Nico Guerini – Commento al Vangelo di domenica 5 Aprile 2020

La liturgia di questo giorno è andata formandosi in tappe diverse, tra quarto e quinto secolo e, in una specie di scorciatoia, unisce i due capi opposti del mistero pasquale che celebreremo nella Settimana Santa: il trionfo del Re e la sua uccisione, il Benedetto che diventa Maledetto, perché «è maledetto chi pende dal legno», con il passaggio rapido e sconcertante “dagli applausi agli insulti”, come si esprime con una concisione fulminante san Bernardo in uno dei tre sermoni che ha consacrato a questa domenica.

Vero uomo e vero Dio

La ricchezza del materiale proposto dalla liturgia, che peraltro, quando include processione e messa, è già piuttosto lunga di per sé, mette facilmente chi predica nell’imbarazzo della scelta. Qui vorrei offrire alcuni spunti, anzitutto per la meditazione personale, ma che potrebbero anche offrire qualche suggerimento per l’omelia.

Penso che sia utile, anzitutto, sottolineare il contrasto tra le due scene, che non è stato un voltafaccia consumato in pochi giorni, ma che ha segnato tutta la vita di Gesù, a cominciare da quando Simeone profetizzò nel tempio davanti al bambino, che questi sarebbe stato «luce che illumina le genti» e insieme «segno di contraddizione» (Lc 2,32.34).

Credo che sia importante, iniziando la Settimana Santa, prendere ancora una volta coscienza del fatto che la nostra fede ci mette davanti a un “paradosso” fondamentale che non è facile digerire, quello che nasce dalla compresenza in Gesù della divinità e dell’umanità, già celebrato a Natale con canti di gioia attorno a un bambino venuto al mondo in una stalla, ma adorato da pastori e magi, e ritrovato a Pasqua miseramente appeso a una croce, solo e abbandonato e coperto di beffe e insulti.

È l’eterno problema del credente, perché il vangelo stesso si incarica di dirci che, in tutta la sua vita, Gesù ha offerto segni che manifestavano la sua umanità in tutto uguale alla nostra, e altri che lasciavano intuire in modo trasparente che in lui c’era anche qualcosa d’altro, qualcosa di più, non solo rivelato nei miracoli, ma già nelle sue parole e in certe sue prese di posizione, parole che suscitano «ira» (Lc 4,28), ma anche ammirazione che aprono interrogativi (Mc 1,27).

C’è chi scioglie il paradosso separando i due corni del dilemma: o facendo di Gesù un Dio che sa tutto in anticipo, riducendo la sua umanità a un’appendice di scarsa rilevanza, o vedendolo al più come un grande uomo, maestro di saggezza, senza però osare puntare lo sguardo più in alto. La fede è chiamata a camminare in mezzo a questi due corni e a tenerli insieme in tensione, anche se tale cammino può assumere a volte, o spesso, la dinamica di un ondeggiamento.

La processione

Quanto alla processione che ripete l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, mi verrebbe da dire che, se si decide di introdurla con una breve riflessione, si potrebbe sottolineare il fatto che Gesù organizza, per la prima e unica volta, un “segno”, ma non dice una parola! I segni chiedono attenzione quanto, e forse più di un discorso.

Non ha nulla a che fare con un trionfo romano, e con tutti quelli dei capi, dove l’eroe avanza in testa alla folla su un destriero o su una limousine. Gesù avanza «su un’asina», e la folla «lo precedeva e lo seguiva». La sua posizione lo colloca “in mezzo” alla gente, su una cavalcatura che è segno di pace e di lavoro quotidiano, e in questo segno c’è tutto il riassunto della sua vita e del lato umile della sua persona, che san Bernardo descrive così: «Dio è con noi: per noi è venuto, come uno di noi, simile a noi, vulnerabile come noi» (Sermone II, 1, per l’Avvento).

È l’ennesima occasione per rimarcare che questa incredibile vicinanza di Dio non è fumo negli occhi per illudere gli ingenui, come capita di sentire, ma un invito a crederci e ad affidarci con serenità alla “compagnia di Dio” che ha voluto diventare visibile in una nascita e in una morte, come le nostre.

In questa folla che sta con Gesù, attorno a lui, e cammina con lui nella storia per portare la pace, quella che lui è venuto a mostrare e a realizzare, è bello vedere una della più belle immagini della Chiesa.

Abbassamento ed elevazione

Le letture della messa sono un aiuto a capire, e sperabilmente a provare a vivere, ciò che stiamo celebrando. La prima Lettura (Is 50,4-7), preparandoci al racconto della Passione, fa dire profeticamente a Gesù: «Non mi sono tirato indietro, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi». La frase è ripresa alla lettera da san Bernardo che, in un sermone per la Vigilia di Natale (II, 3), scrive: «Sono confitto nel fango profondo» cui segue un commento estremamente significativo: «È chiaro che il fango siamo noi, perché dal fango siamo stati plasmati. Ma allora eravamo il fango del paradiso, ora invece siamo fango dell’abisso. “Sono confitto”, dice, “non sono passato oltre, non mi sono tirato indietro; sono con voi sino alla fine dei secoli”» (IV, 7).

Non è difficile portare nell’oggi questo esempio di Gesù. Pensiamo a quanti oggi soffrono persecuzioni per la loro fede, o perché testimoni della giustizia e della solidarietà contro tiranni e prepotenti di vario stampo. E pensiamo anche a quando e quanto noi, davanti al dolore, nostro o altrui, ci siamo tirati indietro.

La seconda Lettura (Fil 2,6-11) è un inno creato nelle prime comunità cristiane in cui il “paradosso” di cui si è detto trova una delle sue espressioni più belle, anche perché non dice solo che due cose apparentemente opposte stanno assieme, ma che soprattutto, una è legata all’altra, così che quello che è chiamato “abbassamento” è in realtà la premessa e il passaggio obbligato per una “elevazione” e, ad aggravare il contrasto immenso tra i due capi del problema, l’“abbassamento” arriva fino al niente della morte e del nulla, mentre l’“elevazione” raggiunge i cieli, con una pienezza che include la terra e il sottoterra.

Questo era un inno, un canto, e tutti sappiamo quanto conti il canto a darsi coraggio, a sentirci stretti in comunione, a dare iniezioni di gioia e di speranza. È inevitabile chiedersi: che posto ha il canto nella pratica pastorale? Se è buono e ben fatto, penso abbia su noi un peso molto più alto delle parole che spiegano!

Un invito pieno di malizia

Del lungo racconto della Passione secondo Matteo, si potrebbero sottolineare un paio di punti.

Il primo è in continuità con quanto detto sin qui, ed è la «tristezza e angoscia» provata da Gesù al Getsemani, aggravate dall’abbandono dei discepoli «addormentati» e dal “tradimento” di Giuda, che Gesù continua a chiamare «amico». Sono tutti i drammatici segni che mostrano in modo inequivocabile a che livello è sceso Gesù nel suo “abbassamento”.

Ricordo ancora come, negli anni della mia fanciullezza, alla scuola delle suore di Madre Cabrini, fui educato alla devozione al Sacro Cuore, nella quale una delle pratiche più frequenti era l’esercizio mirato a “confortare” Gesù nella sua agonia, attraverso una preghiera litanica in cui il ritornello era: «Noi vi consoleremo, Signore».

Nell’adolescenza e oltre presi l’abitudine di tenere sempre davanti a me l’immagine di Gesù nel Getsemani, una scuola costante di “compassione” per coloro che si fossero trovati in qualche forma di agonia e di abbandono.

Poi avrei scoperto il Pascal di «Gesù è in agonia sino alla fine del mondo» e, più tardi, Giuliana di Norwich che, in qualche modo, ne spiega e ne dilata il senso: «In questa semplice parola “peccato” nostro Signore ricordò alla mia mente in generale tutto ciò che non è buono, e il vergognoso disprezzo e l’immensa umiliazione che egli sopportò per noi in questa vita, e la sua morte e tutte le pene e le passioni di tutte le sue creature, nello spirito e nel corpo» (Una rivelazione dell’amore, c. 27, p. 193-194).

L’incontro con questi due grandi maestri spirituali mi avrebbe confermato in una convinzione che io avevo imparato, anche se in modo inconscio, per esperienza fin dagli anni della scuola materna. Perché poi il discorso non si ferma a vivere la compassione e la solidarietà insieme, uniti nel cuore di Cristo, ma anche a condividere la convinzione che la stessa Giuliana esprime nel medesimo capitolo: «Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene, e tutto sarà bene, e ogni specie di cosa sarà bene» (p. 193).

Il secondo punto fissa lo sguardo sul momento della crocifissione. Brutalizzare un moribondo con beffe e insulti è davvero un comportamento spregevole. In quel «Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce» è inevitabile risentire la voce del diavolo delle tentazioni che lo invitava a dimostrare la sua potenza con il liberarsi miracolosamente dalle difficoltà.

Ma, a chi chiedeva segni di “potenza”, Gesù risponde con segni di “pazienza”. La grandezza di Dio, e del suo Figlio, sono proprio la benevolenza e il perdono, atteggiamenti che, sotto un’apparenza di cedimento e di fragilità, si rivelano in realtà veri segni di forza, non quella che opprime, ma quella che salva. Perché è vero che – scrive san Bernardo – dietro a quelli che sbeffeggiavano e insultavano il crocifisso, stava il diavolo, il quale sapeva benissimo che, se Cristo fosse sceso dalla croce, l’opera della salvezza, che da quella morte dipendeva, sarebbe fallita. Ed è vero che – come scrive in un sermone per la Pasqua – «il suggerimento malizioso (scendere dalla croce) tendeva certamente non a portarli a credere, ma a far sì che la nostra fede in lui, se ce n’era, perisse del tutto» (S. I, 4).

Il grido di Gesù fisicamente è legato allo stato di soffocamento di cui muoiono i crocifissi, che prende voce nel primo versetto del Salmo 21, che lancia nel vuoto una domanda che sembra non trovare risposta. Come sappiamo, Luca e Giovanni traducono il grido con parole di tutt’altro tono.

Il pio esercizio delle “Sette Parole” è sempre valido, forse più della Via Crucis. Bisogna tenerle tutte insieme. E, a proposito del «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?», si dovrebbe leggere tutto il salmo – e forse Gesù mentalmente può averlo pregato –, perché è una preghiera che ondeggia tra desolazione e speranza, ma che termina in modo glorioso, e in sé costituisce uno schema di lettura di tutta la storia, dalla morte alla risurrezione. Nel suo zigzagare, il salmo è anche una lettura di ciò che prova il credente, chiamato pur sempre a misurare la sua fede davanti a un «segno di contraddizione»!

 

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