Nell’itinerario quaresimale la trasfigurazione di Gesù indica il fine a cui tende questo cammino: la resurrezione, di cui la trasfigurazione è anticipazione e profezia. Non a caso il tempo in cui avviene questo episodio è proprio nell’ottavo giorno, il cosiddetto “giorno del Signore”, quello in cui egli si rende manifesto alla comunità credente nella sua ultima identità.
Il luogo dell’evento è il monte, del quale Luca non riporta il nome. In realtà esso è un monte “teologico“, già individuato nell’AT come il luogo ideale dell’incontro dell’uomo con Dio, che scende dai cieli e si abbassa verso di lui donandosi nella relazione, di cui Mosè e il profeta Elia, entrambi accomunati al simbolo della luce, hanno fatto esperienza (Es 34, 29-35; Dt 34, 5-6; 2Re 2, 11-12).
Ma Gesù non fa come loro un’esperienza solitaria, prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li convoca nella preghiera, dove avviene l’incontro tra la Parola che si dona e la risposta dell’uomo che adora, ringrazia e domanda. I tre discepoli rappresentano l’umanità tutta, che è chiamata a partecipare alla gloria del Signore, secondo la preghiera di Gesù al Padre nel vangelo di Giovanni: “E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una cosa sola come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me” (Gv 17,22-23)
Tutti e tre i sinottici pongono la pericope della Trasfigurazione al centro del Vangelo, ma la notazione particolare e unica dell’evangelista Luca è proprio il collegamento della Trasfigurazione di Gesù alla preghiera, perché è durante il colloquio orante con il Padre che Gesù “divenne altro” (héteros: Lc 9,29).
L’incontro con Dio non è senza effetto. La luce del divino trasfigura Gesù e lo rende sfolgorante. Immediatamente il pezzo della cornice evocata dell’AT con la salita al monte, si completa proprio con l’apparizione dei due personaggi che hanno già incontrato Dio, Mosè ed Elia. Tanti sono i tratti che accomunano i due a Gesù. “Quando Mosè scese dal monte Sinai… non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui” (Es 34, 29). Di Mosè ed Elia si diceva che fossero stati assunti in cielo. Le ricerche infruttuose delle loro tombe dava agli israeliti la certezza che lo spirito del Signore li avesse rapiti da questo mondo.
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Famosa è la salita al cielo di Elia in un carro di fuoco trainato da cavalli di fuoco (2Re 2,11). Elia era un uomo che pregava intensamente (Gc 5,17) e andava continuamente da un posto a un altro, mosso dallo Spirito di Dio, caratteristiche tipiche di Gesù che di sè stesso dice: “il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”(Lc 9, 58). I due personaggi sono rivolti a Gesù e parlano con lui del suo esodo (anche questa notazione è solo di Luca): come loro, anche Gesù è chiamato ad “uscire”, a varcare decisamente un confine. E sarà per lui il confine estremo, quello della vita terrena, attraversando la paura, il silenzio di Dio, in una parola, il monte della croce, oltre il quale lo aspetta la luce, la gloria, l’abbraccio del Padre e il regno promesso all’umanità tutta.
Per questo la trasfigurazione non è un’emozione spirituale da gustare – ecco l’errore di Pietro che vuole fermare quell’esperienza di bellezza -. È invece uno sprazzo, un bagliore di quel regno che è il Cristo stesso, una luce che è anche quella di Pasqua, della parusia, quando con il ritorno glorioso di Cristo, il mondo intero verrà trasfigurato.
Pietro, Giacomo e Giovanni vivono un’esperienza troppo grande per loro, si lasciano prendere dal torpore del sonno, segno della resistenza dell’uomo a quella dedizione e a quell’abbandono propri della preghiera di Gesù, e svela la preghiera dell’uomo spesso come svogliata, pesante, che non si lascia coinvolgere nella relazione con Dio. L’immagine prefigura un altro luogo, il Getsemani, in cui i tre discepoli più intimi del Signore si abbandoneranno al sonno (Mt 26,40a; Mc 26,37).
Eppure, diversamente dal Getsemani in cui il presente dirompe a tal punto nel cuore da rendere estremamente difficile la speranza, qui il preannunzio della resurrezione è una speranza viva che sostiene nella veglia e permette ai tre discepoli di vedere la gloria di Gesù insieme con Mosè ed Elia. L’esperienza della visione però non basta e soprattutto non si può assolutizzare. I discepoli hanno bisogno di essere spinti dentro il mistero oscuro dell’esodo e vengono avvolti da una nube. Questo genera paura, perché i loro occhi all’improvviso non vedono più Gesù né i loro compagni.
Ognuno resta solo con una rivelazione che proviene da Dio stesso e non è frutto di ragionamenti umani. Una voce, che si è già manifestata al momento del Battesimo di Gesù, si rivolge ai tre discepoli: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo“. Il Padre prende la parola ma per scomparire dietro la parola del Figlio. Il mistero di Dio è ormai tutto dentro Gesù, tutta la scrittura converge su Cristo. Si sale sul monte per vedere e si è rimandati all’ascolto. E quando si scende dal monte rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: “Ascoltate Lui”! La nostra via della luce è l’ascolto. Conclusasi l’esperienza mistica, i tre discepoli tacciono perché hanno visto, sperimentato, cose talmente “altre” di cui per il momento non sono assolutamente in grado di parlare.
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L’importanza fondamentale di questo ascolto sarà messa in risalto da Pietro stesso dopo gli eventi della Pasqua: “Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dallamaestosagloriaglifurivoltaquesta voce: “Questièil Figliomiopredilettonelqualemisono compiaciuto”. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sulsanto monte” (2Pt 1,16-18).
Anche noi, come Pietro, Giacomo e Giovanni siamo condotti ogni giorno dal Signore fuori dalle nostre false sicurezze, in cui cerchiamo invano tranquillità e appagamento, e viviamo un esodo incessante, che comporta sempre nuove separazioni e distacchi fino a che di esodo in esodo giungeremo alla nostra patria celeste, dove “ noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azionedello Spirito del Signore” (2Cor 3, 18); “e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere tutte le cose” (Fil 3, 20-21).
Annalisa – Comunità Kairòs
Per gentile confessione della Comunità Kairos.
