Card Giuseppe Betori – Lectio introduttiva a Luca e Atti degli Apostoli

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A Perugia, il 9 novembre il Card. Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze e biblista, ha inaugurato la lettura del vangelo secondo Luca secondo il metodo dell’Apostolato Biblico, con una Lectio introduttiva all’intera opera lucana.

Introduzione all’Opera lucana:
terzo Vangelo e Atti degli apostoli

1.   Un’opera unitaria in due volumi

Volendo entrare nel significato del terzo vangelo, dobbiamo anzitutto prendere atto che, a differenza degli altri tre, il vangelo di Luca si presenta come il primo di due volumi di un’unica opera. L’unità tra vangelo secondo Luca e Atti degli apostoli è segnalata dallo stesso autore che così presenta il secondo dei suoi volumi: «Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo» (At 1,1-2). Il terzo vangelo ha dunque una prosecuzione in un altro libro, scritto dal medesimo autore, che con parole simili aveva introdotto anche il primo volume: «Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,1-4).

Nel Nuovo Testamento solo Luca e Atti iniziano con un prologo. Sono due prologhi a un testo di storia, «un resoconto ordinato», o una trattazione di

«tutto quello che Gesù fece e insegnò». In ciò i due volumi lucani si avvicinano ai testi della storiografia antica. Un buono storico, all’inizio dell’opera che si cinge a comporre, specifica chi è il destinatario, precisa quali saranno le tematiche che tratterà, esibisce con parole adatte le ricerche che ha effettuato e l’atteggiamento responsabile con cui si accinge a narrare gli avvenimenti. Il prologo del terzo Vangelo e il prologo degli Atti già ci orientano in tal modo verso un mondo che è diverso dal resto dei libri neotestamentari e si avvicina al modo di fare storia nel mondo della letteratura ellenistica del I e II secolo.

L’articolazione del libro in due volumi richiede che ci si debba accostare a ciascuno di essi in modo unitario rispetto all’altro. Oggi si usa giustamente parlare di opera lucana, comprendente il terzo Vangelo e gli Atti degli Apostoli. Ma a quale livello si stabilisce l’unità tra il terzo Vangelo e gli Atti?

Ritengo che si possa affermare che l’unità dell’opera è fondata sull’unico autore, sull’unità di tema e sull’unità di narrazione.

2.  Autore, data e luogo di composizione di Luca e Atti

Un unico autore, anzitutto. Anche i più critici non dubitano affatto che un medesimo scrittore sia l’autore e del terzo Vangelo e degli Atti. Egli stesso ce lo dice, con le parole appena richiamate del prologo di Atti: «Nel mio  primo libro…». A partire dalla seconda metà del II secolo la tradizione, in modo unanime, identifica tale autore con Luca, compagno di Paolo. Ireneo, il canone muratoriano, il prologo anti-marcionita, rappresentano le tre attestazioni più antiche dell’attribuzione dell’opera lucana a Luca. Da Ireneo, in particolare, questa attribuzione viene spiegata con il fatto che nella seconda parte del libro degli Atti l’autore usa il “noi” come soggetto degli eventi narrati. Chi sia questo Luca, “compagno di Paolo”, ci viene detto dalle lettere paoline: Fm 24, Col 4,14, 2Tim 4,11. Luca è qui descritto come uno della cerchia dei collaboratori di Paolo, che in Col 4,14 viene ulteriormente qualificato come medico e come proveniente dal paganesimo. Il luogo di origine di Luca, secondo il prologo anti-marcionita, sarebbe Antiochia.

A questa tradizione unanime dell’antichità sono state rivolte forti obiezioni. Non pochi dubitano che l’autore del terzo Vangelo e degli Atti possa essere stato compagno di Paolo, perché l’attività e la figura di Paolo, così come è descritta negli Atti non corrisponderebbe a quanto emerge della sua figura e della sua dottrina dalle lettere autentiche di Paolo. Ad es., nelle lettere Paolo rivendica fortemente per sé il titolo di apostolo, mentre negli Atti questo titolo gli è attribuito di sfuggita due volte, senza uno specifico rilievo, in quanto l’opera lucana lo riserva ai Dodici. Gli Atti, a loro volta, presentano Paolo come taumaturgo e grande oratore, mentre nelle sue lettere Paolo presenta se stesso come uno che ha difficoltà a parlare e non fa cenno a gesti prodigiosi da lui compiuti. Una certa incoerenza si riscontra anche tra At 15 e Gal 1-2 nella descrizione degli eventi di Antiochia, che sfociarono poi nel Concilio di Gerusalemme. Mentre Paolo dice ad es. che a Gerusalemme non gli fu imposto nulla, gli Atti invece dicono che l’esito del Concilio fu l’imposizione ai pagani del cosiddetto “decreto apostolico”, che proibì di cibarsi di cibi offerti agli idoli, di sangue e di animali soffocati, nonché le unioni illegittime.

È possibile spiegare alcune di queste obiezioni con il fatto che Luca potrebbe non aver seguito sempre Paolo e quindi non avere diretta conoscenza dei particolari della sua vita. Più profonda è però l’obiezione che tocca la presunta non conoscenza o lo scarso valore attribuito da Luca alla teologia di Paolo. L’autore del terzo Vangelo e degli Atti mostrerebbe di non conoscere neanche le lettere di Paolo, rimanendo a lui estranee tematiche fondamentali della dottrina paolina, come ad es. la giustificazione mediante la fede, di cui si avrebbe un fuggevole cenno solo in At 13,38-39; lo stesso varrebbe per il valore soteriologico riconosciuto alla morte di Gesù, su cui tanto insiste Paolo, mentre il libro degli Atti, più interessato alla rilevanza soteriologica della sua risurrezione, ne parla solo di sfuggita in 20,28. A metà del secolo scorso Philipp Vielhauer affermerà che su quattro problemi teologici centrali per Paolo – legge naturale, legge mosaica, cristologia ed escatologia – gli Atti si troverebbero su posizioni del tutto diverse rispetto alla teologia paolina.

Quanto abbiamo ricordato circa la presenza, seppur marginale, di accenni alla dottrina sulla giustificazione mediante la fede e a quella sul valore salvifico della morte di Gesù già ci hanno fatto capire che il nostro autore non è completamente all’oscuro di quello che Paolo ha detto nella sua predicazione, ma a quanto pare la dottrina di Paolo non è più nei suoi interessi, non è più un problema urgente per gli interlocutori del terzo Vangelo e degli Atti. Scopo della sua opera non è dare continuità di conoscenza a tale dottrina, che nella sua epoca e per i suoi destinatari non doveva più porre difficoltà. Altri sono i suoi interessi e altri sono i motivi per cui egli propone con tale evidenza la figura di Paolo. In sintesi, mostrare la continuità tra l’eredità paolina e le radici dell’azione di Paolo nel suo rapporto con le fondamenta apostoliche della Chiesa. Proprio questo motivo spinge però a ritenere che il nostro scrittore debba essere cercato tra chi aveva interesse a confermare questo quadro di continuità, e quindi un appartenente alla cerchia di Paolo. E perché, allora, non Luca, come la tradizione unanimemente attesta? Perché il pregiudizio deve militare necessariamente contro e non a favore del dato tradizionale?

In sintesi credo si possa affermare che l’autore di Luca e Atti è sicuramente una persona che si inserisce all’interno della tradizione paolina. La Chiesa dei primi tempi, così attenta alle radici apostoliche degli scritti normativi della sua fede non avrebbe avuto alcun interesse ad attribuire a un

quasi sconosciuto il Vangelo e gli Atti. Detto questo, non sembra che il nome di Luca possa essere rifiutato a priori, in quanto se si fosse trattato di un’attribuzione fittizia, che doveva assicurare un legame con l’apostolo, allora la scelta sarebbe dovuta cadere su qualche figura maggiormente conosciuta proveniente sempre dalla cerchia di Paolo, come ad es. Timoteo o Sila/Silvano.

Dobbiamo ora dire qualcosa circa il problema della datazione del libro. Le ipotesi antiche erano legate prevalentemente alla convinzione che gli Atti fossero uno scritto apologetico. Il testo sarebbe stato scritto per servire da apologia durante la prigionia romana di Paolo (63-64), come uno strumento di difesa di Paolo di fronte al tribunale romano. Detta finalità appare inadeguata e il motivo per cui gli Atti terminano narrando vicende che si collocano nel 62-63 senza dir nulla della fine di Paolo va spiegato in altra maniera.

È da escludere anche una datazione tarda, cioè l’inizio del II secolo, che si giustificherebbe solo se negli Atti potessimo vedere uno scritto antignostico. Una tale datazione comporterebbe anche che gli Atti non potrebbero ignorare le lettere di Paolo, che nel II secolo circolano ormai come un corpus sacro.

Se giustamente riteniamo gli Atti successivi al terzo Vangelo e se consideriamo che il Vangelo non sembra potersi datare prima del 70, anno della fine di Gerusalemme, che Luca chiaramente descrive come di fatto è avvenuta, la datazione dei due volumi va collocata dopo il 70 e prima della  fine del I secolo, cioè prima che le lettere di Paolo siano costituite in corpus paulinum. Altro elemento evidente è che non sembra che chi scrive si trovi in situazione di persecuzione. I rapporti tra Chiesa e impero sembrano invece buoni.

La data che oggi viene proposta con maggiore insistenza è quella che va dall’80 al 90, prima cioè della persecuzione che si accese alla fine dell’impero di Domiziano (96).

Per il luogo di composizione le ipotesi, si fanno più incerte; le più accreditate fanno riferimento all’Acaia, ma si parla anche di Efeso o di Antiochia.

3.  Tema e scopo di Luca-Atti

Il secondo elemento che abbiamo sopra evidenziato per una comprensione di Luca-Atti è l’unitarietà tematica dell’opera lucana. Un’unica prospettiva storico-salvifica sta dietro al libro degli Atti e al terzo Vangelo. Che l’intento sia storico lo dicono i due prologhi ai due volumi, ma questa storia per essere compresa va illuminata dal suo inizio, i primi capitoli del Vangelo, là dove il lettore è posto ripetutamente in contatto con le promesse dell’Antico Testamento; promesse che hanno per oggetto il popolo di Israele. Tutto ciò emerge con particolare evidenza negli inni del Benedictus, del Magnificat e del Nunc dimittis. È vero che l’universalismo della salvezza sta sullo sfondo dell’opera fin dall’inizio, ma è anche vero che gli attori della narrazione sono Giudei e la vicenda di cui sono protagonisti, accanto all’adesione dei “poveri del Signore”, vede già i primi rifiuti. Essi si manifestano non solo davanti alla prima predicazione di Gesù, ma anche dopo, quando ormai la sua vita è orientata, secondo Luca, verso la Pasqua e inizia quel cammino verso Gerusalemme, che più che un viaggio fisico si presenta come un itinerario spirituale, per Gesù e per i discepoli, di comprensione della Passione quale elemento essenziale del cammino messianico; anche qui, di nuovo, veniamo a incontrarci con i Giudei increduli, anzi l’incredulità raggiunge il suo culmine con Gerusalemme che rifiuta il Cristo.

Il Vangelo è tutto percorso dal problema di una promessa fatta a Israele e di una ignoranza che impedisce a Israele di accogliere il portatore della promessa, e anzi lo rifiuta. Di qui la tragicità della morte di Gesù, che viene recuperata nel cap. 24 del Vangelo, quando Gesù aiuta i suoi discepoli a leggere nelle Scritture che così doveva avvenire – «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,29) –, che morte e risurrezione e quel rifiuto erano già previsti nelle Scritture, e che quel rifiuto non preclude l’ulteriore annuncio a Israele, perché i discepoli sono ancora mandati alla missione: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,46-48).

E il libro degli Atti è un continuo annuncio a Israele e ai pagani; mai a Israele senza i pagani, ma neppure mai ai pagani senza Israele. Quando in At 2 l’annuncio è fatto a Gerusalemme, i destinatari sono sì i Giudei, ma in quanto rappresentanti di tutti i popoli del mondo: «Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (At 2,9-11). E quello che succede dopo non è altro che annuncio e rifiuto, sia nell’ambito palestinese che nella missione di Paolo. Ne scaturisce una grande narrazione di come la potenza della Parola si irradia nel mondo tra accoglienza e negazione.

Se lo scopo di Luca-Atti fosse soltanto quello di giustificare il passaggio dal giudaismo all’universalità della salvezza, gli Atti degli Apostoli avrebbero potuto finire con il cap. 15. Una volta detto che non era necessario assumere l’identità giudaica per essere cristiani, ogni problema sarebbe stato risolto. Ma a quanto pare il problema non è semplicemente quello dell’accesso dei pagani al Vangelo. C’è qui senza dubbio uno snodo essenziale del discorso, in cui la Parola mostra tutta la sua potenza. Ma c’è ancora qualcosa da risolvere se nonostante questo la Chiesa incontra ostacoli da parte del giudaismo, anche se non da tutti i Giudei.

Ecco allora il problema centrale di Luca-Atti: come mettere insieme un Vangelo che è per tutti con una Chiesa che, al tempo in cui l’autore del libro scrive, si rivolge prevalentemente ai pagani? Di chi è la colpa di questo, di questa emarginazione dei Giudei dalla sfera dell’annuncio della Parola? La colpa non è di Paolo, come probabilmente andava dicendo qualcuno nel mondo cristiano del tempo di Luca. Non è Paolo che ha allontanato il cristianesimo dal giudaismo. Egli ha sempre annunciato il messaggio evangelico anzitutto nelle sinagoghe. I Giudei non sono stati estromessi da Paolo, ma essi stessi si sono in larga parte estromessi. E la chiusura degli Atti si premura di dire che la porta dell’annuncio al giudaismo non è ancora chiusa; quel che cambia è la sua priorità storico-salvifica, che Paolo ha sempre rispettato invece fino a quel momento.

A questo punto resta un problema: quale rapporto c’è tra questo popolo che sta nascendo per mezzo della predicazione di Paolo e degli apostoli e le promesse che erano state fatte a Israele? La Chiesa può dirsi  erede delle promesse fatte ai Padri, essa che è comunità che si sta sviluppando in una condizione che non vede più il primato del popolo giudaico? Questo è un problema vitale per la Chiesa dei primi tempi e l’opera lucana anche a questo interrogativo vuole rispondere. In questo passaggio non indolore, in cui si manifestano nella stessa Chiesa diverse tendenze, che riaffermano più o meno strettamente i legami con l’antica alleanza, Luca offre il suo contributo. Per lui la figura di Gesù diventa lo snodo centrale della continuità dell’eredità, cogliendo nella vivente presenza di lui risorto nella Chiesa mediante il suo Spirito il fondamento della verità. Di esso sono garanti i Dodici, cui si è affiancato Paolo, dalla cui attività missionaria sono nate le Chiese a cui l’opera verosimilmente si rivolge. È lui il testimone autorevole, il tredicesimo testimone dell’epoca fondatrice, colui che assicura la validità dell’annuncio, così come veniva fatto nelle Chiese del tempo in rapporto a quelli che sono i garanti del Vangelo, i Dodici.

In quest’ottica, guardando le cose più dal punto di vista contenutistico che finalistico, gli Atti mostrano all’opera, nella forma nuova della potenza dello Spirito che si esprime nella diffusione della Parola, quello stesso Signore, ora assente-presente, che nel Vangelo era stato mostrato come il paziente- risorto-asceso. Non si tratta di due vicende, ma dell’unica vicenda dello stesso Gesù, che se vuole essere percepito vivente oggi nella Chiesa, deve prima essere conosciuto nella vicenda storica che ne fonda il potere messianico salvifico, e se vuole essere ricordato al di là di questa vicenda storica, non come una pura memoria di un evento passato, deve essere colto nel suo agire oggi mediante i suoi testimoni, dando compimento a quelle promesse che si realizzano nella diffusione del Vangelo presso tutte le genti.

La predicazione della salvezza a tutte le genti è parte integrante dell’annuncio e quindi non solo funzione ma oggetto essa stessa della testimonianza, e gli Atti nascono dalla necessità di mostrare il farsi di tale annuncio nell’efficacia della Parola affidata ai testimoni. Ciò che primariamente è in gioco non è la continuità tra Chiesa e Israele in rapporto alle promesse di cui questi è depositario, ma il fatto che l’efficacia della Parola sembra contraddetta dal rifiuto di Israele. Ciò che è importante per Luca è mostrare la potenza della Parola. Pertanto l’opera non si pone in un’ottica prevalentemente apologetica e all’interno di tale scopo riscopre l’esigenza di riaffermare il kerygma. Al contrario, l’apologia è al servizio del kerygma, rendendo questo pienamente credibile. Questa trattazione si svolge nel corso di un’opera in due volumi: il primo propone il contenuto del vangelo che viene annunciato, il secondo espone il fatto di tale annuncio e la sua efficacia, attraverso una narrazione di episodi esemplari che danno il senso della storia che la comunità lucana sta vivendo.

4.  La struttura dell’opera lucana

Il terzo elemento che aiuta a definire l’unità di Luca e Atti attiene al piano letterario. Tra i due volumi dell’opera si manifesta infatti una stretta unità a livello letterario-narrativo. L’autore degli Atti vuol fare non semplicemente un altro libro dalla stessa prospettiva in cui si è posto trattando il tema Gesù nel Vangelo, ma vuole continuare il discorso iniziato nel terzo Vangelo. È una prospettiva che emerge con forza nel saldo legame di Lc 24 con At 1. Questo non vuol dire che l’autore abbia scritto i due libri in stretta continuità di tempo. Ma la scrittura degli Atti si pone chiaramente in continuità con il Vangelo, e i suoi contenuti possono più facilmente emergere se riusciamo a cogliere le dinamiche di articolazione interna della duplice narrazione.

Per orientarci sul nostro cammino riteniamo anzitutto opportuno ribadire la convinzione che l’opera lucana si muove nel contesto della letteratura del tempo non sul versante della novellistica e del romanzo storico, ma in quella propriamente storiografica, più esattamente della monografia storica. Si tratta di un genere letterario diffuso nella letteratura ellenistica dell’epoca, che intreccia episodi significativi di un tempo delimitato all’interno di un contesto più vasto. Luca lo interpreta con una modalità di scrittura che intreccia tra loro narrazione di eventi esemplari con generalizzazioni che offrono un quadro generale della situazione di vita della comunità delle origini, inserendo anche elementi propri di quella storiografia tragico-patetica, cui sta a cuore non la semplice referenza dei fatti ma soprattutto il coinvolgimento simpatetico del lettore.

Daniel Marguerat ha mostrato come i due volumi dell’opera lucana evidenziano somiglianze e riprese tra loro.1 Ne scaturisce una unità che è percepibile solo nell’atto della lettura del testo, una unità, inoltre, che non vuol dire uniformità ma ammette anche variazione e diversità, anzi le esige. Luca si avvale: di prolessi ellittiche, mediante le quali ci si proietta verso il futuro della storia narrata; di catene narrative, con cui l’autore indica continuità e progressione del racconto, aiutando a memorizzare, segnalando punti chiave, favorendo una lettura globale degli eventi, segnando la continuità della presenza di Dio e le sue differenti modalità; e ancora del procedimento della syncrisis, con cui un personaggio viene modellato su un altro per istituire una correlazione, che tocca l’agire e non la parola, è continuo appello alla memoria del Vangelo, non fonda imitazione o confusione ma salva sempre la differenza rispetto a Gesù. L’unitarietà si avvale anche della disseminazione nel testo di inclusioni significative che lo circoscrivono e lo identificano. Così il tempio in Lc 1,13-23 è luogo dell’attesa della venuta del Salvatore e in Lc 24,53 luogo della lode dei discepoli che hanno riconosciuto il compimento del suo evento salvifico; la predicazione del Regno in At 1,3 rimanda alla predicazione del Regno e dell’insegnamento su Gesù in At 28,31; il tema della «salvezza di Dio» si ritrova in Lc 3,6 e in At 28,28. Anche il procedimento della disposizione concentrica offre indizi significativi dell’unitarietà dell’opera lucana, evidenziandone tre snodi fondamentali: in Lc al cap. 9 attorno al mistero della Pasqua; in At al cap. 15 attorno al tema delle condizioni della salvezza; in Lc- At tra Lc 24 e At 1 attorno al tema della missione di testimonianza nella forza dello Spirito.

All’interno di questa impostazione unitaria la disposizione del materiale risponde ai criteri compositivi che la storiografia del tempo ben conosceva dalla retorica e che erano esposte anche in vere e proprie illustrazioni di metodo quali il Come si scrive storia di Luciano di Samosata (seconda metà del II sec. d.C.) ovvero l’anonimo trattato Sul sublime, scritto tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio dell’era cristiana. Sulla base di tali tecniche compositive è possibile formulare un’ipotesi di strutturazione del testo, che si richiama ai seguenti criteri: «la ricerca della connessione tra le varie parti con il ricorso a procedimenti di incastro, e quindi concretamente a testi di transizione; la valorizzazione del proemio e della conclusione, assicurando autosufficienza dell’inizio e completezza della finale dell’opera; lo spezzettamento degli eventi quando l’argomento della narrazione non possiede un’autonoma unitarietà; l’evitare l’appesantimento dello scritto, abbandonando la narrazione di un evento per tornarvi successivamente dopo variazioni di luogo e di tempo; la ricerca delle antitesi, della composizione circolare e della ripresa della narrazione dopo excursus esplicativi; un uso sobrio della retorica e delle sue figure, assicurando quell’ordine nel disordine che è l’effetto della “variatio”».2

L’opera si apre con un prologo (Lc 1,1-4) che si proietta su ambedue i volumi: «gli avvenimenti» di cui esso parla, in quanto riferiti al «noi» dei destinatari non possono riguardare il solo fatto di Gesù, ma devono estendersi all’esperienza che essi vanno facendo della salvezza cristiana. Così pure la presenza del vocabolario della testimonianza e del servizio della parola rimanda, almeno implicitamente al tempo in cui tale ministero  viene esercitato, quel tempo che è illustrato dal libro degli Atti. Prologo del vangelo, Lc 1,1-4 va quindi inteso anche come prologo dell’intera opera lucana e ne costituisce il primo elemento, con evidenti richiami al successivo prologo degli Atti, che ne rappresenta una ripresa, e poi alla chiusura degli Atti, dove riemerge la tematica dell’insegnamento, nella variante della parola tramandata (Lc 1,2) e dell’istruzione catechetica (Lc 1,4) cui fanno riscontro l’annunzio e l’insegnamento (At 28,31).

Che Lc 4,16-30 costituisca il portale ufficiale con cui viene presentato il ministero di Gesù è un fatto più che condiviso. Non resta allora che collocare quanto precede in un unico grande quadro (Lc 1,5-4,15), articolato attraverso esplicite periodizzazioni e strutturato sul parallelismo tra Giovanni e Gesù, che illumina origine e identità dei due personaggi, mentre le tre sezioni in cui si articola il materiale (Lc 1,5-56; 1,57-2,52; 3,1-4,15) si legano tra loro rispettivamente attorno ai temi della misericordia e della parola.

La seconda parte del vangelo ci porta a confrontarci con il ministero di Gesù, così come esso, partendo dalla Galilea, si svolge nella Giudea, l’intero paese dei Giudei (Lc 4,14-9,56). Si apre con l’episodio di Nazaret (Lc 4,16-30), di cui il parallelismo con la scena di Pentecoste conferma la funzione di apertura e fondamento per l’intera attività messianica di Cristo, così come l’evento di At 2 serve ad aprire e fondare l’intera attività kerygmatica dei testimoni del Risorto. Ma come Pentecoste necessita poi di un seguito di narrazioni che illustrino, a modo di quadri, aspetti particolari della vicenda ecclesiale, riassunti di volta in volta in veloci sommari e mostrati al vivo in storie esemplari, così anche per Gesù il discorso programmatico di Nazaret si articola in un intreccio di sommari e racconti, che mostrano la sua parola e il suo agire, nel contatto e contrasto con l’ambiente e nel ritagliare spazi sempre crescenti per l’esperienza dei discepoli. Si susseguono diverse scene legate all’attività taumaturgica, alla chiamata di discepoli, alle prime controversie, continuamente inframmezzate dal ricordo dell’attività di annuncio, fino a giungere alla chiamata dei Dodici (Lc 4,16-6,19). Da questa stessa chiamata muove la seconda sezione di questa seconda parte, tutta dedicata prima all’istruzione dei discepoli e poi al susseguirsi di segni che mostrano la messianicità del Maestro, come implicitamente egli stesso enuncia interrogato dai discepoli di Giovanni, per chiudere con il segno messianico supremo del perdono (Lc 6,12-8,3). La terza sezione ricopre l’intero ottavo capitolo del vangelo (Lc 8,1-9,6). Si apre nuovamente con un sommario che parla dell’attività di annuncio ed evangelizzazione di Gesù, ma accenna anche ai Dodici e alle donne che lo accompagnano. Una parabola e diversi miracoli introducono poi ancora più profondamente nel mistero di Gesù. Al termine il discorso torna sui discepoli, questa volta inviati per la missione.

E si giunge così all’ultima sezione (Lc 9,1-56), che saremmo però tentati di staccare da questa seconda parte, per farne un perno dell’intero vangelo, così come At 15 funge da sequenza chiave dello sviluppo dell’intero secondo volume. In realtà il cap. 9 del vangelo costituisce un vero vertice della narrazione, in quanto in esso si raccolgono le tematiche essenziali del riconoscimento di fede della persona di Gesù, della sua passione-risurrezione preannunciata, del mistero della Pasqua anticipato nell’esperienza della trasfigurazione, delle condizioni della sequela, fino al tema della missione della Chiesa verso i pagani. Che lo si consideri il vertice delle prime due parti del vangelo – e anticipandone tutti i temi diventi chiave di lettura delle parti che seguono –, o che si voglia staccarlo dalla seconda parte e lo si ponga a sé stante – così che meglio emerga il suo ruolo di svolta tra il periodo del ministero e il successivo orientamento di Gesù verso Gerusalemme –, può al limite anche essere secondario, purché sia salva la funzione prolettica e ermeneutica di Lc 9, il suo raccogliere in sintesi il “problema cristologico”, così come At 15 raccoglie quello ecclesiologico.

La terza parte del libro (9,51-19,28), quella identificata con il nome di “viaggio” è la più caratteristica di Luca, la meglio identificata, articolata in tre sezioni, in forza di precise indicazioni circa il cammino di Gesù (e dei suoi discepoli) verso la città santa: Lc 9,51; 13,22; 17,11; 19,28: Lc 9,51-13,22 dedicata all’annuncio del Regno; Lc 13,22-17,11 dedicata ad esplicitare le condizioni per l’ingresso nel Regno; Lc 17,11-19,28 dedicata ad affrontare il tema del tempo e del modo della venuta del Regno.

Anche nell’ultima parte del vangelo l’articolazione tripartita appare evidente, indicata dai tre episodi introduttivi dell’ingresso in Gerusalemme (Lc 19,29-46), della preparazione della cena (Lc 22,1-13) e dell’annuncio della risurrezione al sepolcro vuoto (Lc 24,1-11). In tutti e tre i casi il cammino dei discepoli serve a preparare la scena in cui si inserisce l’annuncio cristologico, passando successivamente attraverso la predicazione di Gesù nel tempio (Lc 19,28-21,38), la cena, gli ultimi dialoghi di Gesù con i discepoli, la passione, crocifissione e morte del Signore (Lc 21,37-23,56), infine i racconti relativi al risorto (Lc 23,54-24,53).

Ma Lc 24, come già Lc 9, può essere considerato come un vertice e un’apertura: un vertice del cammino del vangelo e al tempo stesso un’apertura verso gli Atti. L’insieme degli elementi che costituiscono Lc 24 rappresenta infatti ben più che una parte della vicenda di Gesù in Gerusalemme. Dall’annuncio della risurrezione all’esperienza dell’incontro con il Risorto, dalla lettura dell’evento cristologico nello schema dell’annuncio/interpretazione all’affidamento della missione, e dall’evento finale dell’ascensione all’attesa della venuta dello Spirito, tutti i motivi di cui è intessuto il capitolo rappresentano il vertice dell’intera vicenda storica di Cristo, così come era stata delineata fin dai primi capitoli del vangelo. In tal senso, la sezione, in analogia a quanto abbiamo detto per Lc 9, è sì elemento integrante della parte finale del vangelo, ma è anche da considerarsi come elemento a sé, vertice dell’intero volume. In tal modo la concezione concentrica che viene evidenziata dal ruolo di snodo svolto da Lc 9 viene corretta in senso proiettivo dalla presenza alla fine del testo di un insieme narrativo che ne costituisce non solo la fine, ma anche in qualche modo il fine.

La stessa dinamica di stretta connessione tra le diverse parti si può individuare anche negli Atti. Avendo presente che il suo cap. 1 va letto in unità con il cap. 24 del vangelo, formando insieme il tessuto connettivo dell’intera opera, là dove il vertice della vicenda storica di Cristo si congiunge con l’avvio della vicenda storica della sua continua presenza di Risorto mediante la Chiesa animata dal suo Spirito. Il passaggio dall’uno all’altro volume è segnato, nell’ottica della connessione, dalla presenza di elementi che si richiamano, ma con prospettive complementari, che possiamo classificare nel caso di Lc 24,36-53 come “cristologica e discepolare”, tesa cioè a portare i discepoli all’accettazione del mistero pasquale e delle prospettive che con esso si  aprono per  i seguaci  di  Gesù,  e nel caso  di  At  1,1-14  come prospettiva “ecclesiologica ed escatologica”, tesa cioè a chiarire il senso dell’essere della Chiesa in questo tempo di assenza-presenza del Signore risorto che si colloca tra ascensione e parusia.

Entriamo così nell’articolazione del secondo libro dell’opera lucana. Dopo un’introduzione individuata in At 1,1-14, la struttura del libro vede questa successione.

Una prima parte (At 1,12-8,4) illustra l’avviarsi in Gerusalemme della testimonianza resa in forza dello Spirito, articolata in due momenti dedicati rispettivamente a mostrare la costituzione della comunità cristiana (At 1,12- 2,47) e la sua vita nei risvolti ad intra e ad extra (At 2,42-8,4).

La seconda parte (At 8,1b-14,28) è volta a mostrare la prima diffusione della Parola al di fuori di Gerusalemme nei suoi approcci con il mondo pagano, in una molteplicità di luoghi e di personaggi-guida, che ne scandiscono i tempi in tre successivi momenti: gli evangelizzatori ellenisti (At 8,1b-9,31), Pietro (At 9,31-12,24), Saulo e Barnaba (At 12,24-14,28).

La terza parte (At 14,27-16,5), cioè il centro del libro, è segnato dal concilio di Gerusalemme, dove si sancisce la libertà della Parola e la sua capacità di incarnarsi in ogni condizione culturale.

Nella quarta parte (At 15,36-19,22) i tempi della missione di Paolo, che qui viene esemplificata, sono scanditi in tre momenti, dedicati al consolidamento dei frutti della precedente missione (At 15,36-16,5), all’evangelizzazione di Macedonia e Acaia (At 16,5-18,23) e poi a quella dell’Asia facendo perno su Efeso (At 18,18-19,22).

La quinta e ultima parte (At 19,20-28,16) segna il passaggio di Paolo a Gerusalemme prima (At 19,20-23,11) e poi a Roma (At 23,11-28,16), come testimone sofferente, nell’imitazione di Gesù.

Il vertice del libro viene raggiunto nella conclusione (At 28,14b-31), dove Paolo rende finalmente la testimonianza a cui Gesù lo ha chiamato, la “salvezza di Dio” raggiunge i pagani senza che si interrompa la continuità con Israele e con le promesse, l’annuncio del Regno e l’insegnamento a riguardo di Gesù sono presentati come compito stabile della Chiesa. E come il vangelo aveva trovato un suo centro nel cap. 9 per proiettarsi però verso un vertice costituito dalle pagine finali del cap. 24, così anche gli Atti, se hanno ancor più chiaramente in At 15 una pagina che è chiave di volta dell’intero percorso narrativo, hanno pur sempre nella permanenza di Paolo a Roma descritta in At 28,14b-31 l’esito atteso di un cammino programmato fin da At 1,8. Senza questa proiezione in avanti non si darebbe storia e i due volumi di Luca non sarebbero quell’opera di carattere storiografico che egli vuole proporci.

5.  Per concludere

Quanto siamo andati scoprendo circa natura, finalità e struttura degli Atti non è privo di attualità per il tempo presente. Non meno che nei primi secoli della storia della Chiesa anche oggi è di vitale importanza poter connettere l’autenticità dell’esperienza di fede con le sue radici cristologiche e più ampiamente storico-salvifiche. Anche oggi è vitale per la Chiesa non isolare se stessa e le proprie problematiche rispetto a Cristo, perché solo dal rapporto con lui essa può trovare identità e futuro. Allo stesso modo è la sua collocazione rispetto alla dinamica tra promessa e compimento, ovvero tra annuncio e interpretazione, che ne illumina il volto e ne fonda la potenzialità salvifica. Altrettanto importante è poter focalizzare che al centro della sua testimonianza sta la potenza della Parola, che servendosi di testimoni e annunciatori, percorre tempi e spazi con invincibile capacità di conversione. A questa Parola tutto è sottomesso e di essa tutto vive.

Questa concentrazione sulla Parola e sulla sua potenza rende il libro degli Atti assai più vicino all’esperienza dell’evangelizzatore Paolo di quanto non possa farlo la presenza di un tratto del suo pensiero teologico. Gli Atti non sono soltanto il tentativo di giustificare l’opera di Paolo per le comunità che ne sono eredi, ma anche la condivisione del carattere più essenziale della sua opera, il ministero della Parola offerta come fonte di salvezza a tutti,

«l’annuncio della parola di verità del Vangelo» (Col 1,5), «parola di Dio, che opera in voi credenti» (1Ts 2,13). Non a caso gli Atti terminano con una conclusione aperta, volendo proporci una storia da completare. La predicazione della Parola non resta incatenata, ma continua la sua corsa fino ai confini della terra, «con tutta franchezza e senza impedimento » (At 28,31). È un compito che accompagna per sempre la vita della Chiesa, anche noi.

Giuseppe card. Betori

Fonte (con file PDF del testo di mons. Betori)