Solennità Maria Santissima Madre di Dio
«Collocata secondo l’antico suggerimento della Liturgia dell’Urbe al primo giorno di gennaio, è destinata a celebrare la parte avuta da Maria in questo mistero di salvezza e a esaltare la singolare dignità che ne deriva per la Madre santa… per mezzo della quale abbiamo ricevuto… l’Autore della vita; ed è, altresì, un’occasione propizia per rinnovare l’adorazione al neonato Principe della Pace, per riascoltare il lieto annuncio angelico (cfr. Lc 2,14), per implorare da Dio, mediatrice la Regina della Pace, il dono supremo della pace. Per questo, nella felice coincidenza dell’Ottava di Natale con il giorno augurale del primo gennaio, abbiamo istituito la Giornata Mondiale della Pace, che raccoglie crescenti adesioni e matura già nel cuore di molti uomini frutti di Pace».
«Ti benedica il Signore» (Nm 6,22-27)
Com’è noto, nel calendario liturgico il 1° gennaio non ha il valore di “capodanno”, a differenza di quello civile. Tuttavia, la materna pedagogia della Chiesa, sullo stile di quella stessa Incarnazione celebrata a Natale, accoglie e condivide benevolmente le trepidazioni e le gioiose speranze della società umana, che oggi in Occidente inaugura il suo nuovo anno civile: così si spiega, ad esempio, l’indulgenza plenaria annessa ad alcune pratiche di pietà per la fine e per l’inizio dell’anno, come il Te Deum il 31 dicembre e il Veni, Creator Spiritus il 1° gennaio.
La Messa del 1° gennaio sostanzia di profondo significato gli auguri, gli auspici e i propositi per l’anno nuovo con la “grande benedizione” della prima lettura, ma anche con la tipica benedizione ebraica del salmo responsoriale (cfr. Sal 67), e con l’autentico gioiello eucologico dell’orazione sulle offerte: «O Dio, che nella tua provvidenza dài inizio e compimento a tutto il bene che è nel mondo, concedi a noi, nella solennità della divina maternità di Maria, di gustare le primizie del tuo amore misericordioso per goderne felicemente i frutti».
Il breve brano riportato dal lezionario odierno come prima lettura contiene una triplice formula di benedizione super populum, modello biblico per tutte le analoghe formule liturgiche di benedizioni solenni nel rito romano: dapprima suggerita da Dio stesso al suo grande profeta Mosè, egli a sua volta deve comunicarla «ad Aronne e ai suoi figli» (Nm 6,23), affinché venga perennemente trasmessa ai leviti loro successori, e adoperata da tutti i sacerdoti per ogni generazione. Così, in continuità con la prassi ebraica, tale benedizione è giunta fino alla liturgia cristiana.
Negli ultimi secoli, peraltro, essa è divenuta particolarmente nota a molti per essere stata cara a San Francesco d’Assisi, che la utilizzava volentieri, come attestano preziose fonti manoscritte autografe, nelle quali il santo benedice frate Leone proprio con le parole di Nm 6,24-26: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace».
Può essere utile segnalare la spiegazione di una particolare espressione idiomatica che appare nella seconda proposizione della benedizione: «Il Signore faccia risplendere per te il suo volto» (Nm 6,25). Per comprendere adeguatamente il significato originario di tale espressione secondo la mentalità ebraica biblica, occorre contestualizzarla in alcune dinamiche tipiche di tutto il Vicino Oriente Antico. La cultura biblica fa infatti riferimento a società strutturate attorno al governo di un sovrano, in non pochi casi divinizzato dalla letteratura di corte, e a tutta una rete di accordi diplomatici con prìncipi stranieri rigidamente codificati in appositi trattati di vassallaggio. Quando si cercava, con sincerità o per convenienza, di conquistare la benevolenza di un sovrano mantenendo il rispetto per la superiorità del suo ruolo, si domandava udienza presso il suo trono e vi si doveva accostare con grande riverenza: solo dal sovrano si attendeva la concessione a sollevare la propria testa e poter dirigere il proprio sguardo verso di lui. Per questo, l’espressione “sollevare il capo” oppure “sollevare il volto”, che si legge spesso ad esempio nei Salmi, indica il gesto della clemenza di un re che concede a un suo subalterno l’eccezionale privilegio di tenere la testa alzata al suo cospetto.
Nella grande benedizione sacerdotale dei Numeri, leggiamo l’auspicio che sia Dio stesso a far brillare la luce del proprio volto su di noi, conferendo dignità alla nostra esistenza e concedendo la sua indulgenza. Essendo onnipotente e infinitamente superiore a ogni sovrano terreno, spetta a Dio di concedere davvero grazia a colui che riceve la sua benedizione.
Similmente, l’ultima espressione della benedizione («Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace», Nm 6,26), invoca la tenerezza del misericordioso sguardo divino, che amplifica ulteriormente il grado privilegiato di attenzione che il Signore si degna di concedere alle sue umili creature.
«Abbà! Padre!» (Gal 4,4-7)
La seconda lettura è una breve pericope tratta dalla lettera dell’apostolo Paolo alle prime comunità cristiane della Galazia, una regione dell’Asia Minore allora provincia dell’impero romano. Nell’ambito dell’intero corpus paulinum del canone neotestamentario, questo scritto fa parte dell’epistolario ritenuto d’autentica paternità paolina sin dalla Chiesa antica e fino all’esegesi contemporanea. Più precisamente, la lettera ai Gàlati è venerata tra le quattro lettere maggiori dell’apostolo di Tarso, insieme a quella ai Romani e alle due lettere ai Corinzi.
Rispetto alle altre lettere, questa si distingue immediatamente per un clima vibrante di drammatica apprensione riguardo alla conservazione del retto annuncio cristiano nelle Chiese della Galazia, come traspare dal tono particolarmente preoccupato dell’autore. Ciò che maggiormente sollecita i colori polemici e difensivi del testo paolino è il timore che alcuni predicatori tentino di manipolare il genuino messaggio del cristianesimo, contaminandolo con errori dottrinali che possano turbare la fede dei credenti.
Per argomentare le proprie tesi, Paolo non esita a mettersi in gioco personalmente, difendendo l’autenticità e l’affidabilità del proprio insegnamento apostolico. Abbozzando una sorta di autobiografia, egli non trascura di esporre con vigore stralci della propria esperienza personale, a partire dalla sua «condotta di un tempo nel giudaismo» (Gal 1,13), e narrando le vicende più significative che lo hanno coinvolto dopo la sua conversione a Cristo.
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Con uno stile che è possibile riconoscere come tipicamente rabbinico, Paolo trova le prove inconfutabili dei propri argomenti nelle Scritture ebraiche, e ne sviluppa un’interpretazione cristologica secondo il classico genere del midrash, cioè un commento a narrazioni bibliche a sua volta narrativo esso stesso: così, in questa lettera, egli rilegge la storia del grande patriarca Abramo come preparatoria all’avvento di Cristo.
In questo contesto si inserisce la lettura della Messa di oggi, introdotta da una indicazione cronologica dal denso spessore teologico: «quando venne la pienezza del tempo» (Gal 4,4). L’Incarnazione del Figlio di Dio viene dunque collocata in un momento ben preciso della storia degli uomini: quando cioè, dopo le prefigurazioni e le profezie dell’Antico Testamento, i tempi divennero finalmente maturi per il compimento delle promesse divine a Israele. L’impressione di un tempo “pieno” o “riempito” (da Dio) richiama quell’annuncio del Regno che riassume tutto il contenuto della predicazione stessa di Gesù: «il tempo è compiuto» (Mc 1,15).
Ed ecco dunque il piccolo “Vangelo dell’Incarnazione” annunciato da San Paolo in questo brano: «Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5).
Celebre, ma sempre efficace, è la lapidaria spiegazione data da Martin Lutero su tale percezione di una “pienezza del tempo” concomitante con la nascita di Cristo secondo la carne umana: invertendo la subordinazione delle due proposizioni paoline, non tanto «quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio», quanto piuttosto «quando Dio mandò il suo Figlio, venne la pienezza del tempo».
«Lodando Dio per tutto» (Lc 2,16-21)
Il Vangelo di questa Messa ci ricorda che in questa giornata liturgica stiamo celebrando il mistero della Divina Maternità di Maria Santissima non disgiunto dall’evento fondamentale della Natività del Signore: oggi è infatti, innanzitutto, l’Ottava di Natale.
Secondo un antico principio liturgico, le festività di massimo grado vanno solennizzate estendendone la celebrazione per un’intera settimana, anziché limitarle a una sola giornata come le altre, sul modello della principale ottava dell’anno che è quella di Pasqua.
Nell’ultimo giorno di un ottavario, poi, si ricapitola in genere tutto il rito celebrato nel primo: ecco perché il 1° gennaio la Liturgia della Parola riprende nuovamente il Vangelo della Natività di Cristo (cfr. Lc 2,16-21). Seppur in continuità col 25 dicembre, l’Ottava celebra però il Natale con una lieve variazione di prospettiva, focalizzata sul parto verginale di Maria, che medita e custodisce in cuore ogni cosa (cfr. Lc 2,19).
La pagina del testo lucano proclamata in questa Messa riconduce all’atmosfera dell’adorazione e della testimonianza dei pastori di Betlemme: l’evangelista osserva che non solo essi, docili all’annuncio angelico, «andarono, senza indugio» (Lc 2,16) al luogo in cui si trovavano Maria e Giuseppe con Gesù appena nato, ma anche il ritorno a casa divenne occasione per rinsaldare la memoria dell’esperienza vissuta ed effondersi in una gioiosa preghiera di ringraziamento («se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto», Lc 2,20).
Il culmine dell’episodio spiega come tale pericope sia poi perfettamente calzante con la ricorrenza liturgica odierna: per un’attenzione alla cronologia storica che la liturgia cerca di mantenere nei suoi ritmi celebrativi, il 1° gennaio non è genericamente Ottava di Natale, ma anche commemorazione di ciò che avvenne nella vita di Gesù proprio in quell’ottavo giorno dalla sua nascita, e cioè il rito ebraico della circoncisione, che i suoi genitori ebbero cura di osservare in docile conformità alle prescrizioni religiose della fede d’Israele.
Ecco perché il brano del Vangelo della Messa di oggi conclude proprio col versetto Lc 2,21: «Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo».
Il Signore conceda anche a noi di partecipare a questa sacra liturgia tornando a casa con lo stesso spirito dei pastori di Betlemme: «lodando Dio per tutto» (Lc 2,20).
Commento al Vangelo tratto dal sussidio CEI Avvento/Natale 2025, scarica il file PDF completo.
