che si concretizza in azioni e decisioni. Amore che si manifesta nei differenti compiti che come cittadini siamo chiamati a svolgere. Sono persone in carne e ossa, con la loro vita, la loro storia e specialmente la loro fragilità, che Gesù ci invita a difendere, ad assistere, a servire. Perché essere cristiano comporta servire la dignità dei fratelli, lottare per la dignità dei fratelli e vivere per la dignità dei fratelli. Per questo, il cristiano è sempre invitato a mettere da parte le sue esigenze, aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo concreto dei più fragili.

C’è un “servizio” che serve gli altri; però dobbiamo guardarci dall’altro servizio, dalla tentazione del “servizio” che “si” serve degli altri. Esiste una forma di esercizio del servizio che ha come interesse il beneficiare i “miei”, in nome del “nostro”. Questo servizio lascia sempre fuori i “tuoi”, generando una dinamica di esclusione.

Tutti siamo chiamati dalla vocazione cristiana al servizio che serve e ad aiutarci a vicenda a non cadere nelle tentazioni del “servizio che si serve”. Tutti siamo invitati, stimolati da Gesù a farci carico gli uni degli altri per amore. E questo senza guardare accanto per vedere che cosa il vicino fa o non fa. Gesù ci dice: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35). Costui diventa il primo. Non dice: “Se il tuo vicino desidera essere il primo, che serva”. Dobbiamo guardarci dallo sguardo che giudica e incoraggiarci a credere nello sguardo che trasforma, al quale ci invita Gesù.

Questo farci carico per amore non punta verso un atteggiamento di servilismo, ma al contrario, pone al centro la questione del fratello: il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone. […]

Non dimentichiamoci della Buona Notizia di oggi: la grandezza di un popolo, di una nazione; la grandezza di una persona si basa sempre su come serve la fragilità dei suoi fratelli. E in questo troviamo uno dei frutti di una vera umanità. Perché, cari fratelli e sorelle, “chi non vive per servire, non serve per vivere”. (Papa Francesco, Omelia del 20 settembre 2015)

Fonte: Figlie della Chiesa

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XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B

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Il Figlio dell’uomo viene consegnato…

Mc 9, 30-37
Dal Vangelo secondo Marco

30Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». 32Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. 33Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». 36E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: 37«Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 23 – 29 Settembre 2018
  • Tempo Ordinario XXV
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo B
  • Anno: II
  • Salterio: sett. 1

Fonte: LaSacraBibbia.net

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